LA COMUNICAZIONE NELLA SOCIETA’ MULTIETNICA – 4a lezione

LO STRANIERO. 

Il Signore protegge lo straniero, egli sostiene
l’orfano e la vedova, ma sconvolge
le vie degli empi.

Salmi 146.9   

La figura dello straniero compare nelle scienze sociali verso la fine del diciannovesimo secolo. 

È una figura importante perché consente di analizzare i meccanismi dell’integrazione sociale, le strutture della diversità, il valore dell’altrove che questi porta con sé, punti di vista che si confrontano e si scontrano con la comunità con la quale entra in contatto. 

In questo senso possiamo dire che lo straniero trova una sua definizione (collocazione) a ragione della distanza sociale che intercorre tra lui e la comunità con la quale è entrato in contatto.    

Prima di procedere occorre distinguere i concetti di straniero e di estraneo perché sono contigui, ma diversi.

A grandi linee il concetto di straniero fa parte della sfera sociale e collettiva, mentre il concetto di estraneo è più attinente alla sfera privata e psicologica. 

Questo non impedisce che lo straniero possa essere anche un estraneo e viceversa.  

Si può anche dare il caso che un appartenente da un’altra cultura sia percepito vicino a noi e, di contro, un membro della comunità in cui viviamo sia sentito come un estraneo.  

Tendenzialmente, soprattutto nelle piccole comunità chiuse, sia lo straniero che l’estraneo sono spesso percepiti come coloro che possono turbare e alterare la routine della vita corrente sollevando delle problematiche tanto più rilevanti tanto più sono le differenze etniche, linguistiche, religiose, pseudo razziali. 

Circostanze che possono trasformare in occasioni di conflitto le stesse differenziazioni di abbigliamento, di alimentazione, di consumi culturali, di pratiche sociali legate al tempo libero.   

Uno dei primi ricercatori a occuparsi in modo specifico della figura dello straniero e stato Georg Simmel (1859-1918).  Un filosofo e sociologo tedesco che ha dedicato molti studi e ricerche alla natura dei fatti storici sia dal punto di vista della vita corrente dei singoli, che come figure sociali derivate dall’interazione tra individui.     

Lo straniero per Simmel da un lato non ha legami con la comunità in cui si trova, dall’altra egli tende ad assumere di fronte a essa l’atteggiamento di chi vuole essere obiettivo e distaccato, ma è un’obiettività che è il frutto della combinazione di vicinanza e lontananza, indifferenza e coinvolgimento, confidenza o sospetto.    

Lo straniero, in altri termini, non è qualcuno che sta ai margini o fuori dalla comunità, al contrario, è in relazione con la comunità in cui si trova e i modi che questa si è data in fatto di esclusione e di inclusione. 

A causa di queste circostanze lo straniero è di fatto relegato su un confine e questo confine (tra inclusione e esclusione) è lo specchio su cui, più in generale, si riflettono le tensioni culturali, sociali, umane che solleva. 

Suo malgrado ne misura la diversità e ne porta in luce la natura antagonista così come sottopone alla prova dei fatti i percorsi e le radici dell’esclusione e dell’assimilazione, del riconoscimento, della somiglianza e della diversità. 

In breve, lo straniero è una sorta di banco di prova di una comunità e, in modo particolare, della qualità delle relazioni tra le persone considerate (queste relazioni) dal punto di vista della loro socialità.

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La socializzazione è un processo di trasmissione di informazioni e di saperi (attraverso le pratiche della vita corrente e la natura delle istituzioni) capace di trasmettere alle nuove generazioni il patrimonio culturale accumulato.  

Questo patrimonio culturale comprende l’insieme delle competenzesocialidibase e delle competenzespecialistiche, che in qualche modo diversificano la società.  

In genere, nelle scienze sociali, si distingue tra una socializzazione primaria che si acquisisce in giovane età e una socializzazione secondaria che deriva dal contatto con gli altri e le istituzioni sociali. 

Non va assolutamente confusa la socialità con la sociabilità, che è l’attitudine degli individui o dei gruppi a stabilire con gli altri una relazione sociale di qualche tipo, in ogni caso carica di contenuti simbolici.

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Un altro autore storico che ha studiato a fondo il tema dello straniero è Alfred Schütz (1899-1959) un filosofo e un sociologo austriaco che dovette emigrare negli USA a causa delle leggi razziali del Terzo Reich.

È considerato il fondatore della sociologia fenomenologia, sulla scia di Max Weber e soprattutto di Edmund Husserl

Negli Stati Uniti fu influenzato dal pragmatismo americano e dal positivismo logico che consolidarono in lui l’interesse verso un empirismo che metteva in primo piano il mondo vissuto e la vita corrente.  

Pensando alla sua condizione di esule, nelle sue ricerche sulla condizione dello straniero Schütz mise in primo piano il delicato momento in cui avviene il contatto iniziale tra la comunità ospitante e lo straniero.

Il momento del precario contatto di questo a un mondo che non conosce. 

Un mondo in cui non può più contare sulla propria cultura, sul proprio vissuto, sulla propria esperienza, sui propri sistemi di riferimento e allo stesso tempo, non è ancora in grado di comprendere e assimilare.   

Una condizione che si può definire di spaesamento, che costringe lo straniero a diventare una specie di “esploratore” che osserva e cerca di decifrare una cultura diversa dalla propria per misurarne la distanza.     

Una cultura con consuetudini, mode, cerimonie, etichette, leggi, abitudini diverse e spesso sconosciute e incomprensibili che lo relegano, suo malgrado, in una sorta di isolamento psicologico. 

Sono le stesse ricerche che condusse Robert Ezra Park (1864-1944), un sociologo americano, uno dei fondatori e tra i principali esponenti della Scuola di Chicago

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La scuola di ecologia sociale urbana, meglio nota come scuola di Chicago, è stata la prima scuola di sociologia urbana negli USA.  Essa comprende un ampio numero di studiosi che operarono a Chicago nei primi tre decenni del XX secolo. 

La nascita ufficiale della scuola risale al1914quando Robert Park si insediò nel Dipartimento di sociologia dell’università.  Oltre a Park, la scuola ebbe tra i suoi maggiori esponenti Albino W. Small e altri studiosi tra cui Ernest W. Burgess e Roderick D. McKenzie. 

Essa affrontò per la prima volta uno studio sistematico della città dal punto di vista sociologico attraverso uno studio sul campo della società urbana.

Alla scuola di Chicago si possono aggregare anche altri sociologi successivi, i quali per interessi e metodi appaiono appartenenti allo stesso filone.

Park, studiando la diversa incidenza di fenomeni come la devianza, l’alcolismo, la criminalità, il divorzio e il suicidio nelle aree urbane ed in quelle rurali, dimostrò che i rapporti sociali e culturali sono strettamente condizionati dall’ambiente di appartenenza.

Grazie alla scuola di Chicago la sociologia si è proposta negli USA come uno strumento dell’amministratore pubblico al fine di governare meglio evoluzioni, tensioni e sacche di arretratezza all’interno della società. 

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Di questo autore sono interessanti le sue considerazioni sull’ecologia sociale urbana, una disciplina in cui fece emergere la stretta relazione che esiste tra i rapporti socio-culturali e l’ambiente abitativo di appartenenza. 

Ricerche che in seguito estese allo studio delle personalità marginali, vale a dire di quei soggetti che non sono inseriti in un ambiente sociale definito e sono, a causa di questo, caratterizzati dall’insicurezza e dal disorientamento.  

A questo proposito va ricordato che nei suoi studi Park attribuì una grande importanza all’analisi dei primi giornali per immigrati che considerava dei collettori sociali e degli importanti strumenti di sociabilità   

Nelle sue considerazioni sulla condizione dello straniero descrisse due figure chiave per la definizione dell’anomia sociale – quella dell’uomo marginale, inteso come colui che vive sul confine di due culture e che non riesce a integrarsi – e quella di uomo asociale, come di colui che viene escluso dai processi di produzione di consumo e cerimoniali. 

Park è stato anche il primo a prendere in considerazione il fenomeno delle migrazioni interne a una comunitàe dei processi conflittuali di integrazione che compaiono nelle comunità ospitanti. 

Processi che caratterizzavano in particolare le aree metropolitane nord-americane e che stavano facendo fiorire una serie di fenomeni il più delle volte devianti e stabilmente ancorati al territorio, come il commercio di stupefacenti, la prostituzione, la delinquenza giovanile.     

Per riassumere possiamo dire che l’arrivo di uno straniero nello spazio sociale di una comunità diventa non soltanto l’occasione per introdurre in essa delle diversità o dei mutamento culturale, ma attiva anche processi di interazione e di conflitto con la comunità ospitante, che possono arrivare fino a mettere in discussione gli stessi equilibri socio-culturali condivisi. 

Sono processi che possono innescare mutamenti sociali di lunga durata e irreversibili.

A questo proposito un altro studioso della figura dello straniero e del diverso è stato il filosofo polacco Florian Znaniecki (1882-1958), anch’egli un esponente della Scuola di Chicago

Questo autore ha esaminato in modo particolare l’estraneità che si instaura tra lo straniero e il gruppo integrato con il quale viene in contatto. 

Znaniecki ha osservato come l’assenza di legami sociali assume un’importanza diversa a seconda se per legame sociale s’intende l’appartenenza a un gruppo più o meno strutturato, oppure se ci si riferisce a un gruppo aperto.

In questa analisi l’appartenenza a un diverso sistema di valori rappresenta il fondamento della percezione dello straniero e, insieme, la ragione della tendenza a mantenere le distanze nei confronti di coloro che possono mettere in discussione o minacciare il sistema di identificazione sia del gruppo sia degli individui che ad esso appartengono.

Va anche osservato che l’estraneità è un sentimento che va oltre la distanza fisica, la si può trovare anche tra gruppi o individui tra i quali esiste una relazione sociale. 

Essa, in qualche modo, è un’esperienza associata a comportamenti sociali che si ritengono non conformi, non adeguati e non condivisi. 

Più in generale, come nel decennio 1920-30 mise in luce la Scuola di Chicago, il rapporto di estraneazione-identificazione sta alla base di qualsiasi processo di strutturazione dello spazio sociale.

In questo spazio la distanza e la vicinanza, i vincoli o le libertà, sono messi o rimessi in gioco ogni volta che si ridefinisce la posizione dell’individuo al proprio interno. 

In breve, la presenza dello straniero mette in luce, volenti o nolenti, i meccanismi di definizione del Sé e dell’Altro da Sé, una circostanza che fa venire alla luce le modalità esistenti a proposito di integrazione e di assimilazione.  

Così, lo straniero, suo malgrado, appare sempre come un segnale che qualcosa sta per cambiare o potrebbe cambiare.

Appare come un messaggero di possibili conflitti e/o di possibili novità, che possono costituire una ragione di rinnovamento, di apertura o di crisi. 

In pratica, in una società complessa com’è quella Occidentale, lo straniero può condividerne, per fare un esempio, i principi dell’economia, ma non quelli della politica. 

Può avere o non avere una buona competenza nell’uso delle tecnologie, così come può avere un’opinione differente dei legami sociali. 

Soprattutto, può avere un’idea diversa sul modo di riferirsi all’essere umano, ai suoi diritti e doveri e alle sue condizioni sociali di esistenza.  

Per secoli le religioni hanno elaborato e custodito queste concezioni che rappresentano il mito costitutivo della società. 

Così come per secoli lo straniero, il nomade, il fuggitivo ha portato con se i propri dei. 

Dei che il mondo in cui è entrato non sempre conoscevano o  apprezzavano, ma che per lui avevano un valore incommensurabile. 

Oggi, nella relazione tra straniero e i residenti un’importanza capitale rivestono i conflitti socio-economici.   Sono conflitti che tendono a configurarsi in molti modi e forme e soprattutto a mascherarsi da dispute ideologiche, politiche o religiose. 

Va ricordato che, negli studi della sociologia americana della prima metà del Novecento, lungi dall’essere considerato un fenomeno meramente negativo, si riteneva che il conflitto adempisse a funzioni in qualche modo positive. 

In particolare da molti sociologi, fu utilizzato come una categoria capace di portare allo scoperto e consentire un confronto dialettico sulle trasformazioni sociali e sulle dinamiche che si compattavano intorno all’idea di progresso.    

Lo stesso Simmel aveva scritto: I contrasti non solamente impediscono che i conflitti all’interno di un gruppo gradualmente si trasformino in qualcosa d’altro che non conosciamo, ma essi mettono a confronto classi e individui che forse non si incontrerebbero mai e danno all’ostilità la consapevolezza di ciò che rappresenta.   

In questo modo l’importanza del conflitto sociale risiede nel fatto che le avversioni e gli antagonismi reciproci dovrebbero preservare il sistema dal degenerare o cristallizzarsi, istituendo un equilibrio tra le parti che lo compongono.          

Questa idea di conflitto come una valvola di sicurezza ha fatto oggi il suo tempo, soprattutto perché non tiene conto dei risvolti etici e psicologici che i nuovi conflitti portano in sé.   

Diciamo che aveva un senso in una società, come quella che esisteva prima della seconda guerra mondiale, statica e divisa in classi autonome e consapevoli. 

Oggi l’espressione del sentimento di ostilità può apparire sotto tre configurazioni: 

– Uno.  Come espressione diretta dell’ostilità verso la persona o il gruppo che è causa di frustrazione. 

– Due.  Come uno spostamento del comportamento ostile verso oggetti o iconografie sostitutivi.

– Tre.  Come un’attività auto gratificante. 

Ritornando alle tesi di Znaniecki possiamo considerare l’antagonismo verso gli outsiders una tendenza sociale negativa che si concretizza in pregiudizi che inducono a comportamenti e azioni ostili e spesso violente.    

In questo senso l’antagonismo è l’esito di un atteggiamento verso coloro che hanno un aspetto di estraneità, poco importa se reale o immaginario. 

È l’atteggiamento, per fare un esempio, noto e attuale, delle bande del sabato sera verso l’altro, di colore o gay, perché l’Altro espressione di un sistema di valori differente, rappresenta il nucleo in cui si condensa la percezione di estraneità e pericolo.  

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Voltiamo pagina.    

Julia Kristeva è nata in Bulgaria, nel 1941, è un’esponente della corrente strutturalista francese, ha concentrato i suoi interessi sulla psicanalisi, la semiologia, la religione, l’arte nella storia dell’Occidente e la riflessione sulla condizione femminile.

Stranieri a noi stessi è uno dei suoi ultimi scritti. 

In questo scritto la Kristeva si domanda: Chi è lo straniero?

E soprattutto: Cosa significa essere straniero?  

Si tratta di due interrogativi cruciali perché la paura e la diffidenza serpeggiano in Europa, in un momento in cui le appartenenze geografiche e identitarie sono sempre più soggette all’incontro con l’Altro da noi, e sono costantemente sottoposte a verifica, messe in discussione. 

Questo libro è destinato sia a chi vive la propria esistenza da straniero, sia a coloro che degli stranieri non ne possono più, e infine a chi non può evitare di sentirsi straniero anche a casa propria.   

Ma soprattutto è dedicato al dolore, persino all’irritazione che spesso il confronto con l’Altro porta con sé in un percorso che, questa saggista, da bulgara naturalizzata francese, ha vissuto sulla propria pelle. 

Al centro di esso ha posto un documento storico e una teorizzazione.

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (composta da diciassette articoli) elaborata dall’Assemblea della Rivoluzione francese

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Leggiamo il preambolo e l’articolo uno: 

I rappresentanti del popolo francese costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi, hanno stabilito di esporre, in una solenne dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo, affinché questa dichiarazione costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, rammenti loro incessantemente i loro diritti e i loro doveri; affinché maggior rispetto ritraggano gli atti del Potere legislativo e quelli del Potere esecutivo dal poter essere in ogni istante paragonati con il fine di ogni istituzione politica; affinché i reclami dei cittadini, fondati d’ora innanzi su dei principi semplici ed incontestabili, abbiano sempre per risultato il mantenimento della Costituzione e la felicità di tutti.

Di conseguenza, l’Assemblea Nazionale riconosce e dichiara, in presenza e sotto gli auspici dell’Essere Supremo, i seguenti diritti dell’uomo e del cittadino:

Art. 1 – Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune.

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La Kristeva, da studiosa di psicoanalisi, elabora nello scritto una sua interpretazione della celebre teoria freudiana del perturbante, che legge come una lezione per imparare a tollerare nello straniero la controfigura dell’estraneo che portiamo in noi.

Nel cinema un maestro nell’uso del perturbante è stato Alfred Joseph Hitchcock (Londra, 13 agosto 1899 – Los Angeles, 29 aprile 1980), il grande regista britannico naturalizzato statunitense. _______________________________________________________________________________

Das Unheimliche è un aggettivo sostantivato della lingua tedesca, utilizzato da Sigmund Freud per esprimere un particolare aspetto del sentimento della paura che si sviluppa quando una cosa, una persona, una impressione, una situazione, vengono avvertiti come familiari e estranei allo stesso tempo sollevando angoscia unita ad una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità.

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In breve, rielabora questo sentimento sostenendo chela possibilità di vivere con gli altri senza rifiutarli, ma allo stesso tempo senza annullare le differenze che ci rendono diversi, passa attraverso il riconoscimento del nostro essere stranieri a noi stessi.  

In questo senso rispettare lo straniero nella sua differenza significa riconciliarsi con il nostro diritto alla singolarità, che è l’ultima conseguenza dei diritti e dei doveri dell’essere umano.

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Completiamo il tema dello straniero con qualche considerazione etimologica. 

Questo perché, scavando nel linguaggio, (fino a decostruirne e ricostruirne il suo profilo semantico) spesso si coglie un senso delle parole che sfugge al loro uso consueto.

Iniziamo con l’osservare che, il significato originario di straniero, rimanda alla stessa radice

da cui provengono anche i termini di nemico (hostis) e di ospite (hospes).

Il significato originario di hostis, come scrive il grammatico romano Sesto Pompeo Festo, vissuto nel secondo secolo dell’era comune, non si riferisce a uno straniero qualsiasi, ma allo     

straniero pari iure cum populo Romano.  

Ne consegue che l’espressione di hostis assume sia il significato di straniero che quello di ospite e la parità dei diritti di cui gode, rispetto al cittadino romano, è legata alla sua condizione di ospite.

Se teniamo presente questo significato di hostis risulta chiara la natura ambivalente dello straniero il quale, simile alle due facce della stessa medaglia, può nascondere in sé o il nemico da rifiutare e da osteggiare o l’estraneo da ospitare e accogliere. 

Proviamo a leggere l’Articolo 10 della nostra Costituzione.

L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.

La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.

Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.

Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.

In questo articolo va notato l’importanza che si da alle libertà democratiche e alla nobiltà del diritto d’asilo. 

Ma torniamo alla Kristeva, proprio perché imprevedibile, sul piano esistenziale la figura dello straniero risulta inquietante o perturbante.  

Lo straniero è lo sconosciuto, è colui con il quale non ho ancora avviato un percorso di interazione, dal quale posso aspettarmi di tutto, una mano tesa così come una spada sguainata. 

Ciò nonostante lo straniero, anche dopo che abbiamo provato a conoscerci, ad allacciare una relazione, è e rimarrà sempre l’Altro da me, il diverso, colui che ha un’altra storia, un altro vissuto

Ha scritto molti anni fa Emmanuel Lévinas (1906-1995), un filosofo francese di origine ebreo-lituana, in un saggio intitolato “Scopri­re l’esistenza con Husserl e Heidegger”:  L’epifania del volto (dell’Altro da noi) è visitazione…(incontro).  

Questo volto entra nel nostro mondo, prove­nendo da una (realtà) assolutamente estranea, precisamente da un assoluto che, d’altra parte, è il nome stesso dell’estraneità più profonda.

Il significato del volto nella sua astrattezza è, nel senso letterale del termine, “stra-ordinario”.   

Dobbiamo essere consapevoli che le differenze (dall’Altro da noi) sono spesso ineliminabili e che a ragione della loro irriducibilità, possono soltanto essere accolte o rifiutate, senza lasciare spazio a alternative o a ambiguità.  

In altri termini, non è possibile ridurre lo straniero all’Io che io sono, non è possibile ridurre la differenza che intercorre tra di noi. 

O lo accolgo con tutto il suo mondo, ospitandolo nel mio mondo (il più delle volte arricchendomene) o non lo accetto nella sua differenza, gli divento ostile. 

A questo proposito l’antropologia culturale, per quanto paradossale possa sembrare, sostiene che la guerra non abolisce del tutto le possibilità di riconoscimento dell’alterità dell’altro.

La guerra è sempre una conseguenza della rottura di un ordine.

Essa scoppia quando l’opposizione logica tra l’io e l’altro diventa un conflitto reale.

Quando, da un’opposizione che consente all’io e all’altro di gestire la propria identità (attraverso il riferimento ad una totalità in cui entrambi sono calati), assorbendo e annullando la differenza che li separa, si passa ad un’opposizio­ne vissuta da ognuno dei due soggetti della relazione come un’insidia mortale che spinge entrambi a tentare di imporre all’altro la propria sovranità.

Il discorso, come si vede, è complesso. 

Se da un lato, lo straniero deve essere accolto, dall’altro lato, lui deve lasciarsi ospitare, la sua natura deve essere quella dell’ospite e non del nemico.  

Affinché ci sia accoglienza, è dunque necessaria la buona disposizione di entrambe le parti, l’ospite e l’ospitante, per forza di cose, come abbiamo già visto, entrambi stranieri l’uno all’altro.

Nei fatti l’esperienza insegna che è proprio la mancanza di “buona disposizione” verso l’altro, il diverso da me, che sta la base dell’ostilità.  

Una diversità che può riguardare qualsiasi cosa. 

Può essere una diversità estetica, di provenienza, culturale, sessuale, religiosa o semplicemente di abitudini, di educazione, di colore della pelle.

Comunque sia il problema è sempre lo stesso, la buona o la cattiva disposizione verso l’altro.  

L’una può condurre all’apertura, al dialogo. 

L’altra apre la strada al pre-giudizio, al rintanarsi nel proprio mondo con la presunzione che sia l’unico giusto e sicuro. 

Sul concetto di nemico sono importanti anche le considerazioni di Carl Schimitt, cominciando da quelle contenute nel testo Le categorie del ‘politico, per il quale la dicotomia amico/nemico va sottratta a qualsiasi caratterizzazione psicologica, a qualsiasi confusione etica o economica e tanto meno va intesa in senso individualistico-privato. 

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Carl Schmitt (1888-1985) è stato un giurista e filosofo politico tedesco. Come giurista, in particolare, è uno dei più noti e studiati teorici tedeschi di diritto pubblico e internazionale. 

Le sue idee hanno attratto e continuano ad attrarre l’attenzione di molti filosofi, studiosi di politica e del diritto sia europei che americani. 

Il suo pensiero, le cui radici affondano nella religione cattolica, ruotò attorno alle questioni del potere, della violenza e dell’attuazione del diritto. 

Tra i suoi concetti chiave ricordiamo lo stato di eccezione (Ausnahmezustand), la sovranità, il grande spazio, e hostis – inimicus (il rapporto “nemico-avversario” come criterio costitutivo della dimensione del politico). 

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Questa categoria va considerata come una contrapposizione fondata sul raggruppamento degli uomini in base a contrasti di natura diversa (sia economici, che religiosi, etnici o altro che siano), abbastanza forti da scavare un solco fra un noi e un loro.  

Scrive Schimitt:

Nemico non è il concorrente o l’avversario in generale.

Nemico non è neppure l’avversario privato che ci odia in base a sentimenti di antipatia.  

Nemico è solo un insieme di uomini che combatte e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere.

Nemico è solo il nemico pubblico, poiché tutto ciò che si riferisce ad un simile raggruppamento, e in particolare ad un intero popolo, diventa per ciò stesso pubblico.  

Il nemico è l’hostis, non l’inimicus in senso ampio.   

Il termine hostis non è l’unica parola latina con il significato di “nemico”.  

I Romani infatti avevano diverse parole per esprimere tale concetto. 

Oltre a hostis, che come abbiamo visto indica il nemico straniero, usavano adversarius, adversarii  (da adversus, ” di fronte, contro”) per indicare l’avversario, il rivale, l’emulo e inimicus, inimici  (da in-amicus, “non amico”) per indicare il nemico personale.

Infine.  Il nemico in greco è il polemios (l’avversario in guerra), non l’echthros (il nemico interno, quello contro cui si prova odio in una guerra civile, stasis). 

(Febbraio, 2020)

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