IDENTITA’ E FORME ALIMENTARI (seconda parte)
Premessa – VISUAL CULTURE.
L’espressione di visual culture è stata elaborata per la prima volta da Svetlana Alpers nel 1972 nell’ambito di una ricerca sulla pittura fiamminga.
La Alpers è una storica dell’arte americana, insegna a Berkley ed è stata un’allieva di Ernst Gombrich.
Questa espressione serviva ad indicare la complessità visuale di questa pittura, ma soprattutto a sottolineare la struttura della visione propria dell’epoca in oggetto, il XVII secolo.
In altri termini, la Alpers trasforma l’opera in un testo visivo che circoscrive, nella fattispecie di questi studi, la dimensione culturale delle Fiandre.
La pittura europea antica, infatti, non è comprensibile esclusivamente ripercorrendone la sua specifica evoluzione perché è sempre parte di un contesto più generale, di una mappa entro cui assumono un ruolo le diverse fonti culturali che sono legate alla visione e alla sua rappresentazione.
In pratica le opere d’arte antiche possono essere considerate un sistema testuale regolato da specifici meccanismi della visione.
Colui che guarda è innanzitutto un interprete e la cultura visuale è divenuta un progetto interdisciplinare di analisi critica dei linguaggi visivi, che salda l’approccio storicistico con la prospettiva antropologica mirata ai processi culturali.
In questo modo le immagini non sono più considerate di per sé, ma come un insieme di pratiche che variano non solo con l’uso, ma anche per i significati che ricevano, come avviene oggi se pensiamo alla fotografia o al cinema.
In altri termini si può affermare che la cultura visuale rappresenta lo sviluppo di una nuova centralità epistemologica, dopo quella della scrittura, una centralità della visione, o se si preferisce usare un neologismo, dei regimi scopici.
Il problema di fondo è presto detto.
Fino a che punto un’immagine può essere concepita come un linguaggio?
Soprattutto, nel caso specifico della cultura visuale, in che modo una critica della cultura può riformulare le relazioni tra potere e sapere aggiungendoci quelle tra vedere e conoscere e, dunque, tra vedere, sapere e potere?
Una cultura visuale, in breve, come ogni cultura, è il risultato di pratiche diverse che si collocano a differenti livelli della produzione testuale e della sua interpretazione come del soggetto che le consuma.
L’analisi di una cultura visuale diviene così anche un percorso delle differenze culturali, in particolare di genere e di etnia, così come di molti stereotipi culturali e di molte forme di rappresentazione della marginalità.
Qui, l’articolazione tra osservatore e osservato va intesa come una relazione che non è imposta o determinata dall’esterno, ma è formata attraverso che cosa il soggetto vede e come lo vede o, in altri termini, da come il suo paradigma visuale è costituito.
In questo modo ciò che viene visto e i suoi significati variano in continuazione anche in conseguenza degli schemi interpretativi che su di esso pesano.
Il testo visivo è così situato all’incrocio di più formazioni discorsive e in questa ottica il guardare, il vedere e l’interpretare divengono pratiche culturali che presuppongono sia un ruolo che un’interazione con le proprie competenze e i propri desideri.
Possiamo dire che è in questo modo che le immagini diventano una pratica cultuale.
Tutto questo mostra come un testo con figure si allarga dal “discorso” al “discorsivo” e facilitare l’incontro di pensiero, idea, pratica.
Di più, i linguaggi visivi contribuiscono sempre di più a definire l’area entro cui si costituisco i soggetti e si negoziano la loro identità.
In breve, il paradigma visuale riunisce oggi assunti teorici diversi e diversamente astratti che comprendono il contesto sociale, le formazioni ideologiche, i significati simbolici e psichici propri dei simulacri di una società divenuta dello spettacolo.
Vediamo un caso di specie.
Pieter Bruegel il Vecchio (1525-1569), Nozze paesane o Pranzo di nozze, 1568 circa.
Con Antoine Van Eyck, Hieronymus Bosch, in qualche modo suo padre spirituale, e Pieter Rubens, che possedeva parecchi suoi quadri, Pieter Bruegel il Vecchio è uno dei quattro principali esponenti della pittura fiamminga del Sedicesimo secolo.
La fonte principale delle notizie su questo artista, come di altri di quest’epoca, è rappresentata da un capitolo che Karel Van Mander gli dedica nel suo Schilder Boeck (Libro della pittura), un’opera di studi biografici e storici pubblicata ad Haarlem, in Olanda, nel 1604, circa trent’anni dopo la morte di Bruegel, che molti paragonano all’opera del Vasari, Vite.
Nonostante le ricerche i suoi dati biografici sono incompleti e talvolta anche contraddittori.
Non è stato possibile identificare il luogo preciso della sua nascita che, con molta probabilità, si trova nel Brabante e, forse, è Bree, l’antica Breda.
Sappiamo con certezza che lavora con Pieter Balten nella corporazione dei guantai di Malines intorno al 1550-51 e che diventa libero maestro nella gilda di San Luca dei pittori di Anversa in quello stesso periodo.
Questo dato è quello che consente di situare la sua data di nascita intorno al 1525.
Nel 1553 è a Roma dove pare abbia incontrato e frequentato Giulio Clovio (1498-1578), detto il Michelangelo della miniatura, allievo di Giorgio Vasari (1511-1574).
Dieci anni dopo, nel 1563, sposa a Bruxelles Mayken la figlia di Pieter Coecke Van Aelst (1502-1550), un artista che a suo tempo ebbe un certo successo, ma insignificante e di maniera, da cui avrà due figli: Pieter e Jan.
L’iscrizione funebre nella chiesa di Bruxelles, Notre-Dame de la Chapelle, dove si era sposato, reca come data della sua morte il 1569.
Il pittore, dopo il suo apprendistato presso il suocero si stabilisce ad Anversa, lì, si racconta, è in stretto contatto con un certo Hans Franckert, un amico con il quale amava recarsi ai pranzi di nozze in campagna e confondersi tra gli invitati per osservare le abitudini dei contadini.
Da Anversa, poi, dopo pochi anni si trasferisce a Bruxelles.
C’è da notare che non sono molte le opere di incerta attribuzione poiché Bruegel aveva l’abitudine di firmarle e datarle.
La produzione pittorica principale è ristretta negli ultimi dieci anni della sua vita.
C’è l’inconsueto e splendido I giochi di fanciulli del 1560.
Per il 1565, l’elenco della sua produzione comprende i capolavori quali, Il Cristo e l’adultera, La strage degli innocenti, Le stagioni, subito dopo verranno, Il paese di Cuccagna e il Pranzo di nozze.
Anche se tutto lascia pensare che Bruegel abbia usato il bulino poche volte, le stampe ricavate dai suoi disegni occupano un posto importante nella storia dell’incisione del XVI secolo, da cui la sua fama quando era ancora in vita.
Tutte le sue tavole sono state pubblicate da Hieronymus Cock, il cui laboratorio, Ai quattro venti, si trovava ad Anversa. I soggetti sono vari: paesaggi alpestri e fluviali, parabole prese dai Vangeli, temi letterari, scene folcloristiche e documentarie.
Se non c’è critico che non sia d’accordo nel riconoscere le sue incomparabili qualità artistiche e la sua influenza sull’evoluzione della pittura paesaggistica e della stampa, il messaggio della sua opera è ancora oggetto di vivaci controversie.
Esaminando i quadri e le incisioni molti hanno creduto di trovarvi sottintesi, allusioni e sberleffi contro il potere temporale e religioso.
Altri ci hanno visto degli importanti riferimenti all’alchimia e alla filosofia ermetica, per esempio in Dulle Griet (Mad Meg, che noi conosciamo come La guerra).
Altri ancora hanno sottolineato le preoccupazioni sociali di cui Bruegel si fa interprete in alcuni quadri in cui i soggetti principali sono i contadini e il popolo.
Un popolo oppresso e sfruttato, ingannato da una masnada di soldati di ventura e lanzichenecchi.
A questo proposito c’è qualcuno che afferma come l’opera La strage degli innocenti fosse, nell’intenzione dell’autore, una partecipata condanna della repressione esercitata dagli spagnoli.
Prima di procedere dobbiamo vedere, anche se a grandi linee, la situazione delle Fiandre al tempo di Bruegel.
Il Sedicesimo secolo è un secolo di lotte religiose cruente, di assassini politici, di congiure, di ribellioni popolari, di matrimoni d’interesse tra le case regnanti, di regine sanguinarie, di trattati firmati e traditi che insanguinano in modo particolare il nord e la mitteleuropa, ed hanno uno dei loro epicentri nelle Fiandre, senza parlare delle lotte intestine inglesi e dell’avanzata dei turchi nel Mediterraneo.
Nelle Fiandre, infatti, si concentrano le mire espansionistiche di Filippo II di Spagna (1527-1598), autoproclamatosi protettore della Riforma Cattolica, che marciano di pari passo con le rivendicazioni religiose.
Per comprendere il clima dell’epoca basta un dato, dei quarantadue anni di regno di Filippo II la pace regnò solo per sei mesi.
In particolare, nel 1566, in seguito alla rivolta calvinista Filippo II s’impegnò a stroncare l’eresia imponendo nuove tasse e inviando nei Paesi Bassi il Duca d’Alba che sconfisse Guglielmo I d’Orange e, con il suo Consiglio del sangue, condannò a morte migliaia di uomini e donne, meritandosi il soprannome di macellaio delle Fiandre.
Veniamo, ora, a queste nozze contadine.
L’ambiente è quello di un granaio, non è un granché, ma queste sono le condizioni dell’epoca, ci sono degli invitati seduti su delle panche intorno ad un grande tavolo e una piccola folla di curiosi che si accalcano sulla porta d’ingresso.
Non ci sono neppure, data l’occasione, dei decori importanti.
Come abbiamo detto la vita è grama e la fame corre per le strade.
Non ci sono le campate classiche della pittura manierista, ma travi in legno e balle di fieno.
Sul dossale di una panca sono affissi foglietti indecifrabili, forse dei lunari o delle icone religiose.
Ci sono due fasci di grano in qualche modo sorretti da un rastrello, un emblema del lavoro contadino.
Fra questi e il dossale, dietro la sposa, c’è appeso un pallio, cioè, un mantello di lana verdastro su cui spicca una coroncina colorata.
Si vede meglio in un altra opera sempre sul tema delle nozze dipinte dal figlio di Brueghel detto il Giovane.
Far vedere il quadro.
Alla tavolata sono seduti alla rinfusa uomini, donne e bambini. C’è chi beve a garganella, chi si porta il piatto alla bocca, chi chiede da bere, i visi portano già i primi segni dell’ebbrezza.
Il servizio è svolto da un paio di garzoni uno dei quali ha un mestolo di legno infilato nel cappello.
I piatti sono portati in tavola usando una porta scardinata.
Deve pesare parecchio visto come sono curvati gli assi di sostegno.
Defilati sulla destra di chi guarda ci sono un frate o, forse è un francescano, e un ospite di riguardo, lo sappiamo perché porta la spada. C’è anche un cane, di cui spunta la testa.
Come in ogni festa paesana ci sono dei musici con delle cornamuse, sono fiamminghe, ronzano come sciami d’insetti e rallegrano le orecchie, forse girovaghi di mestiere, lo s’intuisce dai sonagli sul cappello del primo e dal coltello che l’altro porta appeso alla cinta.
Che cosa stanno suonando?
Forse delle pavanes, cioè, delle danze di corte di origine italiana, o delle gaillardes, danze di coppia che seguivano di regola alle pavanes o forse delle suite de branles, cioè, delle ronde antiche di origine celtica che si danzavano in cerchio muovendosi in senso orario.
Com’è uso a volte nella pittura fiamminga in primo piano c’è un bambino che con un dito lecca con molta serietà un piatto. Sul capo ha un cappello rosso piumato, è un cappello più grande di lui, certamente di un adulto.
Veniamo al menu. Intanto notiamo che a fianco del bambino c’è un cantiniere che sta versando del sidro in una caraffa. La tiene scostata dall’anfora, per comodità, ma anche perché il sidro si ossigeni. Che sia sidro lo si deduce dal colore.
In questo tempo i poveri non usavano i bicchieri, di vetro o di metallo, troppo costosi, ma bevevano direttamente dalle caraffe, riservandosi, per devozione, di versare a terra l’ultima goccia.
Sulla porta scardinata ci sono delle ciotole.
Alcune con una broda giallo-arancione, potrebbe essere una polenta di orzo o di miglio colorata con lo zafferano, ma questa droga, allora era costosa, è più probabile che si tratti di mais.
Le ciotole con la broda bianca sono un withedish, un bianco mangiare.
Sul tavolo si scorgono dei pani e dei coltelli, i pani affettati s’inzuppavano nelle brode, per ammorbidirli, le dentature, allora devastate dalle carie.
Veniamo adesso alla grandezza di questo dipinto che si rivela in alcuni dettagli inquietanti.
La sposa l’abbiamo riconosciuta perché ha una coroncina nuziale.
Non sta mangiando, forse medita, secondo la tradizione, oppure si è già pentita.
In ogni caso nessuno bada a lei.
E lo sposo? Non si vede. Perché? È una tela non una fotografia…
Alcuni sostengono che sia l’uomo in primo piano che sta prendendo i piatti che sono sulla porta, ma non è molto credibile.
In ogni modo non si può riconoscere dall’abito, sono pressappoco tutti uguali.
Se non c’è lo sposo c’è il notaio, è seduto sull’unica sedia nel fienile, ha redatto il certificato di matrimonio.
Il frate parla con qualcuno che molti dicono sia Bruegel, conoscendo la sua passione per le feste contadine, ma è un’illazione.
La gente beve e mangia.
Rappresenta la rottura di una regola rinascimentale, di mostrare persone nell’atto di farlo.
Nelle pompose Nozze di Cana del Veronese, del 1562, per esempio, nessuno lo fa. L’unica cosa che hanno in comune è la figura del cantiniere, in tutte e due le opere sta mescendo ed è in primo piano.
Se guardiamo alla piuma di pavone sul berretto del ragazzino vediamo che si confonde con il pavimento, perché? È una confusione voluta?
Forse perché la coda della piuma, in questo modo, diviene un occhio. Si percepisce staccata dal berretto.
L’esoterismo suggerisce che sia quello benevolo di dio che veglia su di loro.
In ultimo, il dettaglio che fa di queste nozze contadine un capolavoro assoluto.
Se si osserva con cura l’opera si coglie una fuga prospettica che parte dai due servitori con la tavola e le ciotole di cibo e finisce sui curiosi che si accalcano sulla porta.
Ma se guardiamo bene i due servitori c’è qualcosa che non va, c’è un piede di troppo.
Un errore? Si poteva correggere.
Un ripensamento? Ma poi non si è intervenuti con la correzione.
Questa è un opera della maturità.
Quel piede è voluto.
Lo impone la rappresentazione anche a dispetto del realismo o dell’ingenuità prospettica di questa pittura.
Quel piede dà una dimensione dinamica alla tela senza che chi la osserva percepisca da subito.
Solo un genio poteva far questo.
Occorrerà aspettare il futurismo per ritrovare qualcosa di simile, ma con tutta l’ingenuità e la deliberazione politica del caso.
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BLANC MENGIER
(Blanc-manger, whitedish, manjar blanco, bianco mangiare o, forse, dish-doux, dish-dainty – più elegante – mangiare dolce, eccetera…)
Il blanc–manger è un dessert (dolce) generalmente composto con il latte, lo zucchero, la panna, è ispessito con la gelatina o la fecola di mais, a cui si può aggiungere anche della farina di mandorle, fatto rapprendere in uno stampo e servito freddo.
Ci sono stati in passato e ci sono ancora oggi molti dessert che gli assomigliano, dalla crema bavarese al malabi o mahalibya mediorientale, originario della Turchia, oggi molto popolare anche in Israele, ai flan di panna cotta o caramellata, all’haupia delle Hawaii, in cui si usa la farina di cocco, solo per citarne alcuni.
Ma quale blanc-mangier è quello servito durante queste nozze paesane?
Non possiamo saperlo con sicurezza, considerate le molte ricette che si diffusero in Europa e la sua origine oscura.
Possiamo solo dire che apparve dopo che gli arabi avevano introdotto nell’Europa medioevale il riso e le mandorle, ma va anche osservato che non esisteva o era del tutto sconosciuta in Europa una ricetta araba analoga a questo dessert.
Ci sono cronache che raccontano come nel tredicesimo secolo si preparasse in Danimarca il hwit, espressione arcaica di white, bianco, da cui si deduce che fosse un dessert a base di latte.
Preparazioni analoghe sono segnalate anche in Inghilterra, in Germania e in Olanda dove esisteva un dessert chiamato calijs – il nome deriva dal latino colare.
Una delle ricette più antiche trovate fino ad oggi del blanc-manger sembra risalire alla fine del tredicesimo secolo. È la descrizione di un piatto tedesco che si fa risalire ad un manoscritto latino del dodicesimo secolo.
In ogni modo, i whitedish, com’erano chiamati dagli aristocratici, rappresentavano un piatto tipico della tavola dei signori europei di cui esistevano svariate versioni – sia come piatto di mezzo che come dessert – preparato di preferenza, con latte di mandorle, brodo di cappone o di pesce, farina di riso e, spesso, aromatizzato con acqua di rose.
Le varianti più comuni riguardavano il brodo, che poteva anche essere di quaglie o di pernice, la presenza di spezie diverse, come lo zafferano, la cannella, il sandalo o di erbe che lo tingevano di verde o di giallo pallido.
Considerato il costo delle spezie nel Medioevo si può dire che erano soprattutto queste a renderlo un dessert di prestigio.
Nel diciassettesimo secolo questo whitedish, al quale spesso si aggiungeva carne bianca sfilettata, si trasforma in un pudding, senza carne, ma con la panna, le uova e, successivamente, la gelatina.
Una prima ricetta di blanc-manger la troviamo nel Viandier di Taillevent (1312ca.-1395), sorprendentemente non contiene né pollo, né pesce, si presume che fosse destinato ai bambini o ai convalescenti.
Nel diciassettesimo secolo un’altra ricetta compare nel Pâtissier français (1653) di François de La Varenne (1615-1678). Questo blanc–manger è a base di brodo di vitello, pollo, latte, mandorle, zucchero e scorza di limone.
Tuttavia, è con Antonin Carême (1784-1833), il fondatore della cucina moderna, che questa preparazione diventa un vero e proprio dessert, o meglio, un entremets profumato al maraschino, al rum, alla vaniglia o al cedro.
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