LA COMUNICAZIONE NELLA SOCIETA’ MULTIETNICA – ESERCITAZIONE FINALE

I.E.D.  Milano
Anno accademico 2019-2020
(Esercitazione finale)
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LOOKING THROUGH THE BREAKFAST.

Man ist was Mann isst

L’identità soggettiva nelle scienze sociali è l’insieme delle proprie caratteristiche auto-percepite, costituisce un’identità fluida, difficile da circoscrivere, carica di ombre, con la quale dobbiamo fare in continuazione i conti.  Essa, però, è anche tutto ciò che ci caratterizza, ci rende inconfondibili, ci consente di dare un senso all’idea di “Io”.  In questo modo l’identità soggettiva serve sia ad identificarci che a discriminarci, producendo spesso degli stereotipi culturali che alimentano il pregiudizio.

Di contro l’identità oggettiva, che non necessariamente coincide con quella soggettiva, è la questione sulla quale convergono almeno tre rappresentazioni di ciò che siamo:

La nostra identità fisica, che si desume principalmente dal volto, dalla postura e dal sesso.

La nostra identità sociale, ovvero l’insieme di alcune caratteristiche quali l’età , lo stato civile, la professione, la classe di reddito.

La nostra identità psicologica, costituita dalla personalità che abbiamo, dalla conoscenza di sé, dallo stile di vita e di comportamento.

Sono identità che variano più o meno rapidamente e coscientemente.  Più o meno indipendentemente da quello che noi vogliamo o siamo in grado di volere.

Va anche considerato che queste due rappresentazioni dell’identità, anche se non coincidono, sono profondamene intrecciate tra di loro.  Per esempio, il mio modo di vedermi è in larga misura il riflesso della maniera in cui mi guardano gli altri e della maniera in cui io so che gli altri mi vedono, con il risultato che molto spesso i giudizi che esprimiamo o riceviamo sono improntati sulla malafede, sulla cortesia, o godono di una benevolenza parentale ed amicale.

L’identità soggettiva indica anche la capacità degli individui di aver una coscienza dell’esistere e di “permanere” attraverso tutte le fratture dell’esperienza.

In filosofia è stato John Locke (1632-1704), nel Saggio sull’intelligenza umana, ad affrontare alla radice il tema dell’identità soggettiva in un’epoca in cui entra in crisi la vecchia rappresentazione metafisica e religiosa dell’anima intesa come un’ancora che ci tiene legati al senso del mondo e del suo divenire attraverso il tempo.

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È opinione condivisa che gli atti alimentari riflettono la nostra personalità.  Se gli alimenti che ingeriamo sono indispensabili alla vita, il nostro gusto, lo stile con cui mangiamo, les nos manières de table ci situano nel mondo e nella società. 

La nostra identità, da questo punto di vista, si costruisce attraverso le abitudini dell’infanzia, i modi alimentari della classe alla quale apparteniamo o quella alla quale vorremmo appartenere, dalle nostre relazioni familiari.    

Dal “Man ist was Mann isst” a “Dimmi quello che mangi e ti dirò chi sei”, il passo è breve, a tal punto che certe teorie psicosomatiche parlano della bulimia, dell’obesità e dell’anoressia come segni di una incapacità ad esprimere i sentimenti, in particolare quelli di ostilità e di collera verso gli altri o verso se stessi  

Obiettivo dell’esercitazione è la realizzazione di un autoritratto che esprima – attraverso il posto della prima colazione, come la prepariamo, quello che mangiamo – la nostra “identità soggettiva” o quello che riteniamo sia una rappresentazione di essa. 
Utilizzare, come formule espressive, solo se stessi e gli elementi che compongono la propria sfera domestica.

L’autoritratto può essere elaborato con il mezzo espressivo che si ritiene più opportuno, disegno, foto, fumetto, collage, rappresentazione elaborata per via digitale.  

L’elaborato dovrà essere inviato a: gesmos@gmail.com

Se l’elaborato è troppo “pesante” per essere inviato via e-mail inviarlo tramite https://wetransfer.com

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LA COMUNICAZIONE NELLA SOCIETA’ MULTIETNICA – 8a lezione

PAESAGGI SENSORIALI

Come non vedere nell’antico canto delle sirene e
nella conchiglia che il bambino porta all’orecchio due forme di soundscape?

Il paesaggio è un’invenzione degl’uomini e esso riflette l’identità di chi lo vive. 

È un concetto antico, almeno in pittura, in Europa lo possiamo far risalire al quindicesimo secolo. 

Come dice la Convenzione Europea sul Paesaggio va tutelato perché è un elemento del benessere individuale e sociale di un luogo.   

Il concetto di paesaggio sonoro è più recente.  Nell’ambito delle “scienze del suono” questo landscape compare negli anni ’60 in California, all’interno dei dibattiti sulla salvaguardia dell’ambiente.         

Di fatto, è solo da un paio di decadi che antropologi e etno-musicologi si occupano di questa dimensione del sensibile definita paesaggio sonoro o paesaggio musicale, anche se l’antropologia culturale ha fin dalla sua nascita nel suo campo di studi la musica come arte del suono.  

Ricordiamo che il suono, in sé, è uno dei materiali della musica, un artefatto, un oggetto fabbricato dall’uomo con o senza utensili (gli strumenti musicali), ma non senza regole precise, culturalmente definite

Prodotta in moltissimi modi, con gli scopi più diversi, la musica è dovunque nel mondo come una sua espressione.  Per comprenderne il perchè è sufficiente domandarci: Che cosa la musica ci permette di fare che noi possiamo fare diversamente? 

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Una parentesi.  I paesi che aderiscono all’UNESCO, nel 2003, a Parigi, hanno firmato una Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale.

L’articolo due di questa Convenzione definisce che cosa sono i patrimoni culturali immateriali: 

Sono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il knowhow – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale.  

Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana. 

La Convenzione precisa inoltre come tali prassi devono essere compatibili con i diritti umani, il rispetto reciproco tra le persone e lo sviluppo sostenibile. 

Viene anche presentata una casistica, tipica ma non esaustiva, dei possibili patrimoni:

– tradizioni ed espressioni orali, ivi compreso il linguaggio, in quanto veicolo del patrimonio culturale immateriale.   

 – arti dello spettacolo. 

– consuetudini sociali, eventi rituali e festivi

– cognizioni e prassi relative alla natura e all’universo

– artigianato tradizionale.

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Dal punto di vista antropologico possiamo aggiungere che, nel suo significato più ampio, tutta la produzione sonora intenzionale (dell’uomo) è musica. 

È in quest’ottica che da qualche tempo il campo semantico del temine musica si è arricchito dell’espressione di paramusica per indicare, per fare qualche esempio, il suono del tric trac o della raganella delle feste paesane, i suoni degli animali domestici o quelli che l’uomo produce giocando con gli elementi naturali, come i suoni dell’arpa eolica (Aeolian Harp).    

Con paramusica si indica anche lo charivari, anche se per questo “frastuono musicale” si preferisce il termine di contromusica.  Termine più appropriato per le manifestazioni musicali che esprimono la contestazione o il disordine del carnevale.   

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U zirru (più conosciuto come  raganella o tric trac)  è costituito da una scatoletta di legno a forma di parallelepipedo di cui una faccia viene trasformata in una lamina di legno fatta vibrare da una ruota dentata che gira attorno a un perno che funge anche da impugnatura dello strumento.

In questo modo si riesce a produrre un suono secco e prolungato udibile anche da notevole distanza.  

La tradizione ne attribuisce l’invenzione ad Archita di Taranto, filosofo, matematico e scienziato vissuto tra i V e il IV secolo avanti Cristo.

La trena è una variante molto più rumorosa dello zirru.  È costituita da una cassa di legno sulla quale vengono fissati dei martelletti di legno vibranti azionati, alternativamente, da una manovella.

Ogni volta che uno o più martelli colpiscono la cassa producono un suono cupo e forte, amplificato dalla cassa come la cassa armonica di un contrabbasso.

L’arpa eolica è uno  strumento musicale cordofono ad aria, molto particolare nel suo genere, in quanto le corde non vengono fatte vibrare meccanicamente dall’uomo, ma dal vento. 

Una caratteristica che comporta che le melodie prodotte da un’arpa eolica siano sempre diverse e casuali.

Secondo la mitologia greca, ad inventarla fu il Dio dei venti, Eolo, ma strumenti simili ad esso, erano già noti oltre che alla civiltà greca, anche ad altre società primitive.

Il primo a descrivere questo strumento fu il filosofo e gesuita tedesco Athanasius Kiecher (1602–1680), autore del libro Phonurgia nova, sive conjugium mechanico-physicum artis & natvrae paranympha phonosophia concinnatum del 1673.

La produzione e diffusione “moderna” dello strumento nel mondo occidentale, risale al XVII secolo.

Lo charivari è un termine francese (dal greco καρηβαρία, pronuncia “scerivari”), in italiano è capramarito o anche chiavramarito (alterazioni popolari del latino medioevale charavaritum o chalvaritum).

Lo charivari era una manifestazione di protesta rumorosa, una manifestazione di rabbia o irrisione collettiva, contro individui responsabili di atti ritenuti offensivi verso la morale comune o le tradizioni. 

Spesso consisteva in assembramenti di persone, il più delle volte travestite, utilizzando oggetti qualunque – pentolame e/o utensili di lavoro – producevano del chiasso presso l’abitazione della persona verso la quale la protesta era indirizzata, in tal modo veniva simbolicamente esclusa dalla comunità e spinta, di fatto, ad abbandonare il gruppo o a fare ammenda. 

Non era raro che l’evento poteva ripetersi anche per diverso tempo fino a che le motivazioni della protesta non venivano soddisfatte. 

Le chiarificazioni più comuni riguardavano i matrimoni tra risposati, i matrimoni tra persone di età molto diverse o i matrimoni di vedovi, oppure fatti specifici, come la scoperta di relazioni adulterine o omosessuali. 

Poteva avere anche una funzione inversa, non di disapprovazione esplicita, ma di invito, ad esempio verso coppie non ancora sposate. 

Un esempio moderno di charivari, qualche anno fa, è stato il suono delle pentole delle Madri di Plaza de Mayo a Buenos Aires che disapprovavano l’autoritarismo del governo e la violenza della polizia.   _____________________________________________________________________________

Per tornare in argomento, l’espressione di polimusica, infine, definisce la giustapposizione di musiche che non sono fatte per essere suonate insieme.  

In questo contesto, l’etnomusicologia ha come obiettivo quello di descrivere tutte le forme di musica e come gli uomini le realizzano – rispondendo alle domande “quando”, “come” e “perchè” – in modo da enucleare e comprendere la natura dei legami sociali e il senso che la comunità da alla forma musicale.  

Di recente sono state avanzate delle nuove classificazioni che hanno dilatato i confini dell’etnomusicologia. 

la Geofonia, intesa come l’insieme delle fonti (sonore) naturali, non animali, come il vento, la pioggia, il tuono, il torrente. 

– la Biofonia, che comprende le fonti animali. 

– l’Antropofonia, vale a dire i suoni degl’esseri umani e degli artefatti che costruisce. 

In questa classificazione la geofonia è il solo paesaggio sonoro concomitante con l’apparizione della vita sulla terra.    

C’è anche una disciplina, l’etnologia cognitiva della percezione – teorizzata da Olivier Wathelet (Laboratorio di Antropologia e di Sociologia dell’Università di Nizza) – che ha l’obiettivo di rendere comprensibili i meccanismi cognitivi e sociali che contribuiscono alla formazione dei paesaggi sensoriali, qualunque sia la loro natura e le loro modalità di percezione. 

Prima di procedere dobbiamo considerare la nostra capacità ad alternare o a mescolare la percezione olistica (o analitica) di un ambiente sonoro, descritta dal fenomeno definito cocktail party problem.  

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Qui, l’approccio olistico sottolinea come nel prendere in considerazione una qualunque situazione umana occorre necessariamente considerarla nelle sue relazioni con l’insieme di cui fa parte, pena l’impossibilità di comprenderla e di affrontarla in modo corretto ed efficace.  

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Gli scienziati chiamano effetto cocktail party (cocktail party problem) la capacità del cervello di azzerare il rumore e concentrarsi su un qualcosa in particolare.

Questo processo, però, non è facile come sembra. 

Per sentire quello che qualcuno ci dice in una sala affollata il nostro cervello deve essere in grado di discriminare quel preciso suono dal resto dei suoni che entrano dalle nostre orecchie. 

Allo stesso tempo, dobbiamo saperci concentrare su quel suono, anche se c’è altra gente che chiacchiera e ride attorno a noi e/o con la musica ad alto volume.

Lo psicologo Frédéric Theunissen dell’Università di Berkeley afferma che vi sono aspetti della voce di una persona che si possono distinguere e ognuno di noi è in grado di focalizzare la propria attenzione proprio su queste caratteristiche, per ascoltare una voce in una stanza piena di rumori. 

Ad esempio, l’ascoltatore si può concentrare sul tono e il timbro di chi parla, oppure sul suo accento. 

Anche il modo in cui chi parla mette insieme le varie parole che compongono una frase può influenzare la percezione di chi ascolta.  Naturalmente, si riesce meglio ad identificare le parole se queste formano una frase sensata, rispetto a una serie di parole a caso.

Poiché non vi è alcun modo per escludere totalmente certi suoni dalle nostre orecchie e farne passare altre, tutti i suoni di un ambiente entrano nelle nostre orecchie e vengono tradotti in segnali elettrici nel cervello.  

Questi segnali si muovono in diverse aree cerebrali prima di raggiungere la corteccia uditiva, cioè la parte del cervello che elabora il suono.

Secondo una ricerca della Columbia University, il nostro cervello elabora tutti i tipi di suono che le nostre orecchie percepiscono (quindi i segnali arrivano tutti alla corteccia uditiva), ma solo quelli su cui ci concentriamo raggiungono anche le aree del cervello coinvolte nell’elaborazione del linguaggio e nel controllo dell’attenzione.  

I suoni su cui non prestiamo attenzione, invece, non raggiungono la nostra consapevolezza. 

Con l’età, questa nostra capacità di focalizzarci sui suoni che ci interessano si indebolisce.  Non si tratta però di una semplice perdita dell’udito, quanto di una diminuzione dell’attenzione.  

Negli anziani è stato rilevato una progressiva riduzione questa attenzione selettiva con la conseguente attenuazione della capacità di seguire un discorso in una stanza piena di suoni.

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Theunissen dirige L’Auditory Scienze Lab.

Così ha descritto il suo lavoro: L’obiettivo primario del nostro laboratorio è quello di capire come dei suoni naturali complessi come sono quelli del linguaggio umano, della musica e degli animali vengono individuati e riconosciuti dal cervello.

In sostanza studiamo la natura dei segnali di comunicazione utilizzando approcci comportamentali e statistici e, parallelamente, studiamo il sistema uditivo degli esseri umani e degli uccelli canori utilizzando tecniche neurofisiologiche. 

In queste ricerche usiamo metodi computazionali applicati alle neuroscienze per generare teorie di audizione, per studiare i suoni e per analizzare i nostri dati neurali. 
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Per tornare in argomento, va notato a proposito di questa capacità di focalizzare i suoni che è sull’opposizione tra un rumore di fondo e degli avvenimenti sonori singolari che si fonda il fenomeno della territorializzazione

Un’opposizione che ci consente di riconoscere un alpeggio di montagna con le sue mandrie di bovini o una zona di un quartiere popolare di una metropoli.  

Un esempio specifico e curioso di territorializzazione è considerato il suono continuo dei campanelli delle biciclette senza freni dei portatori di pane del Cairo, un suono che si può dire identitario di questa città. 

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Bike for Bread è un documentario di ventisei minuti che racconta la stupefacente storia dei BahiaAlaheich, gli straordinari ciclisti portatori di pane del Cairo. Nel traffico infernale della megalopoli egiziana, passano come stelle filanti, risalgono contromano interminabili code di automobili, scivolano leggeri tra le file dei tavolini di un caffè all’aperto per scomparire dentro un bazar. Sulla loro testa, in miracoloso equilibrio, tengono centinaia di pane Baladi, che arrivano a pesare anche 50 kg. Con una mano tengono il vassoio con il pane a strati, con l’altra il manubrio della bici. Ogni giorno, sfrecciando lievi nella bolgia del Cairo, consegnano migliaia di pani, dai forni alle rivendite dei negozi.

[vimeo]http://vimeo.com/46173524[/vimeo]

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Alcuni studi di antropologia hanno dimostrato come una diminuzione della diversità biologica di un luogo comporta nel breve termine una diminuzione della diversità biofonica

Su questo tema molti viticultori in Francia hanno costatato come l’introduzione del trattamento chimico delle vigne hanno fatto sparire alcuni suoni di fondo naturali – come quelli dei grilli o delle cicale – e aumentato quello degli automezzi e, di conseguenza, dell’inquinamento sonoro.

 È una delle motivazioni che ha contribuito a promuovere gli archivi dei natural soundscapes che non esistono più e ha convinto molti paesi, come il Giappone, a tutelare il loro patrimonio biofonico

En passant notiamo, di contro, che ordine e silenzio siano considerati strumenti di controllo sociale e come, nei “luoghi comuni” della conversazione sono associati insieme. 

In ogni modo la crescita demografica e il moltiplicarsi degli artefatti, che caratterizzano la modernità, ha moltiplicato le sorgenti di suono, soprattutto nei centro urbani. 

Il problema è verificare in quale misura questa moltiplicazione corra parallela a una standardizzazione e a una omogeneizzazione sonora.       

Resta il fatto che un ambiente sonoro è sostanzialmente inseparabile dal suo contesto sociale e che rappresentano le due facce dello stesso paradigma, quello dell’antropologia del sonoro. 

Il concetto di paesaggio sonoro, in sede universitaria, diventò popolare in Europa a partire dal 1977 quando Robert Murray Schafer pubblicò The tuning of the world, in cui compare per la prima volta il concetto di soundscape

Il titolo del libro si pu tradurre con “Accordare il mondo”.   

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Raymond Murray Schafer (1933) è un compositore e un ambientalista canadese particolarmente noto per il World Soundscape Project, da lui ideato negli anni Sessanta del secolo scorso al fine di promuovere una nuova ecologia del suono, sensibile ai crescenti problemi dell’inquinamento acustico. 

Schafer ha studiato al Royal Conservatory di Londra e all’Università di Toronto. 

Ha poi per molti anni ha insegnato alla Simon Fraser University di Vancouver. 

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Il paesaggio sonoroper le leggi dell’acustica è composto da diversi elementi, come le toniche (keynote sounds), i segnali (sound signals) e le impronte sonore (soundmarks).

Tonica: è un termine musicale riconducibile all’armonia tonale che indica sia la prima nota di una scala, sia una funzione armonica di stasi. 

Nella terminologia elaborata dal World Soundscape Project sta ad indicare una sonorità che potrebbe non essere sempre udito coscientemente, ma che evidenzia il carattere generale di un luogo.    

Le toniche sono create dalla natura, cioè dal vento, dall’acqua, dalle foreste, dagli uccelli, dagli insetti, dagli animali in genere.

In molte aree urbane lo stesso traffico è diventato una tonica così come il borbottare di un frigorifero in un appartamento. 

– Segnali: i segnali sono suoni in primo piano, uditi coscientemente. 

Ad esempio: i dispositivi d’allarme, la sirena dei pompieri o delle forze dell’ordine, le campane, i fischietti, le sveglie degli orologi, eccetera. 

Impronte sonore: l’impronta o marca sonora è un suono caratteristico di un’area.

Una volta che un’impronta sonora è stata identificata, ha scritto Schafer, meriterebbe di essere protetta, perché le impronte sonore rendono unica la vita acustica di una comunità. 

Per i berlinesi, ad esempio, il rumore della metropolitana al momento della chiusura delle porte è una impronta sonora che è divenuta un soundmark che definisce Berlino.  

Oggi molti studiosi del suono sostengono che certe impronte sonore possono rappresentare sia gli aspetti naturali che quelli culturali e storici di un luogo.  In senso lato non sono solo forme di sapere, ma anche di poesia. 

Sempre per esempio, è il caso del rumore dei cancelli in ferro dei vecchi palazzi storici o il rumore dei treni sul Pont du Bois Monzil a Villars, alla periferia di Saint Etienne.    

È il ponte ferroviario più antico nell’Europa continentale, costruito nel 1827 e classificato come monumento storico. 

Il fascino dei paesaggi sonori, da qualche anno a questa parte, è anche testimoniato dal loro crescente utilizzo nelle performance musicali.  ____________________________________________________________________________      

In linea generale diciamo che il paesaggio sonoro è delimitato dalla percezione uditiva come il paesaggio naturale è delimitato dal campo visuale. 

Non a caso, per Schafer, prima di essere sonoro il paesaggio è uno spazio acustico. 

Questo spazio rappresenta la globalità del campo auditivo.  In pratica tutto ciò che l’orecchio è capace di percepire di un luogo.   

Dentro questo spazio, poi, c’è una moltitudine di oggetti sonori che compongono l’ambiente sonoro. 

Secondo l’importanza della tonalità e/o dei segnali il paesaggio sonoro può essere definito “lo-fi” (abbreviazione di low fidelity), vale a dire povero o confuso a livello di tonalità e segnali o,“hi-fi” (hight fidelity), che indica un rapporto di segnali e tonalità soddisfacenti. 

Questa divisione in qualche modo serve a definire l’estetica acustica, intesa come la ricerca di quei principi che consentirebbero di migliorare la qualità estetica di un ambiente acustico o di un paesaggio sonoro

Se provassimo a pensare il paesaggio sonoro come a una gigantesca composizione musicale in perpetua evoluzione e se riuscissimo a comprenderne l’orchestrazione e le sue forme potremmo modificarlo o arricchirlo senza danneggiarlo o nuocere agli uomini. 

Più prosaicamente, l’estetica acustica potrebbe avere un grande ruolo nell’eliminare o ridurre il rumore nocivo, nel controllare i nuovi rumori e soprattutto nel conservare le impronte sonore che rendono piacevole un luogo e proteggono la sua identità. 

Quest’ultimo punto si salda con quella che si definisce l’ecologia acustica, vale a dire lo studio dei rapporti tra gli esseri viventi e l’ambiente dal punto di vista dei suoni e del silenzio. 

Un altro tema a cavallo tra estetica e ecologia è quello della protezione dei suoni minacciati di sparizione.  

Questi suoni dovrebbero essere registrati con molta cura è considerati come dei preziosi reperti storici. 

Per l’UNESCO il flamenco è un soundscape 

Un’espressione della comunità acustica dell’Andalusia che ne condivide la tradizioni e ne conosce il significato. 

In questo senso è parte del patrimonio culturale intangibile di questa regione. 

La sua impronta sonora rinvia alla “battaglia figurata tra i sessi” e al ruolo dei gitanos nella società spagnola.      

Da qualche anno ci sono molti antropologi che si stanno battendo anche perchè siano mantenuti in vita dei complessi sonori unici e irripetibili o, perlomeno, che il loro ricordo non sia perduto.                  

Che cosa sarebbe Salisburgo senza le campane del suo Duomo, Stoccolma senza il carillon

dello Stad-Huset o Londra senza il Big Ben?     

In altri termini, ogni impronta sonora è carica di una particolare valenza simbolica, culturale e (in genere) sociale. 

Alcune impronte sonore, come abbiamo già visto, sono monolitiche e costituiscono il marchio su un’intera comunità

A Vancouver, ad esempio, un cannone, costruito nel 1816, viene sparato ogni sera nel porto a partire dal 1894. 

Originariamente serviva a indicare l’ora ai pescatori, oggi viene invece conservato come souvenir sonoro.    

Come abbiamo visto Schafer distingue tra eventi sonori e oggetti sonori

Un oggetto sonoro è un oggetto acustico astratto. 

Un evento sonoro è invece definito dalla sua dimensione simbolica, semantica e strutturale.    

Differente, invece, è il rapporto tra musica e paesaggio sonoro.  

Una composizione musicale può sfruttare i suoni del paesaggio sonoro così come può partecipare a definire la sua identità. 

Un caso di particolare interesse è quello della musique d’ameublement e dei suoi sviluppi, negli anni Settanta, con il diffondersi della ambient music.  

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Musique d’ameublement è un’espressione coniata dal compositore francese Erik Satie per definire una stagione della sua produzione musicale (1916-1925).  

Letteralmente significa “musica da arredamento” e viene talvolta tradotta con “musica da tappezzeria”.

Lo stesso Satie la definiva come “musica che non ha bisogno di essere ascoltata”, suscitando numerose polemiche.

Esempio della musique d’ameublement è il balletto in due atti Relâche (1924) con il celebre inserto cinematografico Entr’Acte, firmato da René Clair.

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Un aneddoto: Un giorno Erik Satie, seduto al tavolino di un caffè parigino, disse a Fernand Leger che era con lui: “Sai, bisognerebbe creare della musica d’arredamento, cioè una musica che facesse parte dei rumori dell’ambiente in cui viene diffusa, che ne tenesse conto. Dovrebbe essere melodiosa, in modo da coprire il suono metallico dei coltelli e delle forchette senza però cancellarlo completamente, senza imporsi troppo. Riempirebbe i silenzi, a volte imbarazzanti, dei commensali. Risparmierebbe il solito scambio di banalità. Inoltre, neutralizzerebbe i rumori della strada che penetrano indiscretamente dall’esterno”. 

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Più vicino a  noi fu John Cage il primo compositore a comprenderne il senso innovativo, affermando che la musique d’ameublement offre la possibilità di “fare uscire il compositore dalla sua individualità, restituendo ai suoni la libertà di essere se stessi”.

Si può definire con musica d’ambiente anche quella del compositore inglese Brian Eno, che negli anni ’70 “arreda” di suoni gli aeroporti utilizzando una strumentazione elettronica. 

Diceva Satie: “L’abitudine e l’uso vogliono che si faccia musica in circostanze con le quali la musica non ha niente a che vedere.   

In queste occasioni si suonano Fantasie d’Opera, valzer e simili, lavori composti per ben altro fine.  

Noi vogliamo produrre una musica dichiaratamente adatta a questo scopo.  L’Arte è un’altra cosa.  

La Musique d’Ameublement crea una vibrazione, non ha altro scopo.  Ha la stessa funzione della luce, del calore e del comfort in tutte le sue forme.  Sostituisce vantaggiosamente Marce, Polke, Tanghi, Gavotte e via dicendo.  Esigete la Musique d’Amebulement.   Disertate le case che non adottano la Musique d’Ameublement”.  

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In realtà da sempre la musica accompagna le pratiche sociali, partecipando ad innumerevoli riti e forme di intrattenimento, mentre un ascolto composto e attento appartiene ad una fruizione consapevole relativamente recente.  

Innovativa e commerciale, per molti, è l’idea di comporre specificatamente per degli ambienti, di dare un arredamento sonoro assolutamente non intrusivo con una specifica estetica.

Oggi, del resto, nella progettazione di spazi di qualsivoglia natura (pubblici, privati, aperti, chiusi, etc.) l’elemento acustico è di particolare importanza. 

Tendenzialmente si tende a ridurre il rumore, ossia tutto il suono invadente è non desiderato, e a amplificare gli eventi sonori.

Qui, amplificare non significa mettere in primo piano, ma piuttosto consentire l’intelligibilità dell’evento sonoro.

Esiste dunque un’estetica del cambiamento del paesaggio sonoro e riflettere su di esso vuol dire rilevare i cambiamenti intervenuti nella percezione e nel comportamento di quelli che lo abitano. 

Per concludere, il primo suono che gli uomini intesero fu quello delle acque che scorrono, ma il mondo stesso è un’immensa composizione musicale che si dispiega senza soste.

Da qualche tempo a questa parte conservarlo è diventato un impegno culturale e politico soprattutto quando è specifico e unico come coloro che l’hanno creato e lo abitano.    

(Febbraio2020)

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LA COMUNICAZIONE NELLA SOCIETA’ MULTIETNICA – 7a lezione

IDENTITA’ E FORME ALIMENTARI (seconda parte)

Premessa – VISUAL CULTURE. 

L’espressione di visual culture è stata elaborata per la prima volta da Svetlana Alpers nel 1972  nell’ambito di una ricerca sulla pittura fiamminga. 

La Alpers è una storica dell’arte americana, insegna a Berkley ed è stata un’allieva di Ernst Gombrich. 

Questa espressione serviva ad indicare la complessità visuale di questa pittura, ma soprattutto a sottolineare la struttura della visione propria dell’epoca in oggetto, il XVII secolo. 

In altri termini, la Alpers trasforma l’opera in un testo visivo che circoscrive, nella fattispecie di questi studi, la dimensione culturale delle Fiandre. 

La pittura europea antica, infatti, non è comprensibile esclusivamente ripercorrendone la sua specifica evoluzione perché è sempre parte di un contesto più generale, di una mappa entro cui assumono un ruolo le diverse fonti culturali che sono legate alla visione e alla sua rappresentazione. 

In pratica le opere d’arte antiche possono essere considerate un sistema testuale regolato da specifici meccanismi della visione. 

Colui che guarda è innanzitutto un interprete e la cultura visuale è divenuta un progetto interdisciplinare di analisi critica dei linguaggi visivi, che salda l’approccio storicistico con la  prospettiva antropologica mirata ai processi culturali. 

In questo modo le immagini non sono più considerate di per sé, ma come un insieme di pratiche che variano non solo con l’uso, ma anche per i significati che ricevano, come avviene oggi se pensiamo alla fotografia o al cinema.  

In altri termini si può affermare che la cultura visuale rappresenta lo sviluppo di una nuova centralità epistemologica, dopo quella della scrittura, una centralità della visione, o se si preferisce usare un neologismo, dei regimi scopici. 

Il problema di fondo è presto detto. 

Fino a che punto un’immagine può essere concepita come un linguaggio? 

Soprattutto, nel caso specifico della cultura visuale, in che modo una critica della cultura può riformulare le relazioni tra potere e sapere aggiungendoci quelle tra vedere e conoscere e, dunque, tra vedere, sapere e potere? 

Una cultura visuale, in breve, come ogni cultura, è il risultato di pratiche diverse che si collocano a differenti livelli della produzione testuale e della sua interpretazione come del soggetto che le consuma. 

L’analisi di una cultura visuale diviene così anche un percorso delle differenze culturali, in particolare di genere e di etnia, così come di molti stereotipi culturali e di molte forme di rappresentazione della marginalità. 

Qui, l’articolazione tra osservatore e osservato va intesa come una relazione che non è imposta o determinata dall’esterno, ma è formata attraverso che cosa il soggetto vede e come lo vede o, in altri termini, da come il suo paradigma visuale è costituito. 

In questo modo ciò che viene visto e i suoi significati variano in continuazione anche in conseguenza degli schemi interpretativi che su di esso pesano. 

Il testo visivo è così situato all’incrocio di più formazioni discorsive e in questa ottica il guardare, il vedere e l’interpretare divengono pratiche culturali che presuppongono sia un ruolo che  un’interazione con le proprie competenze e i propri desideri. 

Possiamo dire che è in questo modo che le immagini diventano una pratica cultuale. 

Tutto questo mostra come un testo con figure si allarga dal “discorso” al “discorsivo” e facilitare l’incontro di pensiero, idea, pratica. 

Di più, i linguaggi visivi contribuiscono sempre di più a definire l’area entro cui si costituisco i soggetti e si negoziano la loro identità. 

In breve, il paradigma visuale riunisce oggi assunti teorici diversi e diversamente astratti che comprendono il contesto sociale, le formazioni ideologiche, i significati simbolici e psichici propri dei simulacri di una società divenuta dello spettacolo. 

Vediamo un caso di specie.

Pieter Bruegel il Vecchio (1525-1569), Nozze paesane o Pranzo di nozze, 1568 circa. 

Con Antoine Van Eyck, Hieronymus Bosch, in qualche modo suo padre spirituale, e Pieter Rubens, che possedeva parecchi suoi quadri, Pieter Bruegel il Vecchio è uno dei quattro principali esponenti della pittura fiamminga del Sedicesimo secolo. 

La fonte principale delle notizie su questo artista, come di altri di quest’epoca, è rappresentata da un capitolo che Karel Van Mander gli dedica nel suo Schilder Boeck (Libro della pittura), un’opera di studi biografici e storici pubblicata ad Haarlem, in Olanda, nel 1604, circa trent’anni dopo la morte di Bruegel, che molti paragonano all’opera del Vasari, Vite

Nonostante le ricerche i suoi dati biografici sono incompleti e talvolta anche contraddittori. 

Non è stato possibile identificare il luogo preciso della sua nascita che, con molta probabilità, si trova nel Brabante e, forse, è Bree, l’antica Breda

Sappiamo con certezza che lavora con Pieter Balten nella corporazione dei guantai di Malines intorno al 1550-51 e che diventa libero maestro nella gilda di San Luca dei pittori di Anversa in quello stesso periodo.  

Questo dato è quello che consente di situare la sua data di nascita intorno al 1525

Nel 1553 è a Roma dove pare abbia incontrato e frequentato Giulio Clovio (1498-1578), detto il Michelangelo della miniatura, allievo di Giorgio Vasari (1511-1574).  

Dieci anni dopo, nel 1563, sposa a Bruxelles Mayken la figlia di Pieter Coecke Van Aelst (1502-1550), un artista che a suo tempo ebbe un certo successo, ma insignificante e di maniera, da cui avrà due figli: Pieter e Jan.

L’iscrizione funebre nella chiesa di Bruxelles, Notre-Dame de la Chapelle, dove si era sposato, reca come data della sua morte il 1569

Il pittore, dopo il suo apprendistato presso il suocero si stabilisce ad Anversa, lì, si racconta, è in stretto contatto con un certo Hans Franckert, un amico con il quale amava recarsi ai pranzi di nozze in campagna e confondersi tra gli invitati per osservare le abitudini dei contadini.  

Da Anversa, poi, dopo pochi anni si trasferisce a Bruxelles

C’è da notare che non sono molte le opere di incerta attribuzione poiché Bruegel aveva l’abitudine di firmarle e datarle. 

La produzione pittorica principale è ristretta negli ultimi dieci anni della sua vita. 

C’è l’inconsueto e splendido I giochi di fanciulli del 1560.

Per il 1565, l’elenco della sua produzione comprende i capolavori quali, Il Cristo e l’adultera, La strage degli innocenti, Le stagioni, subito dopo verranno, Il paese di Cuccagna e il Pranzo di nozze

Anche se tutto lascia pensare che Bruegel abbia usato il bulino poche volte, le stampe ricavate dai suoi disegni occupano un posto importante nella storia dell’incisione del XVI secolo, da cui la sua fama quando era ancora in vita.

Tutte le sue tavole sono state pubblicate da Hieronymus Cock, il cui laboratorio, Ai quattro venti, si trovava ad Anversa.  I soggetti sono vari: paesaggi alpestri e fluviali, parabole prese dai Vangeli, temi letterari, scene folcloristiche e documentarie. 

Se non c’è critico che non sia d’accordo nel riconoscere le sue incomparabili qualità artistiche e la sua influenza sull’evoluzione della pittura paesaggistica e della stampa, il messaggio della sua opera è ancora oggetto di vivaci controversie.

Esaminando i quadri e le incisioni molti hanno creduto di trovarvi sottintesi, allusioni e sberleffi contro il potere temporale e religioso. 

Altri ci hanno visto degli importanti riferimenti all’alchimia e alla filosofia ermetica, per esempio in Dulle Griet (Mad Meg, che noi conosciamo come La guerra).  

Altri ancora hanno sottolineato le preoccupazioni sociali di cui Bruegel si fa interprete in alcuni quadri in cui i soggetti principali sono i contadini e il popolo. 

Un popolo oppresso e sfruttato, ingannato da una masnada di soldati di ventura e lanzichenecchi. 

A questo proposito c’è qualcuno che afferma come l’opera La strage degli innocenti fosse, nell’intenzione dell’autore, una partecipata condanna della repressione esercitata dagli spagnoli.

Prima di procedere dobbiamo vedere, anche se a grandi linee, la situazione delle Fiandre al tempo di Bruegel

Il Sedicesimo secolo è un secolo di lotte religiose cruente, di assassini politici, di congiure, di ribellioni popolari, di matrimoni d’interesse tra le case regnanti, di regine sanguinarie, di trattati firmati e traditi che insanguinano in modo particolare il nord e la mitteleuropa, ed hanno uno dei loro epicentri nelle Fiandre, senza parlare delle lotte intestine inglesi e dell’avanzata dei turchi nel Mediterraneo.

Nelle Fiandre, infatti, si concentrano le mire espansionistiche di Filippo II di Spagna (1527-1598), autoproclamatosi protettore della Riforma Cattolica, che marciano di pari passo con le rivendicazioni religiose. 

Per comprendere il clima dell’epoca basta un dato, dei quarantadue anni di regno di Filippo II la pace regnò solo per sei mesi. 

In particolare, nel 1566, in seguito alla rivolta calvinista Filippo II s’impegnò a stroncare l’eresia imponendo nuove tasse e inviando nei Paesi Bassi il Duca d’Alba che sconfisse Guglielmo I d’Orange e, con il suo Consiglio del sangue, condannò a morte migliaia di uomini e donne, meritandosi il soprannome di macellaio delle Fiandre. 

Veniamo, ora, a queste nozze contadine. 

L’ambiente è quello di un granaio, non è un granché, ma queste sono le condizioni dell’epoca, ci sono degli invitati seduti su delle panche intorno ad un grande tavolo e una piccola folla di curiosi che si accalcano sulla porta d’ingresso.      

Non ci sono neppure, data l’occasione, dei decori importanti. 

Come abbiamo detto la vita è grama e la fame corre per le strade. 

Non ci sono le campate classiche della pittura manierista, ma travi in legno e balle di fieno. 

Sul dossale di una panca sono affissi foglietti indecifrabili, forse dei lunari o delle icone religiose. 

Ci sono due fasci di grano in qualche modo sorretti da un rastrello, un emblema del lavoro contadino. 

Fra questi e il dossale, dietro la sposa, c’è appeso un pallio, cioè, un mantello di lana verdastro su cui spicca una coroncina colorata. 

Si vede meglio in un altra opera sempre sul tema delle nozze dipinte dal figlio di Brueghel detto il Giovane.   

Far vedere il quadro.

Alla tavolata sono seduti alla rinfusa uomini, donne e bambini.  C’è chi beve a garganella, chi si porta il piatto alla bocca, chi chiede da bere, i visi portano già i primi segni dell’ebbrezza.

Il servizio è svolto da un paio di garzoni uno dei quali ha un mestolo di legno infilato nel cappello. 

I piatti sono portati in tavola usando una porta scardinata. 

Deve pesare parecchio visto come sono curvati gli assi di sostegno.  

Defilati sulla destra di chi guarda ci sono un frate o, forse è un francescano, e un ospite di riguardo, lo sappiamo perché porta la spada.  C’è anche un cane, di cui spunta la testa. 

Come in ogni festa paesana ci sono dei musici con delle cornamuse, sono fiamminghe, ronzano come sciami d’insetti e rallegrano le orecchie, forse girovaghi di mestiere, lo s’intuisce dai sonagli sul cappello del primo e dal coltello che l’altro porta appeso alla cinta. 

Che cosa stanno suonando? 

Forse delle pavanes, cioè, delle danze di corte di origine italiana, o delle gaillardes, danze di coppia che seguivano di regola alle pavanes o forse delle suite de branles, cioè, delle ronde antiche di origine celtica che si danzavano in cerchio muovendosi in senso orario. 

Com’è uso a volte nella pittura fiamminga in primo piano c’è un bambino che con un dito lecca con molta serietà un piatto.  Sul capo ha un cappello rosso piumato, è un cappello più grande di lui, certamente di un adulto. 

Veniamo al menu.  Intanto notiamo che a fianco del bambino c’è un cantiniere che sta versando del sidro in una caraffa.  La tiene scostata dall’anfora, per comodità, ma anche perché il sidro si ossigeni.  Che sia sidro lo si deduce dal colore. 

In questo tempo i poveri non usavano i bicchieri, di vetro o di metallo, troppo costosi, ma bevevano direttamente dalle caraffe, riservandosi, per devozione, di versare a terra l’ultima goccia. 

Sulla porta scardinata ci sono delle ciotole. 

Alcune con una broda giallo-arancione, potrebbe essere una polenta di orzo o di miglio colorata con lo zafferano, ma questa droga, allora era costosa, è più probabile che si tratti di mais. 

Le ciotole con la broda bianca sono un withedish, un bianco mangiare. 

Sul tavolo si scorgono dei pani e dei coltelli, i pani affettati s’inzuppavano nelle brode, per ammorbidirli, le dentature, allora devastate dalle carie.  

Veniamo adesso alla grandezza di questo dipinto che si rivela in alcuni dettagli inquietanti. 

La sposa l’abbiamo riconosciuta perché ha una coroncina nuziale. 

Non sta mangiando, forse medita, secondo la tradizione, oppure si è già pentita. 

In ogni caso nessuno bada a lei. 

E lo sposo?  Non si vede.  Perché? È una tela non una fotografia…  

Alcuni sostengono che sia l’uomo in primo piano che sta prendendo i piatti che sono sulla porta, ma non è molto credibile. 

In ogni modo non si può riconoscere dall’abito, sono pressappoco tutti uguali. 

Se non c’è lo sposo c’è il notaio, è seduto sull’unica sedia nel fienile, ha redatto il certificato di matrimonio.  

Il frate parla con qualcuno che molti dicono sia Bruegel, conoscendo la sua passione per le feste contadine, ma è un’illazione. 

La gente beve e mangia. 

Rappresenta la rottura di una regola rinascimentale, di mostrare persone nell’atto di farlo. 

Nelle pompose Nozze di Cana del Veronese, del 1562, per esempio, nessuno lo fa.  L’unica cosa che hanno in comune è la figura del cantiniere, in tutte e due le opere sta mescendo ed è in primo piano. 

Se guardiamo alla piuma di pavone sul berretto del ragazzino vediamo che si confonde con il pavimento, perché?  È una confusione voluta? 

Forse perché la coda della piuma, in questo modo, diviene un occhio.  Si percepisce staccata dal berretto. 

L’esoterismo suggerisce che sia quello benevolo di dio che veglia su di loro. 

 In ultimo, il dettaglio che fa di queste nozze contadine un capolavoro assoluto. 

Se si osserva con cura l’opera si coglie una fuga prospettica che parte dai due servitori con la tavola e le ciotole di cibo e finisce sui curiosi che si accalcano sulla porta. 

Ma se guardiamo bene i due servitori c’è qualcosa che non va, c’è un piede di troppo. 

Un errore?  Si poteva correggere. 

Un ripensamento?  Ma poi non si è intervenuti con la correzione. 

Questa è un opera della maturità. 

Quel piede è voluto. 

Lo impone la rappresentazione anche a dispetto del realismo o dell’ingenuità prospettica di questa pittura. 

Quel piede dà una dimensione dinamica alla tela senza che chi la osserva percepisca da subito. 

Solo un genio poteva far questo. 

Occorrerà aspettare il futurismo per ritrovare qualcosa di simile, ma con tutta l’ingenuità e la deliberazione politica del caso. 

***

BLANC MENGIER

(Blanc-manger, whitedish, manjar blanco, bianco mangiare o, forse, dish-doux, dish-dainty – più elegante – mangiare dolce, eccetera…)

Il blancmanger è un dessert (dolce) generalmente composto con il latte, lo zucchero, la panna, è ispessito con la gelatina o la fecola di mais, a cui si può aggiungere anche della farina di mandorle, fatto rapprendere in uno stampo e servito freddo.   

Ci sono stati in passato e ci sono ancora oggi molti dessert che gli assomigliano, dalla crema bavarese al malabi o mahalibya mediorientale, originario della Turchia, oggi molto popolare anche in Israele, ai flan di panna cotta o caramellata, all’haupia delle Hawaii, in cui si usa la farina di cocco, solo per citarne alcuni. 

Ma quale blanc-mangier è quello servito durante queste nozze paesane? 

Non possiamo saperlo con sicurezza, considerate le molte ricette che si diffusero in Europa e la sua origine oscura. 

Possiamo solo dire che apparve dopo che gli arabi avevano introdotto nell’Europa medioevale il riso e le mandorle, ma va anche osservato che non esisteva o era del tutto sconosciuta in Europa una ricetta araba analoga a questo dessert.    

Ci sono cronache che raccontano come nel tredicesimo secolo si preparasse in Danimarca il hwit, espressione arcaica di white, bianco, da cui si deduce che fosse un dessert a base di latte. 

Preparazioni analoghe sono segnalate anche in Inghilterra, in Germania e in Olanda dove esisteva un dessert chiamato calijs – il nome deriva dal latino colare

Una delle ricette più antiche trovate fino ad oggi del blanc-manger sembra risalire alla fine del tredicesimo secolo.  È la descrizione di un piatto tedesco che si fa risalire ad un manoscritto latino del dodicesimo secolo. 

In ogni modo, i whitedish, com’erano chiamati dagli aristocratici, rappresentavano un piatto tipico della tavola dei signori europei di cui esistevano svariate versioni – sia come piatto di mezzo che come dessert – preparato di preferenza, con latte di mandorle, brodo di cappone o di pesce, farina di riso e, spesso, aromatizzato con acqua di rose. 

Le varianti più comuni riguardavano il brodo, che poteva anche essere di quaglie o di pernice, la presenza di spezie diverse, come lo zafferano, la cannella, il sandalo o di erbe che lo tingevano di verde o di giallo pallido. 

Considerato il costo delle spezie nel Medioevo si può dire che erano soprattutto queste a renderlo un dessert di prestigio.       

Nel diciassettesimo secolo questo whitedish, al quale spesso si aggiungeva carne bianca sfilettata, si trasforma in un pudding, senza carne, ma con la panna, le uova e, successivamente, la gelatina. 

Una prima ricetta di blanc-manger la troviamo nel Viandier di Taillevent (1312ca.-1395), sorprendentemente non contiene né pollo, né pesce, si presume che fosse destinato ai bambini o ai convalescenti. 

Nel diciassettesimo secolo un’altra ricetta compare nel Pâtissier français (1653) di François de La Varenne (1615-1678).  Questo blancmanger è a base di brodo di vitello, pollo, latte, mandorle, zucchero e scorza di limone. 

Tuttavia, è con Antonin Carême (1784-1833), il fondatore della cucina moderna, che questa preparazione diventa un vero e proprio dessert, o meglio, un entremets profumato al maraschino, al rum, alla vaniglia o al cedro.   

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