LA COMUNICAZIONE NELLA SOCIETA’ MULTIETNICA – 3a lezione

NOTA: A questa lezione segue la prima esercitazione

A che ora del giorno siamo nell’incontro
con l’Altro da noi? 

Da Roots a Routes

Abbiamo definito la cultura come una rete di significati, come dei modelli di pensiero (Boas) in continua mutazione, come una dimensione morale e simbolica delle rappresentazioni collettive. 

La cultura nella pratica ha molti aspetti.  C’è la cultura radicata dei luoghi urbanizzati, i cui “prodotti” sono in genere accumulati nelle istituzioni museali. 

C’è la cultura di percorsi che si condensa nei neo-siti delle performance sociali, siti tra i quali emergono in modo drammatico i campi profughi. 

Drammatico perchè le conseguenze reali appariranno solo nel lungo periodo, mentre adesso appaiono frammentate, fraintese, come luoghi di deposito, come ostelli di speranza. 

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A proposito di déracinement.

In una prospettiva antropologica possiamo notare come dalla psico-analisi alla teologia della tradizione cattolica, dai Dogon del Mali agli aborigeni australiani, tutti individuano nella casa un doppione microcosmico del corpo umano.

Non è per caso, che i bambini vedono nelle finestre gli occhi della casa, nella porta la bocca o che molti adulti definiscano le cantine come le sue viscere. 

La casa in numerose culture è più di un luogo dove vivere, ma è un vero e proprio organismo che vive. 

Essa sottolinea la personalità di chi l’abita, perchè non è solo il luogo fisico costruito e abitato, esprime anche una sua rappresentazione simbolica o, meglio, una matrice di soggettività.

L’azione simbolica esercitata dalla casa sulla vita psichica degli individui si riflette anche su quella sociale, diventando un paradigma che riunisce, e in parte sovrappone la sfera intima, quella interpersonale e quella socio-politica dei suoi abitanti.

Questo spiega perchè quando si perde la “casa” si perdono o si frammentano anche le sue funzioni organizzatrici e contenitrici, portando alla frantumazione della relazione individuale-personale, familiare-coniugale, socio-economica e culturale-politica.

Molti mediatori culturali ritengono che è questa destrutturazione che nei rifugiati porta al cosiddetto disorientamento nostalgico.

Un’altra funzione importante della casa è quella di fornire una base coerente alla storia delle famiglie. 

Una storia che non ha un valore obiettivo ma che ordina e rende coerente tutti i momenti che gli individui hanno vissuto in essa, da quelli peggiori a quelli migliori.

In questo modo essi sono resi intelligibili e comprensibili e danno, agli attori un senso di continuità, di prevedibilità e di coerenza.

Quando le persone  perdono la loro casa e acquistano la qualifica di rifugiati s’infrange questa continuità, questa prevedibilità e questa coerenza, e  sono  precisamente queste dimensioni che l’assistenza ai rifugiati dovrebbe favorire.  

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Città verso metropoli.  Nell’ottica del nostro workshop la città è l’alcova dei sogni.  La metropoli, di residenze e di viaggi. 

Qualche esempio:

– Nadja di André Breton.  

– Il flâneur di Walter Benjamin.

– Il mito di Arthur Cravan, viaggiatore, poeta e boxeur.  

– La Sape. 

La Sape, abbreviazione per: Société des Ambianceurs et des Personnes Élégantes (ovvero, La società delle persone di belle maniere ed eleganti), è un movimento sociale e culturale nato a Brazzaville nella Repubblica del Congo.

 L’aderente a una Sape è chiamato sapeur. Il movimento ricopia, attualizzandola, l’eleganza nello stile e nelle maniere dei dandy colonialisti e ha dato vita a una vera e propria filosofia della moda chiamata Sapologie.

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La cultura fatta con i simboli dell’altrove. 

La feticizzazione delle culture. 

Che ci faceva sullo schermo del mio televisore un giovane arabo a piazza Tahrir al Cairo con una t-shirt di Rambo?

Perchè gli studenti universitari di Beirut indossano felpe con la scritta UCLA (University of California Los Angeles)? 

Cosa voleva trasmettermi la studentessa ucraina durante l’esame di sociologia della comunicazione qui allo IED con la scritta sulla felpa: Animal Liberation Front – Until Every Cage is Empty (fino a quando le gabbie non saranno vuote)?

É abbastanza frequente sentir parlare di «creolizzazione», «meticciamento» e «ibridazione».   

Si tratta di termini diversi che rinviano, sostanzialmente, a un concetto comune.  

La questione è  che nel corso del tempo le culture evo!vano e vengano in contatto fra loro, questo costituisce una condizione rilevante per la loro contaminazione.  

A seguito di questo le culture tendono ad ibridarsi e ad assumere nuove configurazioni.

Per creolizzazione culturale (o ibridazione) s’intende questo processo di contaminazione di aspetti e forme di vita provenienti da culture diverse, a volte anche molto distanti fra loro.  

Da questo punto di vista nonesiste una cultura pura e vergine, incontaminata e protetta da un isolamento totale.  

Per la psicologia della cultura la creolizzazione, fenomeno tipicamente umano,si fonda più che sul contagio e l’emulazione, sulla capacitàd’imitazione degli esseri umani, vale a dire sulla curiosità, sul desiderio di esplorazione, sulla capacità di sperimentazione e d’innovazione delle persone.  

Sull’esigenza di provate percorsi diversi e alternativi.  

Per questo occorre non sottovalutare il valore dell’ibridazione culturale e del meticciamento, poiché, di fatto, siamo tutti culturalmente contaminati e ibridi.

L’altra faccia della medaglia.

É rappresentata dalle forme dell’instabilità nella produzione della soggettività. 

Le migrazioni di massa, associate al rapido fluire delle immagini sulla rete, contribuiscono alla deterritorializzazione dello spettatore e alla costruzione di sferepubblichediasporiche come matrici di nuovi e notevoli mutamenti sociali. (Arjun Appadurai).   

Oggi i lavoratori turchi in Germania guardano film turchi nei loro monolocali immersi nella nebbia del quartiere di Kreuzberg a Berlino.  

Tra qualche mese milioni di emigrati dal Medio Oriente e dal Sud-est asiatico seguiranno le Olimpiadi che si terranno a Tokio in Giappone dagli schermi delle nostre televisioni, con i commenti dei nostri presentatori e in una lingua diversa dalla loro. 

Un ricordo personale.  L’ultima volta che sono stato a New York il tassista indiano che mi stava portando dalla 42esima al Metropolitan Museum, mentre guidava, ascoltava con uno smartphone cinese le prediche del suo Imam pachistano.    

Dalla “Dichiarazione dell’UNESCO di Messico City “(1982): La diversità culturale sono patrimonio dell’umanità. 

Dalla “Dichiarazione dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani” (2007): La diversità culturale come radice del pluralismo culturale e come wellspring (sorgente) di creatività. 

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La prospettiva dei Cultural Studies.  La nuova geopolitica. 

Globalizzazione, colonizzazione, post-modernità:

Paradigmi mescolati, sovvertiti e resi dinamici da un immaginario culturale strutturato su un traffico transnazionale di narrazioni e “visioni” su cui si esercita un potere digitale monopolizzato.   

I moderni sistemi di significati socialmente organizzati, le nuove costellazioni di credenze e di pratiche rituali.  La lingua si manifesta nella realtà unicamente come molteplicità (Humboldt). 

I diritti assiologici (i diritti sociali della persona che non possono essere messi in dubbio dalla mera realtà dei fatti, anche se minacciati dalle ideologie dalla storia, dalla politica, delle religioni).     

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I Cultural Studies sono un particolare indirizzo di studi sociali che hanno origine in Gran Bretagna come ampliamento del settore della critica letteraria verso i materiali della cultura popolare di massa.  

La loro data di nascita viene fissata all’uscita dei lavori di Raymond Williams e Richard Hoggart.

The Uses of Literacy di Hoggart del 1957 e Culture and society del 1958 di Raymond Williams sono considerati i due testi fondativi di quest’indirizzo di studi.

I Cultural Studies si consolidano successivamente come corrente definita nell’area culturale britannica intorno al Centre Contemporary Culture Studies (CCCS) dell’Università di Birmingham, fondato dallo stesso Hoggart nel 1968.  

Lo scopo primario del centro era lo studio dei cambiamenti nella cultura della classe operaia inglese dal dopoguerra in poi e in particolare dei mutamenti nell’orientamento della gioventù della workingclass.  

Sia Hoggart che Williams provenivano dall’insegnamento scolastico per adulti.

L’attività del centro di Birminghan si estende negli anni successivi fino a comprendere le tematiche del razzismo, del femminismo e dell’etnicità.  

Sul piano metodologico i Cultural Studies si distinguono per un approccio quasi etnografico ai contesti indagati, attenti alle pratiche concrete degli attori sociali.  

Sul piano teoretico è da segnalare una programmatica tendenza a non rinchiudersi in confini ideologici definiti. Nei lavori prodotti dal gruppo è possibile rintracciare un costruttivo e incessante dialogo con le più importanti correnti del pensiero europeo continentale : Lukàcs, Antonio Gramsci, Walter Benjamin, Althusser, per citare qualche nome. ___________________________________________________________

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La de-costruzione: Frontiere, Flussi, Contaminazioni, Appartenenze, Separazioni, Interdizioni, Interferenze.  Sono forme di de-costruzione del territorio. 

A questo si oppongono le forme dell’ospitalità: i nuovi nidi dell’esserci.    

I confini, ovvero, terre di frontiera: luoghi di contatto (proibiti, autorizzati, regolamentati, trasgressivi) o di rifiuto.  In breve: E’ solo nella volontà di chi lo costruisce che sta il limite del potere di un recinto. (Piero Zanini)

I confini come solchi. 

Vale a dire solchi arati, solchi sacri, oppure “luoghi di malintesi” (Wladimic Jankélévitch). 

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CONFINI

I dizionari definiscono il confine come una linea, naturale o artificiale, che delimita l’estensione di un territorio, di una proprietà o la sovranità di uno Stato. 

Porre o disegnare un confine, nel suo significato metaforico, è un modo per confrontarsi, misurarsi, pretendere, riaffermare dei significati.   

L’obiettivo di chi si rinchiude in un confine è soprattutto quello di possedere uno spazio autonomo dove stabilire le proprie regole e, allo stesso tempo, sottolineare un’autonomia che deve essere visibile dall’esterno. 

Un’autonomia che deve apparire come una diversità riconoscibile e riconosciuta.   

In questo senso il confine mostra sempre quello che è il suo carattere fondamentale:

Segnalare il luogo di una differenza, reale, immaginaria o presunta. 

Ma un confine, in termini gnoseologici, è molto di più. 

Rappresenta qualcosa che appartiene all’immaginario e ha poteri di natura impositiva. 

Tenerlo presente aiuta a comprenderne l’importanza che esso ha sia nella cultura, che nella geopolitica, nella storia, come nelle cronache della contemporaneità. 

In termini fenomenologici il confine è qualcosa di radicato alla terra e al territorio, lo si vede bene nel suo etimo, soprattutto nelle lingue indoeuropee. 

In queste lingue il confine rimanda al solco che il vomere, trascinato dall’aratro, traccia nel terreno. 

L’etimologia suggerisce che la radice “ar“, di aratro, indica il muoversi verso, il penetrare, lo spingersi e – al limite – il colpire.

Sullo stesso piano l’etimo di vomere, in sanscrito, rinvia al fendere,allo spezzare, al recidere.  

Sul piano topologico – vale a dire dello studio dei luoghi – il  fine di un “con-fine” è quello di sottrarre dello spazio al nulla, appropriarsi di uno spazio che appartiene all’infinito indistinto

In sostanza, il confine, attribuendo una dimensione geometrica e culturale a uno spazio che non ha una dimensione, lo fa esistere, gli da una consistenza, un’identità e un nome.  

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Con l’espressione di frontiera, invece, s’intende la linea di confine di uno Stato o anche la zona di confine, vale a dire, una stretta striscia di territorio che sta a ridosso del confine. 

Una striscia di territorio ufficialmente delimitata, riconosciuta, e dotata, in molti casi, di opportuni sistemi difensivi e offensivi.  

In senso figurato la frontiera è la linea che separa in modo inequivocabile ambienti, situazioni o concezioni differenti, spesso intesa come un limite che può essere spostato e modificato, soprattutto in senso progressivo.

C’è nella storia delle nazioni una frontiera particolare è quella americana

Frederick Jackson Turner (1861-1932) è stato uno storico americano famoso soprattutto per il libro The Significance of the Frontier in American History (Il significato della frontiera nella storia americana), nel quale sviluppo una teoria della frontiera. 

Secondo Turner la frontiera è alla base della storia americana, intesa come storia della colonizzazione dell’Ovest.

Il termine frontiera in quegli anni aveva il significato di regione scarsamente e recentemente popolata, a diretto contatto con il wilderness, il territorio non colonizzato o più in generale, l’ignoto, nella narrazione sulla conquista dell’Ovest il 1763 è l’anno d’inizio di questa avventura.   

Lo spirito di frontiera significava essenzialmente individualismo, iniziativa, rischi, forme rozze di

democrazia diretta.  

É un punto importante perchè nelle nuove terre poterono svilupparsi, spesso in modo originale, le istituzioni, radicarsi le tradizioni e le esperienze religiose, libere da impacci organizzativi e dogmatici e funzionali alle condizioni dell’espansione colonizzatrice.

(Il mito del revolver alla cintura…)

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Torniamo alla cultura latina la traccia del vomere rappresenta il solco “fondativo” della città e dunque dello spazio cittadino.                  

In questo senso è il vomere che disegna la linea materiale e culturale che separa la città dalla campagna, l’interno dall’esterno.  

Per stare agli etimi, le parole solco e alzaia richiamano il “trascinare guidato”.

Non è difficile capire come il confine sia stato per gli uomini e per secoli una traccia magica, un segno sacro. 

Magica perché il luogo, il territorio che racchiudeva, anche se era stata scelto dagli uomini, si supponeva rivelato dagli dei

Non per caso che colui che tracciava o disegnava il solco era quasi sempre uno sciamano o un sacerdote

Una volta che gli dei avevano rivelato il sito ( illuogo)  l’aratro lo circoscriveva , manovrandolo in modo da far cadere la terra smossa all’interno del recinto. 

Nei punti, poi, in cui dovevano essere aperte delle porte (per esempio, secondo la cultura etrusca, in numero di tre, ma ogni religione ha sempre avuto il suo numero e un’idea su dove aprirle) il sacerdote/fondatore doveva sollevare l’aratro e trasportarlo per tutta la larghezza dell’apertura in modo da non offendere lo spazio di passaggio.    

Nel mondo latino questo sacerdote era il Rex, colui che ha il potere di tracciare un confine mediante l’uso della regula nel suo duplice significato di linea che delimita un territorio e di norma da seguire. 

In origine la regula era un assicella di legno che serviva a tracciare le righe. 

Tracciare un confine equivaleva a disegnare sulla terra una rappresentazione dell’ordine cosmico

Per i Romani gli assi di un sito erano il cardo (che significa polo), e il decumano, l’asse che segue il corso del sole. 

Insieme servivano a tracciare l’orientamento urbano della città romana. 

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In dettaglio.

Il cardine (che deriva dal latino cardo) era una delle vie che correva nelle città romane  in direzione nordsud.    

Queste vie erano solitamente basate su uno schema urbanistico ortogonale, ossia suddivise in isolati quadrangolari uniformi. 

Uno schema molto popolare soprattutto per ‘urbanistica degli accampamenti militari e degli insediamenti coloniali.   

Uno degli assi principali della centuriazione e più in generale dell’urbanistica cittadina era  chiamato il cardo maximus

Si incrociava ad angolo retto con il decumanus maximus, ovvero il principale asse estovest.   

Quanto alla centuriazione (centuriatio) era il sistema con cui i romani organizzavano un territorio agricolo, basato sullo schema che usavano negli accampamenti militari e nella fondazione delle nuove città. 

Si caratterizzava per la regolare disposizione, secondo un reticolo ortogonale, di strade, canali e appezzamenti agricoli, destinati in genere all’assegnazione a coloni o a legionari a riposo.

Di regola, all’incrocio di queste due direttrici principali si trovava quasi sempre il forum, ossia la piazza principale della città.

Il cardo maximus, inoltre, era di particolare importanza perché nell’urbanistica romana collegava (come strada) due delle quattro porte principali dell’insediamento. 

Solitamente, una di queste porte era maggiormente decorata e facilmente riconoscibile perchè indicava la strada consolare che portava a Roma. 

Queste due direttrici principali erano tracciate anche nell’ambito degli accampamenti romani,

all’incrocio dei quali non vi era il forum, ma il cosiddetto praetorium, ossia la tenda del comandante.

Ricordiamo che alcuni accampamenti, che erano stati costruiti in posizioni strategiche, divennero con il tempo civitas.  É il caso di alcune città italiane, come Torino, Pavia, Aosta, oppure europee come Vienna e York, nell’Inghilterra Nord-orientale. 

In chiave esoterica ricordiamo che il pernio era il centro attorno al quale ruotava o, meglio, roteava l’antica cosmologia dell’Univers. 

Da pernio deriva il Cardine, l’asse polare o meglio, l’Asse del Mondo che congiungeva il cielo e la terra, l’alto e il basso. 

Cardo, invece, discende dalla radice indoeuropea kerd (krd), dalla quale deriva il vocabolo greco di kardia e quello latino di corcordis, il cuore, centro della vita, ritenuto la sede della mente e dell’intelligenza, dell’amore e dell’anima, il luogo dell’incontro tra l’umano e il divino.  

Nell’espressione decumano,la via che correva da est a ovest, la radice della parola decumanus (Decumus) rimanda al sanscrito Dac, che significa venerare una Divinità. 

Dalla radice sanscrita Dac deriva Daca che significa “stato”, “condizione”, “età dello spirito”, “epoca della vita”. 

Mentre dal termine Dec-umus si ricava il significato di consacrazione, di fecondazione della terra.


questo è il motivo perché nell’antica Roma, come in quasi tutta l’antichità, il numero dieci (Deka in greco) era un attributo della divinità e significava “potenza”, “splendore”, “gloria” e “onore”. 

È importante il fatto che decimusdecus, da cui decussis (una moneta romana pari a dieci assi – l’asse era una moneta in bronzo), nella lingua latina identifica la figura della croce con la quale si indicava il numero dieci sulla moneta.  

Successivamente dall’incisione a croce sulla moneta deriva il “segno della croce”, che il sacerdote eseguiva per esorcizzare lo spazio sacro. 

Ci sono anche altri collegamenti. 

La X latina ricorda la ventiduesima lettera dell’alfabeto greco, Khi, e il Tau, l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, che in antico si scriveva con una X.  

Notiamo infine che anche in Cina il segno grafico del numero 10 è la X.

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Segue.

Com’è facile intuire dagli etimi il solco ha una dimensione e un valore morale, distingue ciò che è retto da ciò che è storto.  

In altri termini incidere la terra con  il vomere (che come abbiamo visto rimanda al verbo spezzare) è la celebrazione di un sacrificio.  

La stessa città di Roma nasce sul sacrificio, per mano di Romolo, di Remo, ucciso da questi perchè aveva osato scavalcare per dileggio, come riporta Tito Livo nella sua storia di Roma, il confine appena tracciato.

Una leggenda che contiene una lezione. 

A partire dall’antichità per arrivare fino ai giorni nostri, farsi gioco dei confini è sempre stato e è ancora pericoloso.      

Dentro il terreno scavato dal solco spesso c’erano dei sassi o delle pietre

Anch’esse finivano parte di un rituale, venivano tolti e accatastati sul bordo per diventare un segno tangibile del confine, ciò che rendeva il margine visibile. 

Da qui l’origine dei muri a secco, muri composti da sassi e pietre sovrapposti che cingono e difendono lo spazio liberato

Queste pietre, che a causa della loro funzione acquistano spesso poteri particolari, oltre a costituire un riparo, diventavano in molte culture un rimedio all’incertezza e al non delineato.  Il luogo di un’identità.  

Poi il muro, grazie alla ferocia, all’astuzia e all’abilità degli uomini, divenne limes, vallo, muraglia, cheresiste ill tempo di un assalto e può durare secoli.  

Più questo muro si rafforza e diviene imponente più appare sicuro.  Più è sicuro e più attira contadini, mercanti, viaggiatori, nomadi, gente dai luoghi diversi e pericolosi.   

Con il tempo attorno a questi muri si formarono delle comunità artigianali che vivevano e commerciano ai piedi dal centro abitato dai signori. 

Comunità che si muteranno in borghi, dai quali, secoli dopo, nascerà un nuovo tipo di “homo faber”, il borghese.   

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Frontiere, confini e limiti sono dunque delle linee che – tanto nel reale quanto nell’immaginariotracciano, configurano, delimitano degli spazi particolari nei quali le traiettorie dell’umano, del sacro e del senso si intrecciano nei modi più disparati. 

La frontiera, da un punto di vista formale, è la linea geografica di passaggio fra due spazi connotati differentemente. 

È una linea che separa e ratifica una contrapposizione.

L’idea di confine comprende una frontiera che sottolinea il fatto che i confini hanno lo scopo di sottolineare delle differenze

Il confine, di fatto, esprime un concettodiappartenenza più sfuocato rispetto a quella di frontiera.

Il limite, infine, definisce una linea estrema e contiene in sé, più che il concetto di frontiera o di confine, l’idea dell’invalicabilità e, al tempo stesso, il desiderio del suo superamento. 

È un concetto espresso con molta efficacia da Giacomo Leopardi nella poesia L’infinito.  Il sogno segreto di ogni atleta.

Il limite inoltre serve, sul piano dei simbolismi alla rappresentazione di topografie immaginarie.

Più in generale possiamo dire che le linee che disegnano una frontiera, un confine o un limite, siano esse reali o immaginarie, geografiche o storiche, politiche o culturali, individuano una serie di spazi che hanno il compito di condizionare la rappresentazione del mondo e dell’uomo.


C’è poi un atteggiamento con il quale si guardano queste linee, è l’atteggiamento di chi valuta la possibilità o meno del loro superamento, come se fossero degli ostacoli

Un atteggiamento che caratterizza, da una parte, i migranti e i nomadi, dall’altra, i regimi autoritari.

Sono ostacoli con due fronti, perché il loro punto di vista cambia a seconda della parte da cui si osservano. 

C’è quello di chi sta dentro e quello di chi sta fuori, culturalmente esemplificato dalla relazione dominatore v/s dominato

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Parte seconda. 

Da qualche tempo si sta ripensando il rapporto tra cultura, forme di scrittura e spazio. 

È un nuovo capitolo di quella che si chiama letteratura comparata, allargata alle scienze umane, a quelle sociali e all’immaginario. 

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La letteratura comparata, anche detta comparatistica (in inglese comparative literature) è la disciplina che studia i rapporti tra le letterature di lingue diverse. 

È una sorta di interrogazione culturale dei testi nell’ambito della quale, l’incontro con l’Altro e dei suoi percorsi culturali, costituisce il principale motivo di analisi.    

Formalmente come disciplina nasce nell’Ottocento delle lingue, delle nazioni, del Romanticismo e delle identità nazionali, ma solo in questi ultimi due decenni ha avuto degli sviluppi importanti.  _______________________________________________________________________________

In particolare, da una prospettiva geocritica o più semplicemente geopolitica, questa letteratura comparata è un’opportunità per riflettere sullo sguardo dell’Altro e su come giudica gli ostacoli e le forme di accoglienza con i quali viene in contatto.    

Abbiamo ricordato il tema della letteratura comparata perché ha dato vita, da una parte, ai border studies, con i loro capitoli dedicati ai processi egemonici, razziali, di diaspora, di identità e di contaminazione. 

Dall’altra, a delle nuove ipotesi imago-logiche tese a considerare le images (in senso antropologico) non più come stereotipi culturali, ma principi descrittivi che possono dar vita a nuove ipotesi geo-culturali

In breve, frontiera, confine e limite sono i nuovi soggetti di un mondo, che, come dice Lotman ha assunto impensabili e inediti tratti spaziali.

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Lotman ⟨lòtmën⟩, Jurij Michajlovič. – Teorico russo della letteratura (1922 – 1993). Titolare della cattedra di storia della letteratura russa presso l’università di Tartu in Estonia, è da considerarsi uno dei maggiori rappresentanti della scuola semiotica dell’URSS.  Definì il concetto di semiosfera in un saggio del 1985 intitolato appunto La semiosfera, che è il suo studio più noto

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Tratti spaziali che negli spazi di contatto possono mettere in luce relazioni inattese tra parole e immagini, forme e rappresentazioni.  Modelli di politica e life-styles.      

Per riassumere, l’assenza di un paradigma unico o di un canone, nella produzione letteraria e artistica, dentro questi spazi di confine (che sono anche limiti ideologici),  può oggi tradursi nella costruzioni d’immaginari fondati sul concetto di soglia, come esordio di un processo di osmosi tra linguaggi, luoghi, tradizioni e saperi. 

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Cum-finis, alla lettera confine, è ciò che separa e al contempo ciò che unisce, è ciò che è in comune con l’altro, qualunque cosa l’altro o l’oltre significhi.

L’ambiguità del concetto di confine è ciò che sta alla base della sua tragicità socio-politica. 

Un’ambiguità che dipende dalla sua duplice natura di artificio e di convenzione, che dovrebbe far riflettere sull’utilità dei confini, sia logici che materiali. 

Blaise Pascal, riflettendo su questa ambiguità, aveva notato che ciò che era vero al di qua dei Pirenei spesso non era più vero al di là. 

La definizione politica di confine che potremmo definire classica, emerge tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento dalla dottrina generale dello Stato e dalla geografia politica, soprattutto a cura di autori tedeschi. 

Scrive Ratzel nel 1897:

“Nella sostanza ogni Stato è una porzione di umanità…questo fa si che l’uomo non è pensabile senza la terra…  e tanto meno è pensabile la più insigne opera dell’uomo sul nostro pianeta, ovvero la forma di Stato”. 

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Friedrich Ratzel (1844-1904) è stato un etnologo e un geografo tedesco tra i più autorevoli. 

È il fondatore della geografia antropica, detta anche antropogeografia. 

È stato colui che ha coniato l’espressione di  spazio vitale (Lebensraum), espressione che ha poi avuto una larga diffusione nell’ambito demografico e soprattutto politico.  

I suoi studi nel campo dell’etnologia diedero vita alla così detta scuola storicoculturale di antropologia.  

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Sono gli anni in cui l’unitarietà e l’indivisibilità del territorio della nazione, insieme alla formale unità di popolo e di potere, rappresentavano gli elementi essenziali che concorrevano alla definizione della forma di Stato

In quest’ottica la definizione di confine è una conseguenza in qualche modo scontata dell’esistenza degli Stati Nazionali

In quest’ottica il confine è quel concetto astratto che consente di definire il processo di espansione di una popolazione o, il limite, dell’ambito territoriale di validità del potere di uno Stato.  

George Curzon, che fu ministro degli esteri inglese e viceré in India, negli anni precedenti la prima guerra mondiale (1908) affermava che solo “l’integrità dei confini e la vera condizione di esistenza dello Stato”.

E aggiungeva:  “I confini sono la lama di rasoio su cui sono sospese le questioni moderne della guerra e della pace”. 

In queste considerazioni sulla definizione classica di confine c’è la cornice dentro cui si è consumata la storia delle migrazioni in Europa tra l’Ottocento e il Novecento. 

In altri termini, la tenuta dei confini e la netta distinzione tra lo spazio interno e lo spazio esterno è stata la condizione che ha consentito il formarsi, all’inizio del secolo scorso, di importanti e in qualche modo definiti sistemi migratori. 

O meglio, ha permesso il nascere di una sottomessa e disperata – dal punto di vista delle culture stanziali e nazionali – geografia delle migrazioni internazionali,come fu il caso di quella italiana verso gli Stati Uniti d’America. 

A questo proposito, va notato come, a dispetto delle storytelling di comodo, in questi ultimi anni sono molti gli storici che hanno scritto come l’apparente e idilliaca rappresentazione delle migrazioni del secolo scorso sia servita sia a stigmatizzare quelle odierne e sia a mettere in ombra la immane tragedia che queste hanno rappresentato per centinaia di migliaia di persone. 

Va anche aggiunto che da quando si sono diffusi – soprattutto nei paesi di lingua inglese – i cosiddetti postcolonial studies  – tra i loro meriti – va messo quello di aver contribuito a mettere in crisi le vecchie definizioni di confine

Ha osservato a questo proposito Etienne Balibar

L’Europa è il punto da cui sono partite e sono state tracciate, dappertutto nel mondo, le linee di confine, perché l’Europa è la terra di nascita del concetto stesso di confine.

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Étienne Balibar è un filosofo francese, allievo di Louis Althusser, apprezzato per aver contribuito a sviluppare una nuova interpretazione del pensiero marxiano con specifiche riflessioni sui concetti di razza, cultura e identità.  Insegna a Nanterre. 

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In questo senso il problema dei confini europei è sempre coinciso con quello dell’organizzazione politica dello spazio mondiale e delle sue frontiere.    

Questa ossessione europea, dice Balibar, consente di sottolineare come la proliferazione dei confini costituisce l’altra faccia della globalizzazione.

In altri termini, la globalizzazione ha inaugurato la crisi di quella connessione di Stato e Territorio che costituiva il presupposto classico della definizione di confine.  

Come dicono con ironia gli inglesi: Space is out of joint, lo spazio è sballato.

Sballando ha anche banalizzato la classica definizione geopolitica di confine, un concetto che oggi ha valenze culturali, simboliche, cognitive, spesso più forti di quelle politiche.  

Molti esperti sostengono che i movimenti migratori contemporanei rivelano delle tensioni e esprimono dei conflitti che non sono altro che la naturale conseguenza di questo stato di cose. 

Sono la conseguenza di questa incontrollabile scomposizione e ricomposizione culturale, geopolitica, economica che stiamo vivendo.    

Da questi nuovi scenari se ne deduce – tra l’altro – che i processi migratori di oggi non sono assolutamente paragonabili a quelli del secolo scorso. 

In sostanza le migrazioni contemporanee hanno molti aspetti inediti. 

Oltre all’aspetto economico, sono caratterizzate da una forte accelerazione dei flussi e da una trasformazione della loro composizione –basti pensare all’aumento di donne, bambini e anziani – e, soprattutto, queste migrazioni sono rese complesse da una crescente imprevedibilità delle loro direzioni.      

A partire dall’ultima decade dell’Ottocento e fino alla seconda guerra mondiale i flussi migratori erano facilmente comprensibili.    

Era prevedibile sia la geografia dei loro spostamenti che l’identità delle popolazioni coinvolte, come era facile individuarne le direzioni, le aree di partenza e le destinazioni. 

Oggi, al contrario, i flussi sono imprevedibili, si muovono in ogni direzione, vanno dappertutto e ricorrendo al gergo anglosassone si può dire che il modello del fenomeno migratorio moderno assomigliano ad n piatto di spaghetti,    

Un tempo il modello interpretativo era quello “idraulico”, i fattori di attrazione e di spinta (push and pull) dei processi migratori erano evidenti e avevano fondamenti in qualche modo oggettivi o se si preferisce razionali, dal punto di vista dei bisogni

In sostanza, nell’ambito dei processi migratori i comportamenti soggettivi dei migranti erano riconducibili a delle motivazioni oggettive. 

Oggi, il margine d’imprevedibilità dei comportamenti è di fatto incontrollabile è genera una turbolenza che non si riesce a contenere e che, a sua volta, ne genera altre.      

Il fenomeno migratorio, poi, ha oggi un andamento crescente e motivazioni mutevoli, tanto che molti analisti sostengono che siamo ancora nella prima parte della sua evoluzione. 

L’organizzazione che si occupa delle migrazioni umane è l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, fondata nel 1951.

L’OIM è oggi la principale organizzazione intergovernativa in ambito migratorio, può contare su circa 165 Stati membri e oltre 500 uffici nel mondo. 
°°°°

Border studies.

Per i border studies attraversare un confine, nell’ambito di un processo migratorio, significa che un’identità viene alterata se non fratturata.   

Questa teoria dei border studies è nata negli USA sulla frontiera con il Messico. 

Le ricerche sul campo hanno sottolineato la funzione di ibridazione che l’esperienza della frontiera esercita sui chicanos e sui loro confini identitari. 

Oggi sono diventate molto comuni espressioni come creolizzazione, meticciamento e ibridazione

Si tratta di tre termini diversi che rinviano, sostanzialmente, allo stesso concetto.  

AI fatto che nel corso del tempo storico le culture si evolvono venendo in contatto fra loro.  

È una condizione che porta alla loro contaminazione e quindi a ibridarsi e a assumere nuove configurazioni. 

Per creolizzazione culturale o ibridazione s’intende dunque questo processo di contaminazione di aspetti e forme di vita provenienti da culture diverse, a volte anche molto distanti fra loro. 

Ricordiamo, per altro, che non esistono culture pure, incontaminate e protette da un isolamento totale. 

Per le scienze sociali la creolizzazione culturale più che un problema di contagio e di emulazione, è l’espressione della capacità d’imitazione degli esseri umani. 

Vale a dire è un’espressione della curiosità, del desiderio di esplorazione, della capacità di sperimentazione e d’innovazione delle persone, dell’esigenza  di conoscere altre realtà culturali, diverse e alternative. 

Normalmente si attribuisce a una famosa scrittrice chicana, morta qualche anno fa, e a un suo libro, il merito di aver rifondato i border studies.

Si tratta di Gloria Anzaldùa e il libros’intitola Terre di confine.

Una confine quello tra gli USA e il Messico – che questa scrittrice odiava, luogo di contraddizioni, di rabbia e di sfruttamento. 

Scrive la Anzaldùa: Questa è la mia casa, questa sottile linea di filo spinato, il confine tra Stati Uniti e Messico, non es che una ferida abierta, una ferita dove il Terzo Mondo si scontra con il primo e sanguina.   

In termini più sociologici diciamo che il concetto di transnazionalismo gioca un ruolo sempre più importante nel mondo globalizzato, perché la tendenza dei movimenti migratori moderni è quella di costruire e moltiplicare degli spazi sociali transnazionali contribuendo a un continuo rimescolamento della carta antropica del pianeta.

Questo transnazionalismo ha due caratteri evidenti. 

– È un ripensamento del concetto di cittadinanza, perlomeno nella sua forma stanziale.

– È un grande fenomeno di ri-ontologizzazione delle frontiere, che tendono a mutare in modo irreversibile e a archiviare le ridicole distinzioni ottocentesche di dentro e fuori. 

Una conseguenza di tutto ciò è l’imporsi, soprattutto per frenare l’immigrazione clandestina, di un regime di gestione delle frontiere flessibile e a geometria variabile che ha preso il posto del mito della muraglia e della fortezza invalicabili.    

I tecnici lo definiscono un sistema di confine ibridizzato a cui non concorrono solo gli Stati Nazionali, ma molte altre organizzazioni internazionali e nuovi attori globali – come L’International Organization for Migration – e, non da ultimo, organizzazioni governative con finalità umanitarie.   

In altri termini, come da più parti è oramai riconosciuto, la progressiva deterritorializzazione dei confini esterni e interni della polis europea ha reso discontinuo il suo spazio giuridico che oggi ammette una sovranità condivisa tra attori diversi, sia pubblici che privati.

Per deterritorializzazione si intende, in particolare, lo spostamento di funzioni tipiche del controllo dei confini ben al di là delle linee di confine tradizionali – vedi l’azione della marina italiana nel Mediterraneo – e la disseminazione di molte di queste stesse funzioni all’interno dello spazio che i confini tradizionali perimetrano, per esempio nei Centri di Accoglienza.    

Poi, più in generale, il confine prolunga la sua azione all’interno della polis anche da un altro punto di vista, assecondando e favorendo la tendenza alla produzione di una pluralità di posizioni giuridiche differenziate all’interno della cittadinanza. 

***

(febbraio 2020)

Pubblicato in IED - Anno Accademico 2019-2020 | Commenti disabilitati su LA COMUNICAZIONE NELLA SOCIETA’ MULTIETNICA – 3a lezione

LA COMUNICAZIONE NELLA SOCIETA’ MULTIETNICA – PRIMA ESERCITAZIONE

Esercitazione visuale da realizzare su un supporto quadrato di centimetri 30 x 30 utilizzando la tecnica del collage.

Oggetto: Un tema, un soggetto, un assunto, un argomento, liberamente scelti, tra quelli contenuti nelle prime tre lezioni, compresi gli eventuali allegati digitali. 

Il collage può essere accompagnato – se lo si ritiene necessario – da una didascalia o da una breve nota esplicativa. 

Il collage dovrà essere inviato a: gesmos@gmail.com 

Se l’elaborato è troppo “pesante” per essere inviato via e-mail inviarlo tramite https://wetransfer.com

COLLAGE

Il collage (dal francese “incollamento”) è una tecnica e una poetica (da molti definita la poesia

del frammento) d’arte moderna adottata soprattutto da artisti cubisti, futuristi, dadaisti, surrealisti e, in tempi più recenti, dai rappresentanti della pop art.  Come tecnica, tuttavia, il collage è stato spesso usato in diverse culture ed epoche, come nei libri giapponesi a partire dal 1700 o nell’Inghilterra del 1800 con l’uso soprattutto di fiori e foglie.  Nel suo significato più pregnante e rivoluzionario è legato alla ricerca cubista.  A partire dalla seconda decade del secolo scorso artisti come Braque e Picasso – per ricordare i due più famosi – usarono con una certa sistematicità il collage e il papier collé (un collage dove i frammenti incollati sono esclusivamente di carta), frammenti di giornali, di carta da parati e poi materiali sempre più eterogenei, che contribuirono al superamento delle tecniche pittoriche tradizionali e allo stesso tempo si presentavano quale riferimento costante alla realtà.  Oggi sono molto popolari anche gli assemblage, collage a tre dimensioni.  

Ha scritto George Grosz nei suoi diari: “Quando John Heartfield ed io inventammo il fotomontaggio, nel mio studio, alle cinque di una mattinata di maggio nel 1916, nessuno dei due aveva idea delle sue enormi potenzialità, né della strada spinosa ma piena di successo che ci avrebbe aspettato. Come spesso succede nella vita eravamo inciampati in un filone d’oro senza nemmeno accorgercene.” 

Il collage venne utilizzato anche dai futuristi italiani e da numerosi artisti lungo il corso del ventesimo secolo, tra questi ricordiamo Robert Rauschenberg e i suoi combines che mettono in evidenza oggetti e frammenti della vita quotidiana nello spirito della “popular image”.

Pubblicato in IED - Anno Accademico 2019-2020 | Commenti disabilitati su LA COMUNICAZIONE NELLA SOCIETA’ MULTIETNICA – PRIMA ESERCITAZIONE

LA COMUNICAZIONE NELLA SOCIETA’ MULTIETNICA – 2a lezione

Parte prima:

Quanti siamo nel mondo e in che mondo viviamo? 

Al momento – il dato e del 2019 – sulla Terra ci sono circa 7,7 miliardi di abitanti. 

Un secolo fa erano solamente 1,6 miliardi.  

Tra i Paesi con il maggior numero di abitanti il primo è la Cina, con i suoi 1,4 miliardi di cittadini, seguita dall’India (1,2 miliardi) e dagli Stati Uniti d’America (324 milioni).

Nelle prime dieci posizioni non troviamo nessun Paese europeo, poiché il primo della lista è la Germania (quindicesima) con i suoi 82 milioni di abitanti. 

L’Italia (con poco più do 60 milioni) occupa la 23esima posizione.

Come si può immaginare, l’Asia è il continente più abitato nel mondo (4,4 miliardi) e più della metà della popolazione mondiale è asiatica.  

Il secondo continente più popolato è l’Africa (1,2 miliardi), seguito dalle Americhe del Nord e del Sud (949 milioni), dall’Europa (740 milioni) e dall’Oceania (38 milioni).

Secondo i demografi il tasso di crescita della popolazione mondiale ha già raggiunto il suo punto più alto e nel corso degli anni sta rallentando.  

Tuttavia, le stime dell’ONU prevedono che con il tasso di crescita attuale la popolazione mondiale raggiungerà gli 8,5 miliardi di abitanti entro il 2030, i 9,7 miliardi nel 2050 e gli 11,2 miliardi nel 2100.  

Quindi, entro 80 anni la popolazione mondiale crescerà di oltre il 32%.

I Paesi in cui la popolazione crescerà di più sono quelli in via di sviluppo.  

Basta considerare che nella classifica delle nazioni mondiali con il tasso di natalità più alto, le prime nove posizioni sono occupate tutte da Paesi africani (Niger, Mali, Uganda, Zambia, Burkina Faso, Burundi, Malawi, Somalia e Angola). In questi paesi il tasso di natalità (nascite/1.000 abitanti) è compreso tra 41 e 46, mentre il tasso di mortalità è compreso tra il 10 e il 15.

L’Africa, il continente che abbiamo con le nostre mire coloniali e le nostre politiche economiche desertificato e affamato.

L’Africa quindi è il continente in cui è atteso un incremento della popolazione maggiore e la nazione più coinvolta sarà la Nigeria.   

Nel dettaglio, entro il 2100 la popolazione africana aumenterà del 270%, e passerà dagli 1,1 miliardi ai 4,2 miliardi (quanto la popolazione asiatica del 2015). 

Gli altri Paesi in cui si attende un incremento molto alto sono l’India e gli Stati Uniti, con questi ultimi che entro il 2100 passeranno da 316 milioni di abitanti a 462 milioni (+42%).

In alcune nazioni Europee, tra cui l’Italia, ci saranno dei cali della popolazione.  

Il calo della popolazione colpirà anche la nazione più popolata al mondo, si prevede che la Cina, entro il 2100, vedrà i suoi abitanti ridursi dagli 1,4 miliardi agli 1,1 miliardi.

Sovrappopolazione, quali sono i rischi?

Il problema principale del sovra-popolamento non è la mancanza di spazio sul pianeta, bensì la mancanza di risorse. 

La popolazione mondiale, in questo momento, consuma le sue intere disponibilità annuali in poco meno di sei mesi, per questo in caso di passaggio dai 7 agli 11 miliardi di abitanti sarà molto difficile trovare le risorse necessarie per il sostentamento di tutti.

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Cos’è l’Overshoot day

L’Overshoot day è il giorno che indica l’esaurimento ufficiale delle risorse rinnovabili che la Terra è in grado di rigenerare nell’arco di 365 giorni. 

La data, che muta di anno in anno a seconda della rapidità con cui tali risorse vengono sfruttate, viene calcolata dal Global footprint network (Gfn) organizzazione internazionale che si occupa di contabilità ambientale calcolando l’impronta ecologica. 

Ogni anno questa scadenza tende ad arrivare prima, prospettando un futuro sempre più cupo per la razza umana. 

Attualmente, secondo il Gfn, la popolazione mondiale sta consumando l’equivalente di 1,6 pianeti all’anno, questa cifra dovrebbe salire a due pianeti entro il 2030, in base alle tendenze attuali. 

Il pianeta che abbiamo a disposizione, però, è soltanto uno.

L’umanità ha iniziato a consumare più di quanto la Terra producesse nei primi anni Settanta, da allora il giorno in cui viene superato il limite arriva sempre prima (nel 1975 era il 28 novembre), a causa della crescita della popolazione mondiale e dell’espansione dei consumi in tutto il mondo.

L’Overshoot day non ferma la sua corsa e continua ad arretrare.  Nel 2019 è arrivato il 29 luglio, a questa data l’umanità aveva dilapidato il budget di risorse naturali che il pianeta ci ha messo a disposizione.

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In particolare, secondo la FAO, entro il 2050 la quantità di acqua potabile disponibile pro capite scenderà del 73%.  

Oggi, due miliardi di persone nel mondo, cioè 2 persone su 7, vivono in luoghi di elevato stress idrico, dove cioè la domanda di acqua supera l’offerta in un dato periodo o in zone dove a scarseggiare non è l’acqua in generale, ma quella potabile.  

Sono quasi 4 miliardi le persone a rischio per insufficienza d’acqua e 5 milioni i morti per malattie legate alla sua scarsità o per mancanza di servizi igienico-sanitari di base. 

Questo, mentre il 12% della popolazione mondiale usa l’85% delle risorse del Pianeta. 

In particolare, 1,6 miliardi di persone nel mondo non hanno accesso all’acqua potabile, 2,6 miliardi di persone non hanno accesso ai servizi igienico-sanitari di base e 1,8 milioni di bambini muoiono ogni anno per malattie connesse alla mancanza d’acqua potabile pari a 4.900 bambini al giorno.

Nel tempo della nostra lezione circa 600 bambini saranno morti per sete.   

Oltre alla mancanza di risorse, un altro problema legato alla sovrappopolazione mondiale sono gli effetti sull’ambiente.  

Una recente statistica dell’OMS è stato rilevato che, a causa dei cambiamenti climatici e dei fenomeni a esso collegati, ogni anno muoiono circa 300mila persone, il 50% in più rispetto al 2000.

Il Global Climate Risk Index (Gcri) è un rapporto pubblicato ogni anno da Germanwatch,  un’organizzazione non governativa con sede a Bonn, in Germania, che conduce analisi e ricerche sugli effetti dei cambiamenti climatici nel mondo.

In totale, secondo le elaborazioni di Germanwatch, tra il 1999 e il 2018 sono morte nel mondo circa 495 mila persone, in più di 12 mila eventi atmosferici estremi.  

Nel 2019 le ondate di caldo sono stato la causa principale di mortalità in questa speciale classifica.

I cambiamenti climatici sono quasi tutti imputabili all’uomo, in quanto l’innalzamento delle temperature è stato causato dall’abuso dei combustibili fossili come petrolio, carbone e metano.

Un altro dei problemi riguarda la deforestazione che entro pochi anni non sarà più sostenibile.   

A causa dell’alto livello di deforestazione, Greenpeace ha calcolato che il livello di anidride carbonica presente nell’atmosfera ha superato le 400 parti per milione, un record che non avveniva da almeno 3 milioni di anni.   

Se questi valori non si riducono, le conseguenze sul clima potrebbero essere devastanti e nel giro di pochi anni il numero dei morti a causa dei fenomeni climatici potrebbe aumentare ulteriormente.

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Molti dei dati fisici che abbiamo visto sono la conseguenza delle forme culturali che governano il mondo.  Ma che cos’è la cultura?  

Diciamo che – se non la si deve definire ad alta voce – tutti grossomodo sanno che cos’è la cultura, ma non tutti sanno che questo concetto (o, questo paradigma) nel corso dell’ultimo quarto di secolo si è trasformato radicalmente. 

I paradigmi sono aree argomentative omogenee che si trasformano con la ricerca e lo sviluppo socio-politico. 

In altri termini, hanno assunto una grande importanza due aspetti di questo paradigma: 

– da una parte, la complessità, oggi, della vita corrente (vale a dire dei ruoli, delle aspettative, delle credenze, dei miti, dei riti e di tutte le pratiche, comprese quelle comunicative, che strutturano l’agire quotidiano). 

– dall’altra, la sua natura di congegno cognitivo con il quale si da un significato alla realtà che abitiamo e si fanno emergere le identità che la compongono, pur nelle loro diversità. 

Gli sviluppi più recenti su questa ri-definizione del concetto di cultura hanno posto l’attenzione sui limiti delle definizioni di natura statica, perché anche se sono in grado di descriverne l’aspetto, di fatto acuiscono le differenze, così come fanno sembrare le culture delle entità astratte nelle quali risulta sminuito lo spazio delle autonomie individuali o dei piccoli gruppi. 


James Clifford, un antropologo americano di quella corrente definita de-costruttivista (insegna storia della conoscenza in California) ha introdotto, sulla scia di queste critiche, l’ipotesi che la cultura non è un bagaglio di modelli definiti, ma un insieme di possibilità e vincoli che strutturano la realtà sociale in un processo dinamico. 

Una realtà sociale che si nutre di una continua ibridazione anche con le altre culture.

In sostanza, si è passati da una visione di cultura come “roots” (radici) ad una come “routes” (percorsi). 

En passant notiamo che un’altra interessante definizione di cultura è quella elaborata dell’antropologo americano Clifford Geertz (1926-2006), il quale, per analogia, accomuna l’idea di cultura a una rete di significati, più o meno astratta e vincolante, che gli individui hanno creato, creano e continuano a ricreare e nella quale si riconoscono. 

Una rete nella quale essi sono, allo stesso tempo, i protagonisti e le comparse, la cui importanza è stata moltiplicata dal digitale.   

Clifford, nel 1997 ha scritto un libro, Strade.  Viaggio e traduzione alla fine del XX secolo. 

 (Routes.  Travel and tranlations in the late Twentieth Century). 

In questo libro Clifford si sofferma sul concetto di travelling cultures come un nuovo modo di concepire le culture e i rapporti tra comunità e società diverse.  

Fino a qualche tempo fa l’antropologia vedeva le culture come qualcosa di radicato, come un fenomeno da studiare “sul posto”.  

In sostanza, gli etnografi occidentali che hanno studiato i costumi e il comportamento dei popoli extra-europei hanno sempre considerato i membri di questi popoli come degli individui confinati nei loro luoghi di appartenenza e svincolati da ogni genere di influenza esterna.  

Arjun Appadurai, un antropologo americano, di origine indiana, esperto di sudi post-coloniali, è stato uno dei primi a criticare questa visione, denominandola una sorta di comoda scorciatoia per relegare negli stereotipi i cosiddetti “altri da noi”. 

Ciò che Clifford propone è di vedere gli altri non solo come “nativi”, ma anche come “viaggiatori”, secondo un concetto di cultura concepita sia come un luogo di residenza che di viaggio.  Viaggio inteso non solo come un muoversi sul territorio, ma anche come metafora.    

In altri termini, negli studi sulla cultura fino alla fine del secolo scorso si è sempre dato più peso alle radici (roots) piuttosto che alle strade (routes), intese come vie, rotte percorsi ed itinerari più o meno reali che l’individuo percorre nel corso della vita. 

La dimensione localistica, in pratica, ha sempre ricevuto un’attenzione maggiore perchè il rapporto tra espressioni culturali e luoghi fisici è sempre stato inteso in senso statico

Secondo Clifford, però, questo legame deve essere ri-considerato anche da un punto di vista dinamico, dal momento che le pratiche e le esperienze di viaggio e di incontro sono anch’esse costitutive per la definizione dei significati culturali

É importante sottolineare che in questo contesto il concetto di viaggio non è da intendersi solo in senso letterale, ma anche metaforico.

Secondo un luogo comune diffuso nella cultura europea il viaggiatore è ancora oggi colui che, godendo di privilegi economici e sociali, è libero di girare il mondo senza doversi scontrare con le necessità della vita materiale.  

Un tempo il Grand Tour era un lungo viaggio nell’Europa delle Nazioni effettuato dai giovani dell’aristocrazia o delle famiglie borghesi molto ricche a partire dal diciassettesimo secolo. 

Viaggio destinato a perfezionare il loro sapere con un ritorno nella stessa città di partenza, ecco perchè “giro”. 

Un viaggio che poteva durare da pochi mesi fino a svariati anni. In genere la meta più comune era l’Italia a ragione del suo enorme patrimonio artistico.   

L’obiettivo del Tour, infatti, era imparare a conoscere la politica, la cultura, l’arte antica, così come le altre famiglie nobiliari al fine di essere all’altezza del loro rango e di allacciare rapporti. 

Oggi non è più così, il significato di viaggio si è dilatato, assumendo molti altri aspetti.

Si può dire che le storie dei migranti, dei profughi o delle persone in fuga per i motivi più svariati dalla loro terra di origine, da quelli politici a quelli climatici, possono essere assimilate a delle esperienze di viaggio.

Un tempo nella tradizione i viaggiatori erano solo gli uomini. 

Nella contemporaneità la forma del viaggio è cambiata, tutti possono viaggiare e non si viaggia solo con la fantasia, come fanno i bambini e i sognatori, ma anche aprendosi alle nuove possibilità offerte dal digitale che favorisce nuove e inedite forme di incontro, sia pure immateriali.   

Come ha sottolineato Clifford: il viaggio, o lo spostamento, può coinvolgere situazioni che passano attraverso la rete, la televisione, la radio, il turismo, le attività mercantili e quelle militari. 

Concepire le culture come “travelling cultures” vuol dire considerarle come fenomeni in perenne movimento. 

Guardarle come il prodotto di incontri e fusioni, ma anche di scontri e conflitti tra tutto ciò che “risiede” o è “dentro” (dimensione locale) e tutto ciò che viene da “fuori” e “passa attraverso” (dimensione globale). 

Per intenderci, che passa attraverso i media, le merci, le immagini, i protagonisti dei processi di migrazione, il turismo, le attività legate agli affari transnazionali o militari.   

A mio giudizio, osserva Clifford, nessuno è più vincolato in permanenza alla sua “identità” anche se non è possibile disfarsi delle specifiche strutture della razza e della cultura, della classe, della casta, del genere e della sessualità, dell’ambiente e della storia.  

Queste opportunità trasversali, egli scrive, non vanno intese come l’occasione per avere nuove patrie, scelte o imposte, ma come luoghi d’incontro e di occasioni di dialogo. 

Uno degli aspetti più innovativi della visione di Clifford sta nell’avere esteso la categoria di “travelling cultures” anche alle culture delle società occidentali moderne. 

In breve, come le culture dei popoli non-occidentali non possono essere studiate a prescindere dai loro incontri con le culture europee, allo stesso modo, le culture europee non possono essere comprese se non alla luce dei loro rapporti storici con le realtà extra-europee, e quindi con l’“esotico”, il “primitivo”, il “pre-moderno” e il “tradizionale”.  

Per fare un esempio di scuola. 

Secondo molti studiosi, i tratti fondamentali della cosiddetta Englishness (l’identità culturale tipica degli inglesi), non possono essere compresi senza fare riferimento alle relazioni storiche tra l’ex-impero e le sue colonie, e dunque al progetto imperialista della Gran Bretagna di civilizzare le zone “barbare” e “selvagge” della terra.  

Da questo punto di vista, ciò che di solito viene definita come cultura “nazionale” inglese dovrebbe essere considerata una “travelling culture”, vale a dire una cultura che è tale proprio a causa dei suoi spostamenti coloniali, dei suoi programmi imperialisti e dei suoi incontri con ciò che gli inglesi definivano l’altrove

Un altro concetto su cui Clifford insiste molto è quello di diaspora, dal greco “disseminazione”.  

Questo termine, che un tempo designava quasi esclusivamente la dispersione ebraica, si è progressivamente caricato di nuovi significati che rientrano in un campo semantico molto più ampio, comprendente anche parole come immigrante, espatriato, rifugiato, lavoratore straniero, comunità in esilio, comunità d’oltremare e comunità etnica. 

Va da se, è molto difficile raggruppare tutte queste esperienze sotto il significato classico di diaspora, per questo Clifford e molti altri antropologi suggeriscono di considerarla solo come un punto di partenza per un discorso che, nelle odierne condizioni di globalizzazione, non può che essere impreciso e ibrido.   

In ogni modo il concetto di diaspora è sempre più utilizzato nelle analisi contemporanee proprio a causa dell’intensificarsi del processo di globalizzazione

Mai come nel Ventesimo secolo le culture e le identità si sono trovate a fare i conti con poteri autoritari, sia locali che transnazionali, e mai vi è stata una interconnessione tra le culture paragonabile quella attuale.

Bene o male, scrive Clifford, il discorso sulla diaspora si sta diffondendo sempre di più.   

Questo discorso va permeando il mondo intero per ragioni che hanno a che fare con la decolonizzazione, l’accresciuta immigrazione, la comunicazione e i trasporti sul piano planetario – tutta una serie di fenomeni che favoriscono il congiungimento a luoghi diversi, alle residenze plurime e lo sviluppo di un’intensa attività di viaggio dentro e attraverso le nazioni. 

Le identità ibride che traggono origine da queste esperienze della diaspora si caratterizzano per il loro amalgamare insieme lingue, tradizioni e luoghi diversi, in maniere che possono essere sia creative che coercitive

In sostanza le articolazioni moderne della diaspora sono lette da molti come potenziali sovversioni della nazionalità, modi di sostenere connessioni con più di un luogo, praticando al tempo stesso forme indefinite dal punto di vista politico di cittadinanza.  

Una nota storica. 

In linea generale il termine diaspora viene usato per riferirsi al destino del popolo ebraico, per indicare tanto la storia secolare dell’esilio degli ebrei dalla propria terra (dalla fuga dall’Egitto al ritorno alla terra promessa di Mosè, alla conquista babilonese nel 722 a.C. fino alla diaspora post-cristianesimo, che ha comportato l’incessante dislocazione di oltre cinque milioni di ebrei), che l’attuale condizione dei soggetti di cultura ebraica che continuano a risiedere altrove rispetto alla patria, oggi identificabile in Israele.

Di fatto la condizione della diaspora appartiene a numerosissime culture, ovvero a tutte le comunità che vivono al di fuori della terra nativa, o immaginata tale, comunità che si riconoscono in una lingua, una religione e una cultura d’origine. 

Gli studiosi oggi tendono a distinguere fra le diaspore prodotte dagli imperi, dalle colonizzazioni o dalla segregazione razziale ed etnica, da quelle prodotte dalla necessità di spostarsi per cercare un lavoro, fino a giungere alle diaspore culturali, politiche, razziali o dovute a motivi climatici. 

In breve, il passaggio da una concezione che legava la diaspora alla persecuzione religiosa del popolo ebraico a quella secondo cui la diaspora è un evento che ha colpito e colpisce molte comunità in ogni parte del mondo, producendo effetti come la schiavitù, l’emigrazione, la dislocazione, la ricollocazione, ma anche la globalizzazione culturale, è avvenuto grazie all’apporto elaborato nel contesto delle nuovo prospettive dell’antropologia culturale.  

Un caso di specie è quello dello spostamento forzato di africani verso le Americhe che ebbe inizio con i primi insediamenti europei nel Nuovo Mondo. 

Questo spostamento durò cinque secoli, e comportò un movimento stimato intorno agli undici milioni di persone.   

La scrittrice afro americana Toni Morrison arriva a parlare di sessanta milioni o più di africani, conteggiando anche quelli che, nella traversata Atlantica, chiamata middle passage, morivano per denutrizione, maltrattamenti, o si suicidavano (Morrison 1987). 

Toni Morrison, pseudonimo di Chloe Ardelia Wofford (1931-2019), è stata una scrittrice e accademica statunitense. Fu la prima africana americana a vincere il Nobel per la letteratura.

Per tutto il periodo della pratica schiavistica, nelle piantagioni venivano messi insieme africani provenienti da varie parti del continente e quindi con lingue e culture diverse, in questo modo non solo non fu possibile conservare le culture e le tradizioni di riferimento, ma per comunicare, gli schiavi furono costretti ad adottare la lingua del padrone in una forma impoverita.  

Va aggiunto che dislocazione e maltrattamenti non riuscirono ad annientare completamene la nostalgia e molte abitudini della terra d’origine.  Va sottolineato perchè i movimenti per i diritti civili degli anni Cinquanta e Sessanta fecero leva proprio su questi sentimenti per forgiare un’identità culturale e politica.   

Ma solo negli ultimi anni del Ventesimo secolo ha avuto inizio il processo di rememory, ovvero di ricostruzione della propria storia, compresa quella della schiavitù. 

In pratica il concetto di diaspora è divenuto centrale tanto per la ricostruzione della loro storia che per una rilettura della storia dell’Occidente che non può continuare a oscurare il contributo africano alla costruzione dell’Occidente, né i flussi inevitabili che si sono creati fra Europa, colonie europee e culture colonizzate, come l’India ad esempio, e fra le Americhe e l’Africa.

Per diaspora studies oggi s’intende tanto gli studi sulla diaspora che gli studi che utilizzano la condizione della diaspora che si può definire come una posizione di tensione e sospensione fra il da-dove-vieni e il dove-sei-ora, e i suoi effetti – dolore, lacerazione, nostalgia, ma anche fluidità e contaminazione. 

Possiamo dire che la diaspora, oggi, sta aprendo spazi di negoziazione fra le culture, mettendo in crisi le pratiche di assimilazione e collaborazione, per rimappare le storie culturali e mostrare come le stesse storie di ex-imperi ma anche dei singoli stati non possano più essere narrate come omogenee e unitarie.  

In sostanza entrare nelle problematiche della diaspora significa porre al centro del discorso l’instabilità delle identità nazionale, la crisi sia del concetto di madrepatria e del concetto di terra natia. 

Stuart Hall, che nei vostri corsi avete conosciuto come uno studioso della prossemica, nei suoi numerosissimi studi, ha insegnato a guardare al mondo caraibico non come una semplice diaspora africana, ma anche come una diaspora dell’Europa, della Cina, dell’Asia. 

I Caraibi, nella loro complessità culturale, incarnano il concetto-condizione di diaspora, soprattutto ora che i caraibici si sono ri-diasporizzati per motivi economici e politici ripartendo per altri luoghi. 

Gli studi su questa diaspora insegnano a guardare immagini e ad ascoltare musica nata dall’esilio, come il blues e il jazz, o il raggae giamaicano come esempi pulsanti di pensiero, pratica ed estetica non nazionalistici, bensì transnazionali e creolizzati.   

Si tratta di produzioni estetiche che attraversano tutti i continenti, dal Nord al Sud, e riguardano paesi di lingua francese, spagnola e portoghese, ma anche turca e araba – si pensi alla diaspora curda – e mettono in scena l’irrequietezza e il nomadismo che in questi tempi attraversa svariate comunità in cui la diaspora è indotta dalle spinte del neo-liberismo e neo-imperialismo di stampo occidentale ma anche da spinte nazionalistiche e tribali dell’Est come del Sud del mondo.   

Chiudiamo questa nota con il lessico che il concetto di diaspora contiene: 

Border crossing, Border studies, Creolizzazione, Differenza, Ebraismo, Esilio, Espatrio, Fuga, G(l)ocal, Globalizzazione, Ibridismo, Impero, Interazione, Migrazione, Nazione, Olocausto, Patria, Periferia, Postcolonialismo, Profughi, Ri-collocazione, Riconfigurazione, (Ri)negoziazione, Ritorno, Schiavismo, Sionismo, Stato, Studi (post)-coloniali, Terra promessa, Transnazionalismo, Travelling cultures. 

La cultura, dunque, va considerata come una rete di significati, come dei modelli di pensiero in continua mutazione, come una dimensione morale e simbolica delle rappresentazioni collettive. 

C’è la cultura radicata dei luoghi urbanizzati, i cui “prodotti” sono accumulati nelle istituzioni museali, e la cultura di percorsi che si condensa nei neo-siti delle performance sociali. 

Siti tra i quali emergono drammatici i campi profughi.  Drammatici perchè le conseguenze appariranno solo a long run, mentre adesso appaiono frammentate, fraintese, luoghi di deposito, ostelli di speranza. 

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Lo strano caso della “Sape”.

Les Occidentaux ont créé le vêtement,

mais l’habillement a été inventé à Brazzaville. 

Baudouin Mouanda

I damerini di Bacongo

Situate sulle due rive del fiume Congo, l’una di fronte all’altra, Brazzaville, capitale della Repubblica del Congo, una volta Africa Equatoriale Francese, e Kinshasa, capitale della Repubbilca Democratica del Congo (già Congo Belga e poi Zaire), formano un complesso urbano di circa quindici milioni di abitanti. 

Le periferie di questo grande complesso urbano non eccellono per la qualità della vita: in molti quartieri, l’approvvigionamento idrico è una chimera, così come l’accesso alla corrente elettrica. 

La rete stradale è approssimativa, in terra battuta, le infrastrutture  precarie, e buona parte della popolazione alloggia in baracche con recinti di mattoni e tetti in lamiera.  

Eppure, nonostante questa condizione di povertà, come nel caso del popolare quartiere Bacongo, situato a sud di Brazzaville, si vedono per strada abiti sartoriali delle case di moda più famose, completi in tre pezzi, bastoni da passeggio, scarpe e mocassini in pelle di alligatore, cappelli pipe cravatte e ogni tipo di accessorio stravagante – il tutto in colori non sempre sobri, ma il tutto (apparentemente) autentico e di marca.  Questo abbigliamento appartengono agli abitanti del luogo: i cosiddetti “sapeur”.

sapeur prendono il nome dalla “Sape” (o S.A.P.E.), ovvero la Société des Ambianceurs et des Personnes Élégantes, la “Società dei creatori di atmosfere e delle persone eleganti”. 

I membri di questa confraternita condividono l’ideale della ricercatezza, del lusso, dell’ostentazione e, almeno in linea di principio, dell’“eleganza” nel vestire, in un contrasto drammatico e surreale con le condizioni materiali del proprio ambiente urbano. 

I sapeur amano abbigliarsi con abiti sartoriali e accessori dei più celebri e costosi marchi europei  (tra i tanti ricordiamo Armani, Dolce&Gabbana, Kenzo, Valentino, Versace, Yamamoto, Yves Saint Laurent) combinandoli sia secondo i dettami dell’eleganza formale europea, sia sfoggiando colori ed abbinamenti assolutamente cacofonici che richiamano i cromatismi africani, pur nell’ambito di forme e tagli di ispirazione classica. 

Abbigliati in modo impeccabile ( va ricordato che il sapeur ostenta, insieme alla ricercatezza e al lusso degli indumenti e della biancheria, una cura maniacale per la persona), si radunano e sfilano per le strade, il più delle volte polverose quando non sono fangose, mettendo in scena una sorta di spettacolo costituito di movenze artefatte e controllate e di pose ostentate con cui esibiscono con orgoglio le etichette degli abiti. 

Non sono mai soli, i sapeur amano incontrarsi con altri gruppi di eleganti, confrontare le rispettive mise, discuterle, dibattere di abbinamenti di colore, di canoni, di prezzi, scambiarsi complimenti.

In questo gioco lo sfoggio riveste un ruolo fondamentale.  La competizione è forte, sia tra i singoli sapeur sia tra le varie correnti formatesi in seno al movimento, spesso in forte contrasto fra loro.

Il prezzo degli abiti, in particolare, è un fattore determinante.  I capi più costosi suscitano meraviglia ed ammirazione: i marchi devono essere ostentati, le fatture esibite, non importa, come spesso accade, se il sapeur si è rovinato per comprare i suoi vestiti. 

Per costoro ciò che soprattutto conta è il gusto nell’abbinamento dei colori, nello stile e nei modi. 

A questo proposito, esistono delle regole precise e spesso scritte, come la “teoria dei tre colori” e degli standard a cui attenersi.  

Uno di essi è rappresentato dalle scarpe Weston (sul migliaio di dollari), un vero e proprio status symbol di cui il vero sapeur non può fare a meno.

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J. M. Weston è un marchio francese di lusso specializzato nella produzione di scarpe da uomo e accessori di piccola pelletteria.

La storia di J. M. Weston comincia alla fine del 19° secolo, nel 189, nel cuore della regione Limousin in Francia – famosa nel mondo per la sua lunga tradizione di concia e lavorazione del cuoio – quando Édouard Blanchard fonda la sua fabbrica per creare scarpe da uomo e donna.

Poi, suo figlio Eugene quando entrerà in azienda inserirà i moderni metodi di produzione utilizzati negli Stati Uniti.  Non a caso è proprio a Weston, in America, dove imparerà la tecnica di manifattura Goodyear che utilizzerà più avanti per la produzione di scarpe nel proprio workshop avviato con Jean Viard, dove brevetta il brand J.M.Weston.

Il mocassino è la vera e propria icona di JM Weston: la sua lavorazione, ancora oggi made in Limoges, è rimasta invariata dal 1946, un modello che può essere re.interpretato all’infinito per soddisfare le esigenze e i desideri di ogni nuova generazione. 

Naturalmente oltre le scarpe vi è anche una produzione di accessori, cinture, portafogli, beautycase e articoli da viaggio che permette al marchio J.M Weston di essere uno dei principali attori nel panorama delle scarpe di lusso, introducendo nel mercato le sue famose brogues, loafers, oxfords e derbys, tramite una rete di quaranta boutique, di cui venticinque all’estero.

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Per costruirsi il proprio guardaroba, i sapeur affrontano spesso costosi viaggi in Francia e Parigi, in particolare, rappresenta la meta più ambita. 

Essere un sapeur è uno stile di vita dispendioso, in quanto abiti e accessori raggiungono spesso prezzi di migliaia di dollari, e l’acquisto di capi non originali è considerato un tabù.

Inoltre, va evitata la monotonia: un sapeur maturo deve disporre di un guardaroba ben fornito.

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Il termine lusso deriva dal latino luxus, che indica sovrabbondanza, eccesso. Parlare di lusso significa dunque riferirsi a qualcosa di non necessario, che va al di là di ciò che è sufficiente o in qualche modo adeguato alle normali occorrenze della vita. Il lussuoso ha a che fare con ciò che appare inutile, superfluo e per ciò stesso vizioso. Se la questione è dunque quella dell’eccesso, il punto è se l’inessenziale e il surplus indichino ciò di cui tutti potrebbero fare a meno o se invece la brama per l’inessenziale rappresenti un tratto fondamentale e costitutivo dell’essere umano…

…nel saggio su La notion de dépense (1933) George Bataille mette in evidenza come “l’attività umana non è interamente riducibile a processi di produzione e di conservazione, e il consumo deve essere diviso in due parti distinte. La prima, riducibile, è rappresentata dall’uso del minimo necessario”, mentre la seconda è costituita dalle “spese cosiddette improduttive: il lusso, i lutti, le guerre, i culti, […] i giochi, gli spettacoli, le arti, l’attività sessuale perversa (cioè deviata dalla finalità genitale) rappresentano altrettante attività che, almeno nelle condizioni primitive, hanno il loro fine in sé stesse”.  In questa prospettiva, Bataille rileva l’insufficienza del principio classico dell’utilità, e, facendosi forte delle intuizioni elaborate da Marcel Mauss in relazione alla sua teoria del dono (Essai sur le don, 1923), rivendica la necessità di un consumo rapido e violento delle risorse.

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Diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, la Sape non è un passatempo per ricchi. 

Il sapeur tipico è un uomo tra i venti e i quaranta anni, vive nei quartieri periferici di Brazzaville o Kinshasa, ed esercita un mestiere il più delle volte manuale: può essere un idraulico, un elettricista, un tassista… un individuo che dispone di un modesto introito di denaro, che non vive in completa povertà ma che certo non può ambire alla ricchezza.  

I capitali necessari provengono dai risparmi, spesso di molti anni, che normalmente sarebbero stati investiti nell’acquisto di un appezzamento di terra, o utilizzati per ovviare alle necessità dei membri della famiglia allargata.

Il rischio di farsi prendere la mano e di rovinarsi è alto, gli stessi sapeur ne sono consapevoli.  

Se da un lato il sapeur ama distinguersi dalla massa dei “profani”, mal vissuto è un certo senso di imbarazzo nei confronti dei propri vicini e famigliari e delle condizioni di disagio e povertà in cui si trovano a vivere.  I parenti e gli amici spesso non vedono di buon occhio chi è preso da questa pericolosa passione, che lo porta a mettere a rischio i bilanci famigliari.  

Nonostante questo, i sapeur sembrano essere amati e stimati dalla popolazione, e, oltre ad essere ammirati per lo splendido spettacolo che danno, suscitano entusiasmo, costituiscono dei modelli e dei motivi di orgoglio, diventano a tutti gli effetti dei notabili e dei campioni del loro quartiere.

Va riconosciuto che la Sape non è solo un’ostentazione di abiti di lusso, eleganti o eccentrici, ma è soprattutto uno stile.  Il sapeur deve sapersi atteggiare in modo teatrale, deve sapersi mettere in posa, astraendo sé stesso dall’ambiente circostante.  Deve saper vantare i propri abiti. 

La Sape, inoltre, si configura come un codice di comportamento animato da un’etica di una certa complessità se non addirittura come una religione – la “religione del kitendi” (tessuto in lingua lingala). 

Il sapeur deve mostrare cortesia, educazione e raffinatezza nei modi, selfcontrol, deve fuggire la violenza e la discriminazione, coltivare il rispetto, la pace e il cosmopolitismo. 

La connotazione religiosa appare chiaramente nel decalogo del sapeur, che riprende e trasforma in veri e propri comandamenti i principi base dell’ideale di comportamento della sapologia: 

– Tu saperas sur terre avec les humains et au ciel avec ton Dieu créateur

– Tu materas les ngayas (mécréants), les mbendes (ignorants), les tindongos (les parleurs sans but) sur terre, sous terre, en mer et dans les cieux

– Tu honoreras la sapelogie en tous lieux

– Les voies de la sapelogie sont impénétrables à tout sapelogue ne connaissant pas la règle de trois, la trilogie des couleurs achevées et inachevées

– Tu ne cèderas pas

– Tu adopteras une hygiène vestimentaire et corporelle très rigoureuse

– Tu ne seras ni tribaliste, ni nationaliste, ni raciste, ni discriminatoire

– Tu ne seras pas violent ni insolent

– Tu obéiras aux préceptes de civilité des sapelogues, sapeurs et au respect des anciens

– De par ta prière et tes dix commandements, toi sapelogue, sapeur, tu coloniseras les peuples sapephobes.

A questo decalogo segue la preghiera:

«Gloire à toi Sapelogue, bénis sois ta science, oh grand maître de mon univers, toi qui remplis mes jours de bonheur et de frime, toi qui remplis mes jours de diatance et de tchatche, toi à qui j’ai donné mon corps, mon âme, mon esprit, je te rends grâce.

Oh science de la sape, toi qui est applaudie sur tous les podiums du monde, toi qui par ta beauté illumine le corps des hommes et des femmes sur cette terre ; je te vénère du plus profond de mon être.

Met sur mon chemin les ngayas, les mbendés, les tindongos, qu’ils soient matés afin que ta volonté soit faite.

Ote de mon chemin tous les bandits qui veulent faire du mal à mes vêtements ; protège-moi de tous les sapephobes qui n’aiment pas les sapelogues et sapeurs pour que règne ta science pour des siècles et des siècles; que la Sapelogie soit avec vous et dans le cœur de tous les sapelogues et sapeurs. 

Amen.»

L’origine della Sape è oscura.  

I suoi primordi si fanno risalire ai primi decenni del Novecento, quando l’odierna Repubblica del Congo faceva parte dell’Africa Equatoriale Francese e la Repubblica Democratica del Congo era il Congo Belga.  

È in questo contesto che nasce il concetto di evolué, riferito a un abitante indigeno che adotta i costumi, la lingua, l’abbigliamento e gli ordinamenti dei colonizzatori europei e che riveste in genere un ruolo impiegatizio nell’amministrazione coloniale.  

La prima forma di adozione dell’abbigliamento occidentale fa quindi parte di un processo, pur fortemente limitato, di assimilazione culturale, un tentativo di “assomigliare” il più possibile ai colonizzatori in modo da poter accedere, sia pure ai livelli più bassi, alle strutture di potere e guadagnare uno status di privilegio rispetto ai connazionali ancorati alle strutture ed ai valori culturali tradizionali.

In particolare, durante la prima guerra mondiale i soldati congolesi furono mandati a combattere sui fronti europei, entrando così in contatto con lo stile di vita occidentale. 

Molti di essi tornarono in Congo portando con sé abiti ed accessori acquistati in Francia, che amavano poi sfoggiare in patria nella vita pubblica o durante le festività.  

L’abbigliamento ed i valori francesi si diffusero così sempre più fra i giovani delle classi medie, in particolare di Brazzaville, in un generico desiderio di integrazione dal basso.  

Nel periodo tra le due guerre mondiali vennero fondati molti club di evolué neiquali esisteva una forte competizione fra i membri per apparire il più “occidentalizzati” possibile, a partire dall’abbigliamento.  Sono gli antesignani della Sape.

 Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, con la decolonizzazione e la formazione di stati indipendenti – quasi sempre con regimi autoritari – la situazione si fa più complessa.   

Il culto dandy dell’abbigliamento subisce poi un notevole sviluppo negli anni ‘60 e ‘70, in coincidenza e in un rapporto contrastato – a causa della forte opposizione delle autorità – con il regime di Mobutu in Zaire (1965-1996) e con la diffusione del marxismo nella Repubblica Popolare del Congo (1969-1992). 

Negli ultimi vent’anni del secolo scorso la passione per l’eleganza dilaga fra la gioventù disoccupata di Brazzaville, che sogna di poter viaggiare in Francia e comprare abiti eleganti, ed è santificata e diffusa, tra gli altri, da artisti come Papa Wemba, vero profeta della Sape – chenelle sue canzoni esalta i valori e lo stile di vita dell’uomo “ben sbarbato, pettinato, profumato e ben vestito” – e Adrien “Stervos Niarcos” Mobele, congolese emigrato in Francia, anch’egli tra i “padri spirituali”, fondatore della “religione del kitendi” e, di volta in volta, “re”, “papi” o “divinità” della Sape.  

È in questa stagione che nasce formalmente l’acronimo S.A.P.E., giocato sul significato di sape (saper: saper commentare, in francese e, nello slang, saper abbigliare) espressione coniata a quanto pare da Christian Loubaki, un tuttofare parigino che, rientrato in Congo, nel 1978 aprì la prima boutique di moda a Bacongo, Brazzaville, ancora oggi l’epicentro della sapologie

La Sape è un fenomeno complesso e contraddittorio.  

Lo sviluppo di un culto del lusso e dell’eccesso in un contesto socio-economico problematico come le periferie congolesi comporta delle complesse difficoltà di interpretazione.  

Al tempo stesso, proprio la sua apparente contraddittorietà fornisce degli utili indizi.  

Il desiderio di integrazione degli evolué con i dominatori francesi attraverso l’assimilazione e l’emulazione esteriore è del tutto comprensibile come manifestazione del desiderio di riscatto sociale mediante l’appropriazione di ciò che è pertinente ai colonizzatori. 

D’altra parte, la natura stessa del concetto di ‘imitazione’ pone gli “indigeni” nell’impossibilità di pervenire per suo tramite ad una vera eguaglianza, rafforzando il processo di alterizzazione tipica del discorso coloniale, un tema spesso affrontato dagli “studi coloniali”.  

L’abbigliamento, poi, è stato usato come un’arma anche contro i tentativi di uniformazione culturale perpetrati dai regimi di ispirazione marxista e autoritaria dell’epoca post-coloniale. 

L’abbigliamento diventò così un modo per opporsi alla massificazione, all’eliminazione dell’individualità e alla limitazione della libertà personale.  

Non per niente il regime di Mobutu in Congo, nel più ampio quadro della “campagna di autenticità” del costume, si oppose fortemente alle istanze dei sapeur, sia come associazione che emulava i modelli occidentali, sia in quanto espressione di libertà individuale.

Nel Congo contemporaneo, poi, il culto dell’eleganza può essere interpretato come una forma di riscatto dalle condizioni di emarginazione economica e politica, e dalla conseguente frustrazione, percepita da gran parte della popolazione.  

La Sape, in sostanza, appare come un desiderio di nascondere il fallimento sociale e trasformarlo in una vittoria apparente, come un desiderio di avere stima di sé nonostante le circostanze, di simulare un mondo pacifico e raffinato.  In una, di essere felici ed eleganti pur senza aver mangiato abbastanza.  Rappresenta una fuga da una realtà problematica che, pur nell’apparente superficialità, può configurarsi in una resistenza non-violenta.  

Il sapeur si sente un re, si sente il più ricco di tutti.  Il senso di riscatto è ben espresso da esternazioni come: «Thanks to la Sape and Papa Wemba’s music, Congo is today well-known worldwide for something else than war and poverty» e, ancora: «When we go downtown London, people point at us saying: ‘Look how elegant they are, they must be Congolese.» 

In questo senso, per concludere, il paragone col dandysmo europeo di fine XVIII-inizio XIX secolo, inteso come un espressione di rifiuto e un desiderio di evasione nei confronti di una realtà socio-economica mutata (l’ascesa della borghesia) e non percepita come propria, sembra particolarmente calzante, sia nelle cause sia nelle manifestazioni, ovvero nella ricerca dello straordinario e dell’eccesso. 

Per concludere, possiamo poi notare che le istanze sollevate, nell’ambito dell’ideologia della Sape e nei suoi comandamenti, riguardano alcune tra le problematiche più significative del Congo e dell’Africa, a riprova di quanto questo movimento non sia un mero sistema concettuale di evasione ma una forma di espressione dalla componente politica rilevante.

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Appendice:Milano settembre 2018. 

Milano, capitale della moda e del fashion, ha visto sfilare per la prima volta i Sapeurs nella serata di lunedì 10 settembre, in Galleria Vittorio Emanuele, grazie all’appuntamento Fashion Azioni Africane organizzato da Unità Case Museo e Progetti Speciali.

La manifestazione era stata programmata così: Il pubblico avrebbe stazionato in piedi nei pressi dei Sapeurs e seguito da vicino la manifestazione, spostandosi insieme ai protagonisti, o intercettandoli sul proprio cammino.  All’interno della sfilata il modo di camminare dei Sapeurs avrebbe assunto un ruolo centrale quale atto estetico, richiamando alla mente idealmente talune manifestazioni delle pratiche artistiche del primo Novecento.

Alla sfilata della SAPE sono stati affiancati: Les Hommes Canette, creati dall’artista congolese Eddy Ekete Mombesa: una sorta di “giganti” costruiti con delle lattine di alluminio che hanno vagato per le strade e ballato in un clangore di suoni metallici. 

Come lo definisce il suo stesso creatore, l’Homme Canette è un riciclaggio poetico di materiali presi dalla pubblicità urbana.  Evoca le nostre società segnate dalla profusione di oggetti usa e getta che produciamo ogni giorno, che rimanda ad una critica della produzione di massa e dei comportamenti che generano. 

Ibridazione delle culture.  Una nota.

Parlare di ibridazione delle culture o di interculturalità era considerato fino a qualche anno fa un argomento minore, era più popolare – per usare la formula coniata dal politologo americano Samuel Huntington – il tema dello scontro di civiltà.

I perchè sono molti, quasi tutte frutto di disinformazione e leggerezza intorno a quel dominio di rappresentazioni e di pratiche che gli antropologi chiamano cultura. 

In ogni modo, in che senso possiamo oggi parlare di ibridazione di culture e di interculturalità?   

Ibridazione è una nozione ambigua perché da qualche tempo si usa per fenomeni e processi che appartengono più alla biologia  – all’ingegneria genetica – piuttosto che alla cultura in quanto tale.

Anche se i simboli che descrivono la socialità non sono i geni manipolati dai genetisti, essi, comunque, sono portatori di informazioni. 

Permantenerel’analogia si può dire che la differenza principale sta nel fatto che mentre i geni viaggiano per vie naturali i simboli viaggiano in forza di una comunicazione di tipo verbale, visiva e visuale su supporti analogici o digitali.

Nelle scienze sociali l’ambiguità più pericolosa contenuta nel concetto di ibridazione sta nel fatto che utilizzandolo si potrebbe sotto-intendere che esistono delle culture pure, immacolate.

In realtà le culture sono per loro stessa natura ibride, sono il risultato di secoli di stratificazioni e selezioni, il più delle volte sconosciute o incontrollate.

Oggi, quando usiamo il concetto di ibridazione definiamo un processo dinamico di incontro e scambio di saperi e di stili di via.   

Questo incontro e scambio tra le culture molto spesso è generato da rapporti di forza di varia natura, spesso drammatici e violenti, in particolare, oggi, queste dinamiche sono ovunque e sono la diretta conseguenza di una planetarizzazione o, come si dice più spesso, di una globalizzazione che non ha precedenti nella storia passata del mondo. 

In particolare, con l’espressione “ibridazione” si denota oggi la natura intensa, rapida e problematica dei contatti tra culture diverse, un fenomeno che si contrappone a quella che una volta era chiamata la staticità culturale.

In quest’ottica l’interculturalità si configura come uno sguardo prospettico. 

Uno sguardo orientato a cogliere le dinamiche e gli effetti prodotti dall’incontro di codici culturali diversi ma reciprocamente traducibili.  Diversi, ma non incomprensibili.  

Assumere una prospettiva interculturale vuol dire considerare le culture non come dei monoliti cementati dalla tradizione, ma come dei sistemi di codici culturali elastici, capaci di relazionarsi

Quando i codici culturali s’incontrano non rimangono mai immutati, possono trasformarsi(nel migliore dei casi), oppure irrigidirsi, in ogni caso non rimangono mai quello che sono stati, anche quando, paradossalmente, sviluppano elementi di chiusura o di ostilità.  

En passant notiamo come prima dell’era moderna, quando le culture non volevano entrare in contatto o si scontravano, tendevano a ripensare la loro identità, mettendo in campo codici culturali contrapposti – esemplare è il caso del maiale (che sostituisce l’agnello a Pasqua) sulla frontiera polacca con l’impero ottomano o la leggenda della nascita del croissant durante l’assedio turco di Vienna.

La guerra polacca-ottomana, fu combattuta tra il 1633 e il 1634, questo conflitto vide affrontarsi la confederazione “polacco-lituana”contro l’impero ottomano, sotto la guida del sultano Murad IVe i suoi stati vassalli. 

La battaglia di Vienna ebbe luogo l’11 e il 12 settembre 1683 e pose fine a due mesi di assedio posto dall’esercito turco alla città di Vienna.

Un antropologo svedese, Ulf Hannerz, che insegna antropologia all’università di Stoccolma, ha elaborato una definizione di cultura nell’ambito della realtà globalizzata paragonandola a una struttura di significati, a un flusso di dati che viaggiano su reti di comunicazione non localizzate in singoli territori, ma che su di essi si appoggiano. 

É un concetto di cultura molto diverso dall’immagine della cultura fondata sull’equazione tradizione-territorio-identità che mette in evidenza la comprensione della diversità nei suoi propri termini.

O, come diceva Walter Benjamin, significa cercare di espandere le nostre capacità espressive allo scopo di inglobare l’altro da noi nel nostro linguaggio, allo scopo di adattare il nostro linguaggio al linguaggio dell’Altro da noi e viceversa. 

(febbraio 2020)

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