LA COMUNICAZIONE NELLA SOCIETA’ MULTIETNICA – 5a lezione

Conservare, padroneggiare, distruggere.

Con una nota sul concetto di futuro.

Non potendo dominare la natura gli uomini vogliono padroneggiare il mondo che hanno costruito, con il risultato che sempre più spesso lo danneggiano. 

Possiamo dire che fin dall’antichità questa illusione guida le azioni degli i uomini.  Perché? 

Sostanzialmente perché, come suggerisce la filosofia, le fondamenta del mondo sono immaginarie e le sue costruzioni sono simboliche, in una, sono “umane”. 

La speranza di dominarlo si fondava, ieri, sulle religioni e le ideologie, oggi, sulle arti, la tecnica e la manipolazione storica.  In pratica, cambiano le circostanze, non gli obiettivi. 

Nello specifico è la ragione per il quale nella post-modernità, la fiducia nell’arte è ancora così importante, anche se il suo destino, a dispetto da quello che vogliono gli uomini, è spesso il frutto di una odissea di fatti contingenti, che determinano, spesso in modo assolutamente casuale, il mantenimento o la distruzione degli “artefatti” 

Se guardiamo alla storia europea, l’amore, la passione, la volontà e il potere non sono mai stati sufficienti a proteggere le opere dell’uomo dalla furia della natura e dal corso del tempo.   

Anche se, paradossalmente, molte volte è stata questa stessa furia che le ha conservate

Una delle città più offese da questa furia è, ancora oggi, una di quelle meglio conservate: la città di Pompei

I soli grandi bronzi dell’arte greca che conosciamo sono quelli che gli archeologi hanno recuperato in fondo al mare.  Vittime, come i bronzi di Riace, di naufragi o di affondamenti. 

Dal punto di vista di una “storia materiale” o “funzionale” della società l’arte appare come un resto! 

Cosa significa?  Lo illustra bene un’osservazione tratta dall’urbanistica. 

Quasi tutti i centri storici più antichi nelle città europee, spesso non sono altro, con una metafora, che delle morene, vale a dire, un accumulo di detriti lasciati lì dai ghiacciai della storia

Di fatto, la parte (trascurabile) di un tutto.  

Su questo punto c’è un esempio significativo. 

La più importante espressione artistica realmente inventata dal nostro tempo è stata il cinema. 

Ebbene, il cinema è l’arte che più ha sofferto nella modernità di disinteresse e colpevoli distruzioni. 

Metà almeno della produzione di lungo-metraggi muti, cioè di film a partire dalla nascita del cinema, si sono autodistrutti, perché il nitrato d’argento, che componeva sulla pellicola le immagini, non è durato più di cinquanta anni o, come spesso è accaduto, è stato recuperato per altri scopi, nell’indifferenza generale, perché più convenienti.     

Per essere più precisi è stato stimato che i quattro quinti della produzione cinematografica mondiale compresa tra il 1890 e il 1920 è sparita per sempre.  

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Tecnicamente la pellicola è un lungo nastro, o striscia, di triacetato di cellulosa (o poliestere, (tereftalato di polietilene, più utilizzato perché particolarmente resistente e sottile), ricoperto con uno strato di una emulsione sensibile alla luce.  Un’emulsione in cui dei microcristalli di alogenuri d’argento sono dispersi in una soluzione gelatinosa trasparente.  Quando sono esposti alla luce questi microcristalli subiscono delle modificazioni chimico-fisiche che li rendono scuri dopo il trattamento di sviluppo, i microcristalli non colpiti dalla luce sono invece eliminati e lasciano piccole aree chiare nella pellicola. Si ottiene così un’immagine negativa della scena originale da cui successivamente si ottengono, per sovrapposizione delle copie positive.      

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A parte il cinema, più in generale, dappertutto nel mondo e per secoli, le grandi religioni – a cominciare dal cristianesimo per finire all’Islam – hanno saccheggiato, distrutto e bruciato. 

C’è poi il vandalismo politico che ha sempre giustificato tutto, a cominciare da quello più odioso, il vandalismo militare, considerato che l’uno è la continuazione dell’altro con altri mezzi. 

Queste forme di vandalismo hanno sempre imperversato nella storia e, nella loro opera di distruzione, sono state affiancate, nella modernità, dal vandalismo economico

In molte aree dei paesi in via di sviluppo, per fare un caso di specie, la giustificazione per i lavori di restauro, di rifacimento e di modernizzazione del territorio, è spesso servita a mascherare – con la complicità dei paesi sviluppati – le speculazioni finanziarie più convenienti. 

Come gli stessi giapponesi riconoscono, la bella e imperiale Kyoto, in Giappone, una delle poche città risparmiate dai bombardamenti americani della seconda guerra mondiale, oggi è completamente devastata dalla speculazione immobiliare. 

Oramai è ovvio che oggi non serve più il fanatismo ideologico per distruggere, così come non è più necessario teorizzare la distruzione per motivi funzionali allo sviluppo economico. 

È il sistema stesso che lascia fare mascherandosi dietro le motivazioni più diverse, da quelle artistiche a quella umanitarie

Diceva il grande architetto Frank Lloyd Wright: “le opere dell’uomo da sempre si succedono e si rimpiazzano come le foglie degli alberi”.  

Va anche aggiunto che da qualche anno a questa parte la velocità che caratterizza questi azzardi abbellitivi in nome della modernità ha cominciato a spaventare e ha fatto nascere, a livello di esperti e di opinione pubblica, qualche dubbio. 

Del resto, la nostra epoca è anche la prima che ha preteso di conservare il passato a fianco del presente, forse per meglio dominare il presente in nome del passato.   

In altre epoche gli scrupoli sono stati minori o inesistenti. 

I grandi costruttori di cattedrali sono stati i più grandi distruttori di opere d’arte del passato. 

Un esempio.  La cattedrale di Chartres, con cui gli architetti templari inaugurano il gotico in Europa, rimpiazza un’ammirevole cattedrale romana, della quale non possediamo che pochi disegni. 

La cosa non cambia tra i pittori e gli scultori.

Michelangelo ha distrutto le terme di Diocleziano per costruire la basilica di Santa Maria degli Angeli

Gli affreschi del Perugino, che si trovavano nella cappella Sistina, sono stati distrutti per lasciare il posto a Michelangelo e, se vogliamo dare credito al Vasari, le stanze del Vaticano di Raffaello erano già state dipinte da Piero della Francesca e Luca Signorelli

Le Stanze di Raffaello sono quattro sale in sequenza che fanno parte dei MuseiVaticani e sono così chiamate perché affrescate dal grande urbinate e dagli allievi della sua bottega. 

Nel 1506 papa Giulio II  fa abbattere la venerabile chiesa di San Pietro per farla ricostruire dal Donato di Angelo (1567-1643) detto il Bramante. 

L’espressione di vandalismo la dobbiamo all’abbé e vescovo Henri Grégoire che nel 1794 presentò alla Convenzione della Rivoluzione Francese un Rapporto sulle distruzioni operate dal vandalismo dei rivoltosi.   

Grègoire scrisse: “Ho elaborato questo concetto per aiutare gli uomini a sconfiggere la cosa”. 

Ma anche lui peccava di ambiguità perché è quello che suggerisce a Napoleone di portar via dall’Italia, in caso di vittoria delle armi francesi, perlomeno l’Apollo del Belvedere e l’Ercole Farnese. 

Esiste anche un particolare vandalismo è quello che rivendica un certo assolutismo, che rompe per osservare e distrugge per conservare. 

Diciamo che è l’atteggiamento scientifico-sperimentale di molte grandi multinazionali che, nelle sue espressioni più sordide, da anni infligge danni all’equilibrio dell’ecosistema.  .  

Va detto che molto del vandalismo dell’antichità aveva motivazioni superstiziose spesso recuperate, come alibi, dal fanatismo moderno. 

Ricordiamo i cavalieri mussulmani che si accanirono contro il volto dei Budda nella valle di Bamian, a un centinaio di chilometri a nord-ovest di Kabul, esattamente come hanno spesso fatto gli studenti integralisti di teologia, i cosiddetti talebani.   

Nel 1203 a Costantinopoli il popolo distrusse la statua di Atena, la dea Minerva dai romani, uno dei capolavori di Fidia (quarto secolo prima dell’era comune), perché la mano stesa della dea sembrava che indicasse la strada agli invasori. 

Dio stesso, del resto, ha dato un buon esempio agli uomini con il diluvio… o meglio, è quanto hanno creduto gli uomini pensando la potenza di dio.

In seguito, con la Rivoluzione Francese, si cominciò a delineare una certa distinzione tra la funzione ideologica e la funzione estetica dell’opera d’arte.   

Furono i giacobini ad affrontare per primi e su larga scala il problema di come abolire il passato che detestano e di come conservare quello che di esso ammirano. 

Un esempio. 

Per festeggiare l’anniversario della caduta della monarchia decisero di distruggere le tombe e i mausolei dei re contenuti nella chiesa di Saint-Denis, ma lo stesso giorno (10 agosto 1793) annunciarono l’apertura del Louvre o meglio, del Musée central des Arts. 

Un museo che in qualche modo nasceva kantiano, per così dire, perché all’insegna del principio della finalità senza fine, come deve essere l’opera d’arte secondo il pensiero di Immanuel Kant. 

Non per caso nel documento che istituisce il Louvre, si distingue tra ciò che è arte e ciò che le opere d’arte possono rappresentare. 

Nella successiva seduta del 7 settembre del 1793, la Convenzione, a questo proposito, dichiarò che ci sono monumenti e opere d’arte che sono oggetto di idolatria da parte del popolo e che, per questo, devono essere tenuti separati da esso.   

Questi stessi monumenti e queste opere d’arte, però, era necessario che continuassero ad esistere per nutrire l’ammirazione dei cultori dell’arte e stimolare l’emulazione negli artisti. 

La creazione dei musei, nel corso della storia moderna, corre parallela alla nascita delle Nazioni, è come se tra queste due istituzioni ci siano delle sinergie segrete sul piano formale. 

In ogni modo a partire dalla Rivoluzione Francese, i musei finiscono per ammassare troppe opere sotto l’etichetta di arte, che portano a non poche contraddizioni. 

Si sviluppa così una certa mentalità discriminatoria fondata su un pregiudizio di comodo: le sale dei musei sono luoghi di rispetto, i depositi luoghi di oblio.    

Ci penserà la speculazione economica del Novecento a produrre un cambiamento significativo, quando i depositi si trasformeranno in riserve, in un mondo misterioso e indefinito dove riposa sotto la polvere il resto del resto da riclassificare

Lasciando da parte il Louvre, il primo museo del mondo occidentale di una certa importanza è l’Ashmolean di Oxford.   

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L’Ashmolean Museum of Art and Archaeology fa parte del sistema museale dell’Università di Oxford.  Fu fondato nel 1683 ed è uno dei musei pubblici più antichi al mondo e il più antico in Europa. Si trova dislocato nella Beaumont Street, nel centro della città.

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In assoluto, invece, si presume che sia quello di Sho Shoin presso un monastero vicino Nara, dalle parti di Okasa, in Giappone. 

Risale all’ottavo secolo e conteneva i tesori dell’imperatore esposti all’ammirazione dei sudditi. 

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L’origine degli aquiloni usati, come raccontano le leggende, per rubare in luoghi inaccessibili, suggerisce molte cose sulla popolarità di questi tesori e di questi luoghi, soprattutto in una terra in cui i “ladri”invece di essere disprezzati “rubavano”, dal punto di vista dell’ammirazione, la scena agli artisti.     

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È il momento di fare una distinzione, perché una collezione non è un museo. 

Nella lingua italiana esiste il termine “collezionismo” per indicare una passione che precede di almeno tre secoli l’istituzione del museo.  

Va anche notato che in molte lingue neo-latine il termine ha spesso una valenza psichiatrica, come in francese, in cui il collectionisme è una tendenza patologica a raccogliere oggetti senza motivazioni estetiche o scientifiche.   

È come dire che le collezioni possono essere definite dei deliri enciclopedici di cui ce ne sono almeno due tipi. 

– Le collezioni dirette alla comprensione scientifica del mondo o del reale, cioè, dell’universo. 

– Le collezioni che vogliono prelevare dal mondo tutto ciò che appare bizzarro, diverso, pittoresco.

L’obiettivo di queste collezioni, in passato, era di appropriarsi dello statuto del reale o del senso della rarità.  Esprimevano lo stesso progetto, rivelare la presenza visibile di una realtà invisibile attraverso la figura retorica della sineddoche: la parte (il frammento), che vale per il tutto. 

Sigmund Freud diceva che non per caso i collezionisti soffrono delle stesse forme di gelosia degli amanti! 

Più poeticamente, il collezionismo era un desiderio impossibile di completezza, o di ricostruzione di una completezza perduta attraverso l’accumulo di segni parziali.

Quando l’uomo è entrato nella storia ha perduto il suo “paradiso” (giardino), vale a dire, in chiave metaforica, l’illusione della totalità…adesso tutto diviene!

Parlando di collezioni vanno ricordati anche i gabinetti di curiosità che nascono intorno al XVI secolo.  Ad essi si attribuiva un potere magico, perché la meraviglia non poteva non generare meraviglia. 

Samuel Quiccheberg (1529-1567), medico olandese, consigliere artistico del duca di Baviera, nel 1565 scrisse un trattato sull’arte di “governare” queste collezioni, definite dei teatri che abbracciano le materie più singolari e le immagini più eccellenti della totalità delle cose del mondo. 

Questo trattato è considerato il primo studio organico sulla museologia.     

L’idea di un theatrum mundi è, in fondo, il desiderio di diventare i signori di un microcosmo che sappia esprimere o, meglio, che sappia rendere visibile e didascalico il mito dell’enciclopedia. 

Ricordiamo il più grande teatro del Rinascimento, quello di FrancescoI dei Medici (inspirato all’idea di teatro di Giulio Camillo detto Delminio (1480-1544), milanese d’adozione, umanista e filosofo, mago, cabalista ed autore di un Teatro della memoria o, della sapienza) in pratica, di un teatro inteso come lo spettacolo delle strutture profonde del sapere universale. 

Quanto al gabinetto delle meraviglie di Francesco I di Francia (1494-1547) è stato così descritto: “Un grande studio con una atmosfera notturna, dove gli oggetti sono collocati in una scenografia che esprime le mille analogie segrete che innervano il mondo”. 

Poi, nel 1753 viene istituito il British Museum.  Questo museo è una ulteriore conferma dell’orientamento enciclopedico che fu delle collezioni precedenti.  Raccoglieva di tutto perché, come scrissero i suoi ideatori, “tutte le arti e tutte le scienze hanno dei legami tra di loro”. 

Una tesi che mostra una tendenza, quella di abbandonare la singolarità per la ricerca dell’universale.   

Una tendenza che ritroveremo nella voce Louvre dell’Enciclopedia, nel 1765, nella quale si prende posizione in favore del raggruppamento delle collezioni di Belle-Arti e di Storia Naturale nello stesso palazzo.  In prospettiva potremmo dire che questa tendenza segna la nascita del museo totale.

Qui, museo totale significa che la Rivoluzione Francese concepì il museo come “un tempio della natura e del genio”.  (Dagl’Atti della Convenzione.) 

Un modo per ignorare o non considerare le barriere che separano la natura dalla cultura.  Questo museo, di fatto, non verrà mai realizzato e sarà sostituito da tre istituzioni: il Louvre vero e proprio.  Il “Museo di storia naturale” e il “Conservatorio nazionale di arti e mestieri”. 

Alla fine dell’Ottocento all’idea di museo totale subentra quella di museo universale.  Questo perché, uno, non tutto è arte.  Due, tutta l’arte deve o può essere raccolta. 

Con la modernità è il “come-si-vede” che muta.  Se definiamo lo sguardo come il movimento grazie al quale il soggetto conferisce un senso al mondo, il museo è stato l’invenzione dello sguardo educato. 

Ma che cosa è successo al collezionismo di una volta? 

Si è di fatto degradato a bric-à-brac à la mode, è finito nei mercatini delle pulci. 

Torniamo in argomento.  C’è un principio delle cultura politica europea dopo il Congresso di Vienna del 1815 che è entrato di prepotenza nel campo dei musei, è quello della rappresentazione

Nelle stesso modo nel quale i deputati rappresentano la nazione, il museo vuole rappresentare il mondo, rinchiudendolo. 

Ma la realtà è molto più complicata.

Jean-Francois Champollion (1790-1832), colui che ha decrittato i geroglifici della stele di Rosetta, ha dovuto battersi a lungo per far accettare l’ingresso al Louvre delle collezioni egiziane. 

La prima piccolissima sezione fu inaugurata nel 1827.    

Da dove nasceva la resistenza? 
Dal fatto che Johann Winckelmann (1718-1768), un archeologo tedesco, studioso dell’arte romana, che scrisse una Storia dell’arte dell’antichità (nella quale è contenuto il “manifesto del neoclassicismo”), partendo dall’arte greco-romana, aveva stabilito dei canoni che escludevano di fatto l’ammissione nei musei europei dell’arte non-europea. 

L’arte di provenienza asiatica incontrò le stesse difficoltà. 

L’arte africana, poi, dovette attendere il Novecento, esattamente come l’arte dell’Oceania, o meglio, dovette attendere la strampalata avventura del cubismo, che vide nel primitivismo africano un esito formale alle sue speranze di dare un senso alla crisi del senso. 

Questo naturalmente perché il primitivismo fosse considerato una forma di arte, come curiosità, invece, abbondavano nelle collezioni private, soprattutto di coloro che vedevano nella negritudine una moda esotica.     

Non è per caso che il locale più alla moda tra gli artisti della decade dell’illusione (1930-40) fosse il famoso Bal Negre della rue Blumet.   

C’è poi un’altra espressione artistica che è entrata nei musei, è quella degli oggetti definiti primitivi

 Un tempo erano confinati nei musei di storia naturale, con il risultato che, delle preziose opere di oreficeria o di arte applicata erano collocate a fianco dei soliti coccodrilli impagliati o a degli strumenti di lavoro e di caccia, come sono i coltelli o le asce.   

Nel caso di questi oggetti è interessante considerare la loro tappa intermedia.  È costituita dai musei di etnografia

Questi musei rappresentarono un benevolo e spesso coloniale riconoscimento della cultura dei popoli primitivi. 

In altri termini, in principio, si preferì accettare come cultura quello che si rifiutava di accettare come arte.  

Proviamo a riflettere su questo.   

La statua di una Vergine o di un santo esposte in un museo non le si considera solamente come espressione della cultura e della società del suo tempo.   

Perché allora non si tratta allo stesso modo una maschera dogon

Un aneddoto racconta che il grande musicista Hector Berlioz (1803-1869), invitato ad un concerto di musica cinese, si sia alzato a metà dell’esecuzione esclamando:  “Ma questa non è musica!” 

Cosa dire?  Il grande Berlioz, in questa circostanza, non si è comportato da musicista moderno. 

Molto faticosamente le cose stanno cambiando, tutti oggi dovrebbero possedere gli strumenti per comprendere l’universalità delle arti, perché sono gli stessi strumenti che ci permettono di definire la modernità e la civiltà. 

Quello che abbiamo detto per l’arte vale anche nel campo della letteratura. 

In principio (a partire dai primi anni dal XVIII secolo) si sono raccolti documenti sui miti, le leggende e i racconti dei popoli soprattutto per ragioni etnografiche, solo in seguito questi documenti sono stati presi in considerazione come forme letterarie. 

Interessante, in questo ambito, è stato il percorso delle biblioteche. 

L’idea di biblioteca è greca, nasce all’interno della Scuola di Aristotele intorno al IV secolo avanti cristo.    

La biblioteca di Alessandria è il suo modello più riuscito, raccoglieva “tutti” i libri del mondo, greci e barbari, moderni ed antichi.  Era un microcosmo compiuto che influenzava la stessa cultura artistica. 

È lì che i poeti alessandrini (da non confondere con gli omonimi versi francesi del Roman d’Alexandre del XII secolo), cercheranno un altrove allo spazio e al tempo capace di arricchire le loro opere.  È lì che la metamorfosi della lettura compie il suo destino, diventa scrittura.  

Nel campo delle lettere i grandi testi del India, della Cina e del Giappone cominceranno ad essere tradotti in Europa nel XIX secolo. Qualche tempo dopo sarà la volta delle tradizioni orali, come quella africana, ma la velocità di distruzione di queste culture è più veloce di quella della loro conservazione. 

C’è un bellissimo proverbio africano che dice: Quando un africano muore è come se una biblioteca bruciasse! 

La cultura occidentale ha dovuto prendere coscienza da tempo e a sue sspese del fatto che il tempo della storia non è il tempo della natura e che non è la polvere che rischia di ricoprire le rovine del passato, ma l’oblio.    

Perché non c’è identità senza memoria e non c’è memoria senza segni.

Tra i segni maggiori nel mondo dell’arte ci sono i monumenti

Il monumento come è inscritto nel suo etimo, è ricordo e il compito del ricordo è di proteggere dalla morte.  Ma monere, in latino significa anche ammonire. 

I monumenti preservano il passato e non dovrebbero diventare dei sostituti del desiderio di eternità, piuttosto invitare a riflettere sul tempo che brucia la vita. 

Nell’antico Egitto i monumenti difendevano dalle offese della morte.  Per questo le Piramidi sono diventate con il tempo il monumento per definizione. 

Il problema è, da quale morte proteggono? 

Con la Rivoluzione Francese nascono i primi rapporti veritieri su ciò che la furia delle armi e delle passioni ha distrutto o ha salvato. 

Nasce, come abbiamo già visto, l’idea di vandalismo, ma insieme nasce l’idea di patrimonio culturale

Per la nascente borghesia la forma di valore ha in sé la sua salvazione e, la sua liturgia, si manifesta nel fare.    

A partire dalla Francia si comincia ad esigere, da parte delle istituzioni dello Stato, minuziosi inventari delle collezioni pubbliche e private, libri compresi. 

Per il patrimonio librario ci sono molte ragioni, non ultima il fatto che fino alla fine del ‘700 il modo di conservare la memoria dei monumenti fu essenzialmente libresco. 

Tra il ‘500 e il ‘700, infatti, i monumenti erano repertoriati, studiati e disegnati solo sulla carta come segni del passato. 

La rivoluzione francese che ne ha bruciati molti è stata anche quella che ne ha elaborato il lutto creando il Musée National des Monuments François destinato a raccogliere, in ordine cronologico, soprattutto le statue e i frammenti delle chiese medioevali distrutte. 

Solo intorno alla metà dell’800 la coscienza di “monumento storico” comincia a farsi strada nella cultura europea.  Questa coscienza è il frutto di una duplice riflessione.   

Quella di una presenza irrimpiazzabile e quella di una perdita irrimediabile.       

In altri termini i monumenti diventano lo strumento attraverso il quale una civiltà s’interroga sul proprio passato. 

La distinzione più elementare tra i monumenti, almeno fino alla fine dell’800, è stata quella dell’intenzionalità, vale a dire si giudicavano per quello che celebravano

Nel ‘900, invece, si fa strada quella dell’antichità che, in qualche modo, oggettivizza le regole e le priorità di giudizio negli interventi conservativi. 

È come dire che, da questo momento, quello che conta non è il passato, ma la distanza da esso. 

Torniamo ai libri. 

Con l’ingresso nell’era della riproducibilità tecnica la catastrofe della Biblioteca di Alessandria non è più possibile, con essa, però, si è andata sviluppando una strana ossessione: neanche un rigo di testo deve sfuggire delle opere dei grandi scrittori. 

Nasce il mito delle Sämtliche Werke, dei Complete Works, delle Opere Complete… 

Se una parola è cancellata dal manoscritto originale l’editore la pubblicherà come variante. 

Con la stagione dello strutturalismo, poi, tutto fa senso, diviene significato, nulla è trascurato: esitazioni, errori, pentimenti.

È come se la notorietà fosse un passe-partout che autorizza a violare la distanza tra pubblico e privato.

Madame Bovary non è più un dramma borghese ottocentesco, ma diviene una storia di corna e poi, come per una tela di Pablo Picasso, l’ultimo stadio di un’opera in continua trasformazione che non cessa di “strutturarsi” e di “de-strutturarsi” nell’oceano dei segni. 

Qualcosa di analogo succede anche in musica, dove da molti anni si è imposta la cosiddetta Opera Integrale. 

Un esempio, nel 1991, per il bicentenario della morte di Mozart, è stata registrata un’edizione completa dei suoi lavori costituita da ben 124 compact disc

Nello stesso anno a New York sono state eseguite dal vivo tutte le sue opere in poco più di cinquecento rappresentazioni. 

Ma c’è di più, quando l’ensemble non esiste si costruisce, non importa come, basta assemblare tutti i frammenti, perché il solo limite riconosciuto è la completezza ossessiva, non importa come è raggiunta.   

Possiamo in qualche modo vedere in tutto ciò come la modernità siadominatadalla pulsione di dare forma all’informe, di compiere l’incompiuto

Così, anche uno schizzo diventa un’opera e si afferma il principio per il quale non esistono più opere impossibili o realmente incompiute.  

È in questa prospettiva che la quantità diventa qualità e, in questo contesto, un posto particolare lo conquistano le immagini. 

Si è spesso detto che esse avrebbero ucciso il libro, ma il libro d’arte non è mai stato così vivo, al contrario si è istituzionalizzato come un bene intermedio tra il museo reale e il museo ideale, introducendo, tra le opere, un ordine non solo cronologico, ma anche immaginario o, nella migliore delle ipotesi, ideologico, che prima non esisteva e che spesso è illegittimo. 

È come se, in qualche modo, la cultura moderna volesse sedare l’ansia da caos, la nevrosi per il disordine senza scopo, re-inventare l’ordine che mette ordine. 

Negli ultimi anni, in quelle che si definiscono la stagione del post-moderno, ci sono poi state altre mutazioni della forma di museo, che in fondo derivano dal suo antico progetto enciclopedista, perché mettere in ordine, per la cultura occidentale è qualcosa di più di mettere in forma, significa mettere al mondo, dare senso al tutto, prevedere il destino, ricomporre la storia.   

I gabinetti delle meraviglie che erano spariti da tempo si sono nuovamente moltiplicati, ma adesso si chiamano musei moderni o, pomposamente, centri multifunzionali e interdisciplinari

Facciamo un passo avanti. 

Da parecchio tempo non si fa più molta distinzione tra museo d’arte, di cultura o di arti applicate e design, soprattutto se si può avere una stessa strategia di merchandising

A partire dai paesi dal nord dell’Europa, dove i processi di distruzione ambientale, sull’onda dell’industrializzazione, furono più precoci e rilevanti e nei quali, di contro, erano scarse le vestigia del passato, si sono affermati, come una moda, i musei etnografici, i musei in plein air, i musei delle tradizioni popolari, i musei dei sensi di colpa, come quelli, meritevoli, sull’Olocausto. 

In questo modo, vecchi telai in legno per tessere, gli attrezzi per il lavoro nei campi, gli oggetti di cucina, gli utensili da maniscalchi e via dicendo, che in molte parti del mondo rappresentano  ancora degli strumenti d’uso della vita quotidiana di milioni di persone, grazie alla tecnica e all’urbanizzazione sono stati promossi al rango di pezzi unici, carichi di poesia, dunque, preziosi e, quindi, artistici. 

Ma se gli oggetti di una bottega di roba vecchia possono aspirare al museo, allora vuol dire che il tutto si può costruire sul niente…ma è legittimo?

Abbiamoun :

– museodella crêpe, come quello di Quimper, in Francia,

– un museo della grappa, come quello di Bassano, in Veneto,

– un museo della pasta come quello che ha aperto al pubblico la famiglia Agnesi. 

Così come abbiamo i musei che gli stilisti di moda costruiscono intorno alla loro filosofia.

E questo solo ricordarne qualcuno. 

In Inghilterra è stato perfino aperto un antimuseo, cioè, un museo per raccogliere gli oggetti che non sono oggetti da museo! 

In questa prospettiva non è difficile immaginare che uno dei prossimi passi di questa museografia sarà un museo dei musei. 

Tuttavia, questo enciclopedismo del museo moderno non è quello illuminista. 

Oggi, il museo ha una vocazione didascalica, didattica, le opere sono quasi sempre accompagnate o, forse, sarebbe meglio dire, protette da schizzi preparatori e da testi esplicativi. 

In altre parole, l’arte deve essere compresa, deve diventare un oggetto di conoscenza, è come se il museo costituisse un prolungamento della scuola.        

In ultima analisi, nella società dello spettacolo il museo è diventato un vero e proprio luogo sociale, che riunisce tutti.  Nella stesso modo con cui, ieri, il bazar riuniva i beduini del deserto, nello stesso modo, oggi, i centri commerciali gestiscono la paccottiglia mercantile per le giovani generazioni.   

La prudenza sociologica, per definire ciò che i musei sono diventati, ha inventato dei paragoni significativi. 

In effetti il museo moderno ha la stessa forma sociale di altri luoghi sociali come sono l’ospizio, l’ospedale, la scuola, la caserma. 

Nella sostanza, invece, il museo moderno ricorda la scuola, per la sua vocazione didattica e storicizzante. 

La prigione, con i suoi sempre più sofisticati strumenti di controllo e sorveglianza, con le sue barriere e con i suoi luoghi interdetti o riservati. 

Forse anche l’ospedale, con i suoi gabinetti di restauro, i suoi piani di disinfezione, il controllo dell’umidità e della temperatura, i suoi silenzi, la sua vocazione a raccogliere le cose ferite o deteriorate.  

Chi si scandalizza più, oggi, nello scoprire un manifesto di Sarah Bernhardt esposto al fianco di una tela di Manet

Le opere quando devono coesistere si annichiliscono reciprocamente e finiscono per assimilare il museo ad un mausoleo. 

Quanto all’illusione di “guardare tutto” è un’illusione di dilettanti, perché le scelte o i partiti presi sono inevitabili, perché esiste una reale stanchezza dello sguardo che colpisce i visitatori ingordi. 

Accumulare senza discernere, del resto, è sempre una strategia nichilista, perché essa rifiuta di fatto ogni valore e rinuncia ad ogni esclusione.  Così facendo, però, impone suo malgrado dei nuovi valori o dei nuovi dis.valori che non hanno niente a che fare con l’arte.

Va aggiunto che il museo, come centro di attenzione, è divenuto un ottimo strumento per vendere gadgets o copie degradate dei suoi tesori. 

Tutti, oggi, possono avere una copia dei gioielli che Cesare regalò a Cleopatra nell’immaginazione di un artista barocco o neo-classico. Basta far finta di non vedere la loro cattiva fattura ed essere disposti a spendere molto di più di quanto intrinsecamente valgono.     

Tuttavia, il museo moderno alla resa dei conti, non è solo nichilista, è anche totalitario

Sempre più potente e indifferente a chi lo nega è riuscito a riempire le sue sale anche di quelle opere che lo contestano e lo deridono. 

È come dire che, sul piano delle poetiche, il museo moderno è stato capace di banalizzare la “non-arte” o l’”anti-arte” riservando ad esse delle intere parti del suo complesso. 

I musei sono pieni delle opere di coloro che lo hanno contestato o che volevano bruciarlo, ma questa, più che una rivincita della ragione, è l’arguta strategia del tutto nei confronti della parte, della forma di merce nei confronti del dis.valore. 

Un orinatoio in un museo di New York è oggi meta di lunghe processioni di amanti dell’arte, nessuno si ricorda l’obiettivo del suo autore: di demoralizzare la sua epoca! 

Si può dire che la politica vincente della “museificazione” è l’inglobamento, niente le sfugge, avvalla tutto, digerisce tutto, “seda” tutto. 

E questo a che conclusioni ci può portare? 

Come l’”anti-arte” ha finito per ingrossare le fila dell’arte che voleva distruggere, l’antimuseo finisce per essere solo una forma di museo in più. 

Il nemico respinto finisce sempre per arricchire i vincitori! 

Da una parte ci sono gli iconoclasti, i musei non hanno più un senso.  Dall’altra, se guardiamo la storia dell’uomo con disincanto, la stessa rivoluzione neolitica (con l’invenzione dell’agricoltura e della lavorazione della ceramica) rappresenta l’avvenimento fondatore di ciò di cui il museo è l’estrema eco. 

Il tempo cancella, lo spazio disperde. 

Una parte notevole degli sforzi dell’uomo è da sempre indirizzata a gelare il tempo e a condensare lo spazio

Tra gli antichi granai, che consentivano di conservare il cibo, e il museo contemporaneo, a ben guardare, non c’è soluzione di continuità.  

Se poi è vero, come dicono i filosofi che non può esserci una memoria totale, il museo allora non è altro che un tempio della memoria selezionata.

Purtroppo resta in sospeso ciò che c’è di essenziale in questa operazione: Selezionata da chi? 

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Un inciso.

Ce qui arrive
Pensata da Paul Virilio – di formazione artista del vetro, urbanista di mestiere, filosofo per elezione, saggista tanto prolifico quanto poco tradotto in Italia – Ce qui arrive (ciò che accade) si staglia nell’attuale panorama critico-espositivo come una vera e propria sfida.  

Due le ragioni principali.
Innanzitutto per le intenzioni: esporre l’incidente, attraverso una serie di documenti televisivi e di installazioni video.  Immagini catastrofiche che si susseguono negli spazi oscuri del sottosuolo, cui si discende dopo la visione della scultura di rovine di Nancy Robbins: cinque tonnellate di lamiere, fusoliere e altri resti di aerei affastellate e sospese dal suolo, che ci invitano ad esporci al rischio di passarvi sotto.  Un’opera che sospende la gravità e rapprende l’istante della caduta, il momento senza misura prima della distruzione.  Dalle riprese del crollo del World Trade Center, testimonianze fortuite di artisti come Tony Oursler, ai montaggi di immagini d’archivio della conquista spaziale (Artavazd Pelechian), la mostra passa in rassegna indistintamente catastrofi naturali e nucleari.

Da ricordare inoltre Tonight So Lovely di Cai Guo-Qiang che ha ripreso lo spettacolo pirotecnico da lui organizzato nel cuore di Shangai in occasione dell’APEC (Conferenza Asia Pacifico) svoltosi dopo l’11 settembre.  In occasione della mostra a questo schermo si affianca la proiezione della versione ufficiale del governo cinese, che ha vietato le strade ai cittadini per imporre la diretta televisiva con sottofondo musicale e voice-off.  Un vis-à-vis sintomatico che fa implodere quello che Virilio chiama l'”otticamente corretto”, la regia delle autorità – pervasiva quanto dissimulata, ipocrita quanto grottesca.
Come giustificare tuttavia il cortocircuito fra attentato e incidente?  

La mondializzazione, in sintesi, tende sempre più a confonderli, o meglio a disporre dell’incidente come di una strategia di guerra.  Così l’11 settembre, attentato terroristico sotto forma di “incidente volontario”, evento mediatizzato vicino all’immaginario del cinema americano.  

Se, seguendo la citazione di Freud che apre l’esposizione, “l’accumulazione mette fine all’impressione del caso”, un luogo che impedisca la dispersione e l’oblio degli incidenti, del loro incedere imperscrutabile e disordinato, si rende necessario.  Così è possibile rimettere in prospettiva la differenza fra attentato e incidente; da qui la proposta di Virilio di un museo dell’incidente (di prossima apertura in Giappone).  

Un crash test che non decida la tecnica dalla sua negatività, la sostanza dall’accidente: nave e naufragio, treno e deragliamento, aereo e schianto al suolo…

“Esporre l’incidente per non esporsi più all’incidente”.
(………..dalla rete). 

Il filosofo, pensatore, urbanista, architetto, sociologo, pensatore dal profilo decisamente fuori dal comune Paul Virilio è morto nella sua Parigi il 10 settembre 2018.  Era nato nel 1932.

Citato per anni a ogni piè sospinto dal mondo dell’arte contemporanea, Virilio ha diretto la scuola d’architettura l’Ecole spéciale d’architecture. Suo padre era nato in Italia.
Conobbe il pittore Henri Matisse ed Henri Braque. Si formò dapprima come vetraio. Ha studiato e teorizzato la dromologia, scienza che studia la velocità . Ha studiato anche la tecnologia, o meglio l’ipertecnologia e i suoi effetti sulla vita contemporanea, su come invadano ogni aspetto dell’esistenza, su come ciò comporti dei rischi, sulla tecnocrazia.  

Per Virilio la tecnologia implica che si verifichino incidenti. Ovvero: il disastro ferroviario è conseguente all’invenzione del treno, ideato per avere spostamenti più veloci. Ma, sosteneva, la tecnocrazia cerca di occultare il lato negativo di tali sviluppi.
L’architettura è stato un suo grande amore.  

Fondò nel 1963 con Claude Parent il movimento Architecture Principe, un’architettura che teorizzava edifici svincolati dall’obbligo della linea retta e con Parent progettò la chiesa di Sainte-Bernadette du Banlay a Nevers. 

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FUTURO. 

Nell’ambito di una concezione lineare del tempo, com’è quella occidentale, il futuro è la parte di tempo che ancora non ha avuto luogo. 

In questo senso il futuro è l’opposto del passato (la parte di tempo, momenti ed eventi, che già sono accaduti) e del presente (la parte di eventi che stanno accadendo proprio ora).

Il futuro ha sempre avuto un posto molto speciale nella cultura e in particolare nella filosofia occidentale, questo perché gli uomini hanno sempre avuto bisogno di una predizione degli eventi che accadranno.   

Paradossalmente si può dire che l’evoluzione del cervello umano è in grande parte il risultato dello sviluppo di abilità cognitive necessarie a predire il futuro come sono l’immaginazione, la logica e l’induzione. 

– L’immaginazione ci permette di “vedere” un modello plausibile di una certa situazione senza osservarlo davvero.  

– Le ragioni logiche permettono di prevedere le conseguenze inevitabili di azioni e situazioni e per questo la logica dà utili informazioni sugli eventi del futuro.  

– L’induzione, invece, permette di associare una causa alle sue conseguenze, una nozione fondamentale per ogni predizione del tempo futuro.

Nella storia le figure a cui veniva chiesto di vedere nel futuro, come sono i profeti, gli sciamani o i divinatori, hanno sempre beneficiato di grandi considerazioni e importanza sociale. 

Occorre riflettere sul fatto che in ogni parte del mondo intere pseudo-scienze, come l’astrologia e la chiromanzia, hanno avuto origine dall’illusione di immaginare il futuro.   

La stessa scienza fisica può essere letta come un tentativo di fare predizioni quantitative ed oggettive sugli eventi. 

Va anche considerato che, per strano che possa sembrare, il concetto che il futuro è sempre comunque diverso dal presente risale solo al 1700 e fu originato dai cambiamenti tecnologici.  

Nel famoso libro Lo shock del futuro, Alvin Toffler ha scritto che negli ultimi 50.000 anni si sono succedute circa 800 generazioni, 650 delle quali sono vissute nelle caverne.  

Solo durante le ultime 70 è stato possibile comunicare efficacemente da una generazione all’altra, scrivendo.  Solo durante le ultime 6 le masse sono state in grado di leggere libri stampati.  

Solo durante le ultimo 4 è stato possibile misurare il tempo con precisione.  

Solo nelle ultime 2 sono stati usati motori elettrici. E, la schiacciante maggioranza di tutti i beni di consumo che usiamo oggi, è stata sviluppata dalla generazione di oggi, l’ottocentesima.

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Alvin Toffler (1928-2016) è stato un saggista statunitense, da molti definito come uno dei più importanto futurologhi.  Per anni ha studiato i mezzi di comunicazione di massa e il loro impatto sull’economia, la vita corrente e il mondo della cultura. 

Una delle sue frasi più famose recita: 

Il cyberspazio è la terra della conoscenza e l’esplorazione di quella terra è il più alto compito a cui la nostra civiltà è chiamata.

Tra i suoi studi più significativi ricordiamo The Third Wave (La terza ondata) del 1980 e Powershift che possiamo tradurre come Passaggio di poteri, del 1991. 

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Gustav Eichelberg è un famoso ingegnere svizzero morto nel 1976, ha immaginato di trasformare 600.000 anni di esistenza del genere umano in un percorso di 60 chilometri.  

-L’agricoltura si svilupperebbe solo nell’ultimo chilometro. 

– A duecento metri dalla fine i corridori troverebbero le prime fortificazioni romane, e solo negli ultimi cinque metri vedrebbero aerei, automobili, illuminazione elettrica.  

Tutto questo serve a farci capire meglio come tra una o due altre generazioni il mondo potrebbe essere tanto diverso da quello che conosciamo da non riconoscerlo affatto.     

É una delle conseguenze dell’’avvento del computer domestico e delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. 

Una curiosità. Il primo romanzo ambientato nel futuro, The Reign of King George VI, 1900-1925, fu pubblicato in Inghilterra nel 1763, ma la civiltà del ventesimo secolo era raffigurata in modo esattamente identico a quella del diciottesimo.  

Quello che fece capire alla gente che si stavano preparando avvenimenti nuovi furono le invenzioni del cinematografo. della dinamite, del telefono, della lampadina, del motore a scoppio.  

Il primo numero della rivista McClure’s Magazine, uscito nel 1893, conteneva due interviste con Thomas Edison e Alexander Graham Bell, intitolate Sull’orlo del futuro chein qualche modo cercavano di raccontarlo, col senno di poi diciamo con poca fantasia.    

ll primo vero libro di futurologia apparve solo nel 1901, ancora in Inghilterra, era firmato da Herbert George Wells, l’autore di La guerra dei mondi e La macchina del tempo, si intitolava: Anticipazioni dell’impatto del progresso scientifico e tecnologico sulla vita e sul pensiero umani.  

La sua previsione più azzeccata fu quella che l’automobile avrebbe reso necessaria la costruzione di enormi autostrade e ridotto i tempi dei trasporti. 

Scrisse Wells: “Il cittadino di Londra dell’anno 2000 avrà a disposizione tutta l’Inghilterra a sud di Nottingham e a est di Exeter come sobborgo, e tutta l’area tra Washington e Albany sarà percorsa da cittadini di New York e Filadelfia prima di questa data”.   

E aggiunse: “Nel 2000 Londra avrà venti milioni di abitanti e New York quaranta. La società sarà divisa in quattro classi: ricchi, studiosi, operai e disoccupati, questi ultimi in rapida crescita a causa dell’automazione.” 

La previsione che invece suona ridicola fu quella che nessun sottomarino sarebbe mai stato costruito e che sarebbero occorsi decenni per la costruzione di un aeroplano.

I NUOVI SCENARI SOCIO-DIGITALI.

C’è una importante correlazione che si sta sviluppando tra le ICT digitali (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) e quella che in filosofia è chiamata la coscienza del sé. 

L’espressione indica l’uso della tecnologia nella gestione e nel trattamento dell’informazione, specie nelle grandi organizzazioni. In particolare riguarda l’uso di tecnologie digitali che consentono all’utente di raccogliere, creare, memorizzare, scambiare, utilizzare e processare informazioni (o “dati”) nei più disparati formati: numerico, testuale, audio, video, immagini e molto altro.

Ricordiamo il Ciclo dell’informazione: Generare – Raccogliere – Registrare e immagazzinare – Processare – Distribuire e trasmettere – Usare e consumare – Riciclare e cancellare.  

 Questa correlazione coinvolge sia il nostro modo di confrontarci con l’Altro da noi, che il nostro modo di relazionarci al mondo o, meglio, alla natura materiale delle cose. 

Oramai è un dato di fatto. 

Da almeno una ventina di anni, grazie al digitale, siamo circondati (molti dicono immersi) da/in nuovi e inediti geo-scenari sociali e culturali e dai loro risvolti economici e politici. 

– Diciamo che siamo circondati dalle nanotecnologie. 

– Siamo circondati dall’internet delle cose. 

Nelle telecomunicazioni l’internet delle cose è un neologismo riferito all’estensione di internet al mondo degli oggetti e dei luoghi concreti). 

– Siamo circondati dal web semantico

Con il termine di web semantico – un termine coniato dallo scienziato inglese Tim Berners-Lee – si intende la trasformazione del World Wide Web in un ambiente dove i documenti pubblicati (pagine HTML, file, immagini, ecc…) sono associati ad informazioni e a dati che ne specificano il contesto semantico in un formato adatto all’interrogazione e l’interpretazione. 

In questo modo, con l’interpretazione del contenuto dei documenti delWeb semantico saranno possibili sia ricerche più evolute delle attuali – basate sulla presenza nel documento di parole chiave – sia operazioni specialistiche come la costruzione di reti di relazioni e connessioni tra documenti secondo logiche più elaborate del semplice collegamento ipertestuale. 

– Ancora, siamo utenti del cloud computing

È una tecnologia che consente di usufruire, tramite server remoto, di risorse software e hardware (come memorie di massa per l’archiviazione di dati), il cui utilizzo è offerto come servizio da un provider tramite abbonamento.

– Possiamo usufruire di giochi basati sul movimento del corpo.  Di applicazioni per gli smartphone, per i tablet, per il touch screen.  Abbiamo la possibilità di usufruire del GPS, un sistema di posizionamento satellitare che permette in ogni istante di conoscere la longitudine e la latitudine di un oggetto.

Ricordiamo che i dispositivi muniti di un ricevitore GPS sono tantissimi: navigatori, smartphone, tablet, smartwatch, solo per citarne qualcuno.  

Fino ad oggi sono stati utilizzati soprattutto per tenere sotto controllo la nostra posizione e per ottenere le indicazioni stradali. 

GPS è l’acronimo di Global Positioning System, si tratta di un sistema per il posizionamento globale. 

Grazie al GPS è possibile localizzare la longitudine e la latitudine di oggetti e persone.

Il tutto avviene con i satelliti che stazionano nell’orbita terrestre e permettono di sapere in ogni istante l’esatta ubicazione di un luogo.  

Ricordiamo a questo proposito che i satelliti contengono un orologio atomico che calcola al millesimo di secondo il tempo che passa dalla richiesta effettuata dal ricevitore GPS alle risposte ottenute dai satelliti stessi.

– Non da ultimo siamo immersi nella realtà densificata, tra droni (vale a dire oggetti vollanti radiocomandati), auto che si guidano da sole, stampanti 3D, social media, cyber-guerre…

Sono tutti argomenti che costituiscono un terreno di polemiche tra tecnofili e tecnofobici e un’ampia discussione tra coloro che si domandano che cosa non si comprenda o si nasconda dietro tutto questo? 

Che cosa dobbiamo aspettarci?

E soprattutto, la cosa più importante: possediamo una prospettiva ermeneutica per comprendere tutto questo? 

La difficoltà maggiore è riuscire a comprendere quanto queste tecnologie sono estese e come hanno potuto diventate forze ambientali, antropologiche, politiche, sociali e, non da ultimo, culturali, vale a dire, capaci di interpretare e di trasformare il qui ora dell’esistenza.

Queste nuove tecnologie, a differenza di quelle arcaiche, hanno il potere: 

  • di creare e plasmare la realtà fisica e intellettuale,
  • di modificare la nostra capacità di giudizio,
  • di cambiare il nostro modo di relazionarci con gl’altri,
  • di modificare la nostra Weltanschauung e,
  • differenza importante, sono in grado di fare tutto questo in modo pervasivo, profondo e continuo

In conclusione, volenti o nolenti – noi globalizzati – ci troviamo a vivere nell’infosfera all’alba di un millennio che ancora non comprendiamo.    

I punti topici di queste nuove problematiche sono note. 

Saremo capaci di ottenere il massimo dei vantaggi dalle ICT

Saremo capaci di minimizzarne gli svantaggi? 

Quali rischi corriamo nel trasformare il mondo in un ambiente sempre più digitale? 

A parte ciò, a ragione della loro natura queste tecnologie ci costringeranno dentro spazi fisici sempre più inconsistenti e concettualmente sempre più limitati.  

Perché queste domande sono necessarie? 

Sostanzialmente perché oggi le novità non danno più vita a delle fratture nella continuità che siano facilmente e a breve termine ricomponibili o assorbibili. 

In linea generale per comprendere queste novità abbiamo bisogno di una nuova filosofia della natura e della storia, di una nuova antropologia e di una nuova scienza della politica. 

Diciamo che ripensare il presente e il futuro in un mondo sempre più digitalizzato richiede una nuova filosofia dell’informazione.

La società dell’informazione ha le sue radici nella scrittura e nell’invenzione della stampa e dei mass media. 

Cioè nella capacita di REGISTRARE e di TRASMETTERE. 

Oggi questa società si è evoluta con la capacità di PROCESSARE. 

È una nuova capacità che, paradossalmente, ha contribuito a generare nuove forme di  DEFICIT CONCETTUALI. 

I paesi del G7 – Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia, Stati Uniti –  in realtà questi paesi sono molti di più, costituiscono quella che si chiama una società dell’informazione.  Perché?

Perché più del settanta per cento del PIL dipende da beni intangibili – vale a dire che concernano l’informazione – e non da beni materiali, come sono quelli del settore agricolo e manifatturiero.    

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Maggio 2018.

Pubblicato in IED - Anno Accademico 2019-2020 | Commenti disabilitati su LA COMUNICAZIONE NELLA SOCIETA’ MULTIETNICA – 5a lezione

LA COMUNICAZIONE NELLA SOCIETA’ MULTIETNICA – SECONDA ESERCITAZIONE

Esercitazione visuale da realizzare su un supporto digitale in forma di fotografia o di breve video-filmato.   

Oggetto: Un tema, un soggetto, un assunto, un argomento, liberamente scelti, tra quelli contenuti nelle lezioni quattro e cinque, compresi gli eventuali allegati digitali.    

L’elaborato può essere accompagnato – se lo si ritiene necessario – da didascalie o da un commento sonoro.    

(Dalla finestra dello studio di J. N. Niépce – 1826.

L’elaborato dovrà essere inviato a: gesmos@gmail.com 

Se l’elaborato è troppo “pesante” per essere inviato via e-mail, inviarlo tramite https://wetransfer.com

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LA COMUNICAZIONE NELLA SOCIETA’ MULTIETNICA – 4a lezione

LO STRANIERO. 

Il Signore protegge lo straniero, egli sostiene
l’orfano e la vedova, ma sconvolge
le vie degli empi.

Salmi 146.9   

La figura dello straniero compare nelle scienze sociali verso la fine del diciannovesimo secolo. 

È una figura importante perché consente di analizzare i meccanismi dell’integrazione sociale, le strutture della diversità, il valore dell’altrove che questi porta con sé, punti di vista che si confrontano e si scontrano con la comunità con la quale entra in contatto. 

In questo senso possiamo dire che lo straniero trova una sua definizione (collocazione) a ragione della distanza sociale che intercorre tra lui e la comunità con la quale è entrato in contatto.    

Prima di procedere occorre distinguere i concetti di straniero e di estraneo perché sono contigui, ma diversi.

A grandi linee il concetto di straniero fa parte della sfera sociale e collettiva, mentre il concetto di estraneo è più attinente alla sfera privata e psicologica. 

Questo non impedisce che lo straniero possa essere anche un estraneo e viceversa.  

Si può anche dare il caso che un appartenente da un’altra cultura sia percepito vicino a noi e, di contro, un membro della comunità in cui viviamo sia sentito come un estraneo.  

Tendenzialmente, soprattutto nelle piccole comunità chiuse, sia lo straniero che l’estraneo sono spesso percepiti come coloro che possono turbare e alterare la routine della vita corrente sollevando delle problematiche tanto più rilevanti tanto più sono le differenze etniche, linguistiche, religiose, pseudo razziali. 

Circostanze che possono trasformare in occasioni di conflitto le stesse differenziazioni di abbigliamento, di alimentazione, di consumi culturali, di pratiche sociali legate al tempo libero.   

Uno dei primi ricercatori a occuparsi in modo specifico della figura dello straniero e stato Georg Simmel (1859-1918).  Un filosofo e sociologo tedesco che ha dedicato molti studi e ricerche alla natura dei fatti storici sia dal punto di vista della vita corrente dei singoli, che come figure sociali derivate dall’interazione tra individui.     

Lo straniero per Simmel da un lato non ha legami con la comunità in cui si trova, dall’altra egli tende ad assumere di fronte a essa l’atteggiamento di chi vuole essere obiettivo e distaccato, ma è un’obiettività che è il frutto della combinazione di vicinanza e lontananza, indifferenza e coinvolgimento, confidenza o sospetto.    

Lo straniero, in altri termini, non è qualcuno che sta ai margini o fuori dalla comunità, al contrario, è in relazione con la comunità in cui si trova e i modi che questa si è data in fatto di esclusione e di inclusione. 

A causa di queste circostanze lo straniero è di fatto relegato su un confine e questo confine (tra inclusione e esclusione) è lo specchio su cui, più in generale, si riflettono le tensioni culturali, sociali, umane che solleva. 

Suo malgrado ne misura la diversità e ne porta in luce la natura antagonista così come sottopone alla prova dei fatti i percorsi e le radici dell’esclusione e dell’assimilazione, del riconoscimento, della somiglianza e della diversità. 

In breve, lo straniero è una sorta di banco di prova di una comunità e, in modo particolare, della qualità delle relazioni tra le persone considerate (queste relazioni) dal punto di vista della loro socialità.

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La socializzazione è un processo di trasmissione di informazioni e di saperi (attraverso le pratiche della vita corrente e la natura delle istituzioni) capace di trasmettere alle nuove generazioni il patrimonio culturale accumulato.  

Questo patrimonio culturale comprende l’insieme delle competenzesocialidibase e delle competenzespecialistiche, che in qualche modo diversificano la società.  

In genere, nelle scienze sociali, si distingue tra una socializzazione primaria che si acquisisce in giovane età e una socializzazione secondaria che deriva dal contatto con gli altri e le istituzioni sociali. 

Non va assolutamente confusa la socialità con la sociabilità, che è l’attitudine degli individui o dei gruppi a stabilire con gli altri una relazione sociale di qualche tipo, in ogni caso carica di contenuti simbolici.

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Un altro autore storico che ha studiato a fondo il tema dello straniero è Alfred Schütz (1899-1959) un filosofo e un sociologo austriaco che dovette emigrare negli USA a causa delle leggi razziali del Terzo Reich.

È considerato il fondatore della sociologia fenomenologia, sulla scia di Max Weber e soprattutto di Edmund Husserl

Negli Stati Uniti fu influenzato dal pragmatismo americano e dal positivismo logico che consolidarono in lui l’interesse verso un empirismo che metteva in primo piano il mondo vissuto e la vita corrente.  

Pensando alla sua condizione di esule, nelle sue ricerche sulla condizione dello straniero Schütz mise in primo piano il delicato momento in cui avviene il contatto iniziale tra la comunità ospitante e lo straniero.

Il momento del precario contatto di questo a un mondo che non conosce. 

Un mondo in cui non può più contare sulla propria cultura, sul proprio vissuto, sulla propria esperienza, sui propri sistemi di riferimento e allo stesso tempo, non è ancora in grado di comprendere e assimilare.   

Una condizione che si può definire di spaesamento, che costringe lo straniero a diventare una specie di “esploratore” che osserva e cerca di decifrare una cultura diversa dalla propria per misurarne la distanza.     

Una cultura con consuetudini, mode, cerimonie, etichette, leggi, abitudini diverse e spesso sconosciute e incomprensibili che lo relegano, suo malgrado, in una sorta di isolamento psicologico. 

Sono le stesse ricerche che condusse Robert Ezra Park (1864-1944), un sociologo americano, uno dei fondatori e tra i principali esponenti della Scuola di Chicago

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La scuola di ecologia sociale urbana, meglio nota come scuola di Chicago, è stata la prima scuola di sociologia urbana negli USA.  Essa comprende un ampio numero di studiosi che operarono a Chicago nei primi tre decenni del XX secolo. 

La nascita ufficiale della scuola risale al1914quando Robert Park si insediò nel Dipartimento di sociologia dell’università.  Oltre a Park, la scuola ebbe tra i suoi maggiori esponenti Albino W. Small e altri studiosi tra cui Ernest W. Burgess e Roderick D. McKenzie. 

Essa affrontò per la prima volta uno studio sistematico della città dal punto di vista sociologico attraverso uno studio sul campo della società urbana.

Alla scuola di Chicago si possono aggregare anche altri sociologi successivi, i quali per interessi e metodi appaiono appartenenti allo stesso filone.

Park, studiando la diversa incidenza di fenomeni come la devianza, l’alcolismo, la criminalità, il divorzio e il suicidio nelle aree urbane ed in quelle rurali, dimostrò che i rapporti sociali e culturali sono strettamente condizionati dall’ambiente di appartenenza.

Grazie alla scuola di Chicago la sociologia si è proposta negli USA come uno strumento dell’amministratore pubblico al fine di governare meglio evoluzioni, tensioni e sacche di arretratezza all’interno della società. 

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Di questo autore sono interessanti le sue considerazioni sull’ecologia sociale urbana, una disciplina in cui fece emergere la stretta relazione che esiste tra i rapporti socio-culturali e l’ambiente abitativo di appartenenza. 

Ricerche che in seguito estese allo studio delle personalità marginali, vale a dire di quei soggetti che non sono inseriti in un ambiente sociale definito e sono, a causa di questo, caratterizzati dall’insicurezza e dal disorientamento.  

A questo proposito va ricordato che nei suoi studi Park attribuì una grande importanza all’analisi dei primi giornali per immigrati che considerava dei collettori sociali e degli importanti strumenti di sociabilità   

Nelle sue considerazioni sulla condizione dello straniero descrisse due figure chiave per la definizione dell’anomia sociale – quella dell’uomo marginale, inteso come colui che vive sul confine di due culture e che non riesce a integrarsi – e quella di uomo asociale, come di colui che viene escluso dai processi di produzione di consumo e cerimoniali. 

Park è stato anche il primo a prendere in considerazione il fenomeno delle migrazioni interne a una comunitàe dei processi conflittuali di integrazione che compaiono nelle comunità ospitanti. 

Processi che caratterizzavano in particolare le aree metropolitane nord-americane e che stavano facendo fiorire una serie di fenomeni il più delle volte devianti e stabilmente ancorati al territorio, come il commercio di stupefacenti, la prostituzione, la delinquenza giovanile.     

Per riassumere possiamo dire che l’arrivo di uno straniero nello spazio sociale di una comunità diventa non soltanto l’occasione per introdurre in essa delle diversità o dei mutamento culturale, ma attiva anche processi di interazione e di conflitto con la comunità ospitante, che possono arrivare fino a mettere in discussione gli stessi equilibri socio-culturali condivisi. 

Sono processi che possono innescare mutamenti sociali di lunga durata e irreversibili.

A questo proposito un altro studioso della figura dello straniero e del diverso è stato il filosofo polacco Florian Znaniecki (1882-1958), anch’egli un esponente della Scuola di Chicago

Questo autore ha esaminato in modo particolare l’estraneità che si instaura tra lo straniero e il gruppo integrato con il quale viene in contatto. 

Znaniecki ha osservato come l’assenza di legami sociali assume un’importanza diversa a seconda se per legame sociale s’intende l’appartenenza a un gruppo più o meno strutturato, oppure se ci si riferisce a un gruppo aperto.

In questa analisi l’appartenenza a un diverso sistema di valori rappresenta il fondamento della percezione dello straniero e, insieme, la ragione della tendenza a mantenere le distanze nei confronti di coloro che possono mettere in discussione o minacciare il sistema di identificazione sia del gruppo sia degli individui che ad esso appartengono.

Va anche osservato che l’estraneità è un sentimento che va oltre la distanza fisica, la si può trovare anche tra gruppi o individui tra i quali esiste una relazione sociale. 

Essa, in qualche modo, è un’esperienza associata a comportamenti sociali che si ritengono non conformi, non adeguati e non condivisi. 

Più in generale, come nel decennio 1920-30 mise in luce la Scuola di Chicago, il rapporto di estraneazione-identificazione sta alla base di qualsiasi processo di strutturazione dello spazio sociale.

In questo spazio la distanza e la vicinanza, i vincoli o le libertà, sono messi o rimessi in gioco ogni volta che si ridefinisce la posizione dell’individuo al proprio interno. 

In breve, la presenza dello straniero mette in luce, volenti o nolenti, i meccanismi di definizione del Sé e dell’Altro da Sé, una circostanza che fa venire alla luce le modalità esistenti a proposito di integrazione e di assimilazione.  

Così, lo straniero, suo malgrado, appare sempre come un segnale che qualcosa sta per cambiare o potrebbe cambiare.

Appare come un messaggero di possibili conflitti e/o di possibili novità, che possono costituire una ragione di rinnovamento, di apertura o di crisi. 

In pratica, in una società complessa com’è quella Occidentale, lo straniero può condividerne, per fare un esempio, i principi dell’economia, ma non quelli della politica. 

Può avere o non avere una buona competenza nell’uso delle tecnologie, così come può avere un’opinione differente dei legami sociali. 

Soprattutto, può avere un’idea diversa sul modo di riferirsi all’essere umano, ai suoi diritti e doveri e alle sue condizioni sociali di esistenza.  

Per secoli le religioni hanno elaborato e custodito queste concezioni che rappresentano il mito costitutivo della società. 

Così come per secoli lo straniero, il nomade, il fuggitivo ha portato con se i propri dei. 

Dei che il mondo in cui è entrato non sempre conoscevano o  apprezzavano, ma che per lui avevano un valore incommensurabile. 

Oggi, nella relazione tra straniero e i residenti un’importanza capitale rivestono i conflitti socio-economici.   Sono conflitti che tendono a configurarsi in molti modi e forme e soprattutto a mascherarsi da dispute ideologiche, politiche o religiose. 

Va ricordato che, negli studi della sociologia americana della prima metà del Novecento, lungi dall’essere considerato un fenomeno meramente negativo, si riteneva che il conflitto adempisse a funzioni in qualche modo positive. 

In particolare da molti sociologi, fu utilizzato come una categoria capace di portare allo scoperto e consentire un confronto dialettico sulle trasformazioni sociali e sulle dinamiche che si compattavano intorno all’idea di progresso.    

Lo stesso Simmel aveva scritto: I contrasti non solamente impediscono che i conflitti all’interno di un gruppo gradualmente si trasformino in qualcosa d’altro che non conosciamo, ma essi mettono a confronto classi e individui che forse non si incontrerebbero mai e danno all’ostilità la consapevolezza di ciò che rappresenta.   

In questo modo l’importanza del conflitto sociale risiede nel fatto che le avversioni e gli antagonismi reciproci dovrebbero preservare il sistema dal degenerare o cristallizzarsi, istituendo un equilibrio tra le parti che lo compongono.          

Questa idea di conflitto come una valvola di sicurezza ha fatto oggi il suo tempo, soprattutto perché non tiene conto dei risvolti etici e psicologici che i nuovi conflitti portano in sé.   

Diciamo che aveva un senso in una società, come quella che esisteva prima della seconda guerra mondiale, statica e divisa in classi autonome e consapevoli. 

Oggi l’espressione del sentimento di ostilità può apparire sotto tre configurazioni: 

– Uno.  Come espressione diretta dell’ostilità verso la persona o il gruppo che è causa di frustrazione. 

– Due.  Come uno spostamento del comportamento ostile verso oggetti o iconografie sostitutivi.

– Tre.  Come un’attività auto gratificante. 

Ritornando alle tesi di Znaniecki possiamo considerare l’antagonismo verso gli outsiders una tendenza sociale negativa che si concretizza in pregiudizi che inducono a comportamenti e azioni ostili e spesso violente.    

In questo senso l’antagonismo è l’esito di un atteggiamento verso coloro che hanno un aspetto di estraneità, poco importa se reale o immaginario. 

È l’atteggiamento, per fare un esempio, noto e attuale, delle bande del sabato sera verso l’altro, di colore o gay, perché l’Altro espressione di un sistema di valori differente, rappresenta il nucleo in cui si condensa la percezione di estraneità e pericolo.  

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Voltiamo pagina.    

Julia Kristeva è nata in Bulgaria, nel 1941, è un’esponente della corrente strutturalista francese, ha concentrato i suoi interessi sulla psicanalisi, la semiologia, la religione, l’arte nella storia dell’Occidente e la riflessione sulla condizione femminile.

Stranieri a noi stessi è uno dei suoi ultimi scritti. 

In questo scritto la Kristeva si domanda: Chi è lo straniero?

E soprattutto: Cosa significa essere straniero?  

Si tratta di due interrogativi cruciali perché la paura e la diffidenza serpeggiano in Europa, in un momento in cui le appartenenze geografiche e identitarie sono sempre più soggette all’incontro con l’Altro da noi, e sono costantemente sottoposte a verifica, messe in discussione. 

Questo libro è destinato sia a chi vive la propria esistenza da straniero, sia a coloro che degli stranieri non ne possono più, e infine a chi non può evitare di sentirsi straniero anche a casa propria.   

Ma soprattutto è dedicato al dolore, persino all’irritazione che spesso il confronto con l’Altro porta con sé in un percorso che, questa saggista, da bulgara naturalizzata francese, ha vissuto sulla propria pelle. 

Al centro di esso ha posto un documento storico e una teorizzazione.

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (composta da diciassette articoli) elaborata dall’Assemblea della Rivoluzione francese

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Leggiamo il preambolo e l’articolo uno: 

I rappresentanti del popolo francese costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi, hanno stabilito di esporre, in una solenne dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo, affinché questa dichiarazione costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, rammenti loro incessantemente i loro diritti e i loro doveri; affinché maggior rispetto ritraggano gli atti del Potere legislativo e quelli del Potere esecutivo dal poter essere in ogni istante paragonati con il fine di ogni istituzione politica; affinché i reclami dei cittadini, fondati d’ora innanzi su dei principi semplici ed incontestabili, abbiano sempre per risultato il mantenimento della Costituzione e la felicità di tutti.

Di conseguenza, l’Assemblea Nazionale riconosce e dichiara, in presenza e sotto gli auspici dell’Essere Supremo, i seguenti diritti dell’uomo e del cittadino:

Art. 1 – Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune.

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La Kristeva, da studiosa di psicoanalisi, elabora nello scritto una sua interpretazione della celebre teoria freudiana del perturbante, che legge come una lezione per imparare a tollerare nello straniero la controfigura dell’estraneo che portiamo in noi.

Nel cinema un maestro nell’uso del perturbante è stato Alfred Joseph Hitchcock (Londra, 13 agosto 1899 – Los Angeles, 29 aprile 1980), il grande regista britannico naturalizzato statunitense. _______________________________________________________________________________

Das Unheimliche è un aggettivo sostantivato della lingua tedesca, utilizzato da Sigmund Freud per esprimere un particolare aspetto del sentimento della paura che si sviluppa quando una cosa, una persona, una impressione, una situazione, vengono avvertiti come familiari e estranei allo stesso tempo sollevando angoscia unita ad una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità.

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In breve, rielabora questo sentimento sostenendo chela possibilità di vivere con gli altri senza rifiutarli, ma allo stesso tempo senza annullare le differenze che ci rendono diversi, passa attraverso il riconoscimento del nostro essere stranieri a noi stessi.  

In questo senso rispettare lo straniero nella sua differenza significa riconciliarsi con il nostro diritto alla singolarità, che è l’ultima conseguenza dei diritti e dei doveri dell’essere umano.

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Completiamo il tema dello straniero con qualche considerazione etimologica. 

Questo perché, scavando nel linguaggio, (fino a decostruirne e ricostruirne il suo profilo semantico) spesso si coglie un senso delle parole che sfugge al loro uso consueto.

Iniziamo con l’osservare che, il significato originario di straniero, rimanda alla stessa radice

da cui provengono anche i termini di nemico (hostis) e di ospite (hospes).

Il significato originario di hostis, come scrive il grammatico romano Sesto Pompeo Festo, vissuto nel secondo secolo dell’era comune, non si riferisce a uno straniero qualsiasi, ma allo     

straniero pari iure cum populo Romano.  

Ne consegue che l’espressione di hostis assume sia il significato di straniero che quello di ospite e la parità dei diritti di cui gode, rispetto al cittadino romano, è legata alla sua condizione di ospite.

Se teniamo presente questo significato di hostis risulta chiara la natura ambivalente dello straniero il quale, simile alle due facce della stessa medaglia, può nascondere in sé o il nemico da rifiutare e da osteggiare o l’estraneo da ospitare e accogliere. 

Proviamo a leggere l’Articolo 10 della nostra Costituzione.

L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.

La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.

Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.

Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.

In questo articolo va notato l’importanza che si da alle libertà democratiche e alla nobiltà del diritto d’asilo. 

Ma torniamo alla Kristeva, proprio perché imprevedibile, sul piano esistenziale la figura dello straniero risulta inquietante o perturbante.  

Lo straniero è lo sconosciuto, è colui con il quale non ho ancora avviato un percorso di interazione, dal quale posso aspettarmi di tutto, una mano tesa così come una spada sguainata. 

Ciò nonostante lo straniero, anche dopo che abbiamo provato a conoscerci, ad allacciare una relazione, è e rimarrà sempre l’Altro da me, il diverso, colui che ha un’altra storia, un altro vissuto

Ha scritto molti anni fa Emmanuel Lévinas (1906-1995), un filosofo francese di origine ebreo-lituana, in un saggio intitolato “Scopri­re l’esistenza con Husserl e Heidegger”:  L’epifania del volto (dell’Altro da noi) è visitazione…(incontro).  

Questo volto entra nel nostro mondo, prove­nendo da una (realtà) assolutamente estranea, precisamente da un assoluto che, d’altra parte, è il nome stesso dell’estraneità più profonda.

Il significato del volto nella sua astrattezza è, nel senso letterale del termine, “stra-ordinario”.   

Dobbiamo essere consapevoli che le differenze (dall’Altro da noi) sono spesso ineliminabili e che a ragione della loro irriducibilità, possono soltanto essere accolte o rifiutate, senza lasciare spazio a alternative o a ambiguità.  

In altri termini, non è possibile ridurre lo straniero all’Io che io sono, non è possibile ridurre la differenza che intercorre tra di noi. 

O lo accolgo con tutto il suo mondo, ospitandolo nel mio mondo (il più delle volte arricchendomene) o non lo accetto nella sua differenza, gli divento ostile. 

A questo proposito l’antropologia culturale, per quanto paradossale possa sembrare, sostiene che la guerra non abolisce del tutto le possibilità di riconoscimento dell’alterità dell’altro.

La guerra è sempre una conseguenza della rottura di un ordine.

Essa scoppia quando l’opposizione logica tra l’io e l’altro diventa un conflitto reale.

Quando, da un’opposizione che consente all’io e all’altro di gestire la propria identità (attraverso il riferimento ad una totalità in cui entrambi sono calati), assorbendo e annullando la differenza che li separa, si passa ad un’opposizio­ne vissuta da ognuno dei due soggetti della relazione come un’insidia mortale che spinge entrambi a tentare di imporre all’altro la propria sovranità.

Il discorso, come si vede, è complesso. 

Se da un lato, lo straniero deve essere accolto, dall’altro lato, lui deve lasciarsi ospitare, la sua natura deve essere quella dell’ospite e non del nemico.  

Affinché ci sia accoglienza, è dunque necessaria la buona disposizione di entrambe le parti, l’ospite e l’ospitante, per forza di cose, come abbiamo già visto, entrambi stranieri l’uno all’altro.

Nei fatti l’esperienza insegna che è proprio la mancanza di “buona disposizione” verso l’altro, il diverso da me, che sta la base dell’ostilità.  

Una diversità che può riguardare qualsiasi cosa. 

Può essere una diversità estetica, di provenienza, culturale, sessuale, religiosa o semplicemente di abitudini, di educazione, di colore della pelle.

Comunque sia il problema è sempre lo stesso, la buona o la cattiva disposizione verso l’altro.  

L’una può condurre all’apertura, al dialogo. 

L’altra apre la strada al pre-giudizio, al rintanarsi nel proprio mondo con la presunzione che sia l’unico giusto e sicuro. 

Sul concetto di nemico sono importanti anche le considerazioni di Carl Schimitt, cominciando da quelle contenute nel testo Le categorie del ‘politico, per il quale la dicotomia amico/nemico va sottratta a qualsiasi caratterizzazione psicologica, a qualsiasi confusione etica o economica e tanto meno va intesa in senso individualistico-privato. 

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Carl Schmitt (1888-1985) è stato un giurista e filosofo politico tedesco. Come giurista, in particolare, è uno dei più noti e studiati teorici tedeschi di diritto pubblico e internazionale. 

Le sue idee hanno attratto e continuano ad attrarre l’attenzione di molti filosofi, studiosi di politica e del diritto sia europei che americani. 

Il suo pensiero, le cui radici affondano nella religione cattolica, ruotò attorno alle questioni del potere, della violenza e dell’attuazione del diritto. 

Tra i suoi concetti chiave ricordiamo lo stato di eccezione (Ausnahmezustand), la sovranità, il grande spazio, e hostis – inimicus (il rapporto “nemico-avversario” come criterio costitutivo della dimensione del politico). 

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Questa categoria va considerata come una contrapposizione fondata sul raggruppamento degli uomini in base a contrasti di natura diversa (sia economici, che religiosi, etnici o altro che siano), abbastanza forti da scavare un solco fra un noi e un loro.  

Scrive Schimitt:

Nemico non è il concorrente o l’avversario in generale.

Nemico non è neppure l’avversario privato che ci odia in base a sentimenti di antipatia.  

Nemico è solo un insieme di uomini che combatte e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere.

Nemico è solo il nemico pubblico, poiché tutto ciò che si riferisce ad un simile raggruppamento, e in particolare ad un intero popolo, diventa per ciò stesso pubblico.  

Il nemico è l’hostis, non l’inimicus in senso ampio.   

Il termine hostis non è l’unica parola latina con il significato di “nemico”.  

I Romani infatti avevano diverse parole per esprimere tale concetto. 

Oltre a hostis, che come abbiamo visto indica il nemico straniero, usavano adversarius, adversarii  (da adversus, ” di fronte, contro”) per indicare l’avversario, il rivale, l’emulo e inimicus, inimici  (da in-amicus, “non amico”) per indicare il nemico personale.

Infine.  Il nemico in greco è il polemios (l’avversario in guerra), non l’echthros (il nemico interno, quello contro cui si prova odio in una guerra civile, stasis). 

(Febbraio, 2020)

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