Parte prima:
Quanti siamo nel mondo e in che mondo viviamo?
Al momento – il dato e del 2019 – sulla Terra ci sono circa 7,7 miliardi di abitanti.
Un secolo fa erano solamente 1,6 miliardi.
Tra i Paesi con il maggior numero di abitanti il primo è la Cina, con i suoi 1,4 miliardi di cittadini, seguita dall’India (1,2 miliardi) e dagli Stati Uniti d’America (324 milioni).
Nelle prime dieci posizioni non troviamo nessun Paese europeo, poiché il primo della lista è la Germania (quindicesima) con i suoi 82 milioni di abitanti.
L’Italia (con poco più do 60 milioni) occupa la 23esima posizione.
Come si può immaginare, l’Asia è il continente più abitato nel mondo (4,4 miliardi) e più della metà della popolazione mondiale è asiatica.
Il secondo continente più popolato è l’Africa (1,2 miliardi), seguito dalle Americhe del Nord e del Sud (949 milioni), dall’Europa (740 milioni) e dall’Oceania (38 milioni).
Secondo i demografi il tasso di crescita della popolazione mondiale ha già raggiunto il suo punto più alto e nel corso degli anni sta rallentando.
Tuttavia, le stime dell’ONU prevedono che con il tasso di crescita attuale la popolazione mondiale raggiungerà gli 8,5 miliardi di abitanti entro il 2030, i 9,7 miliardi nel 2050 e gli 11,2 miliardi nel 2100.
Quindi, entro 80 anni la popolazione mondiale crescerà di oltre il 32%.
I Paesi in cui la popolazione crescerà di più sono quelli in via di sviluppo.
Basta considerare che nella classifica delle nazioni mondiali con il tasso di natalità più alto, le prime nove posizioni sono occupate tutte da Paesi africani (Niger, Mali, Uganda, Zambia, Burkina Faso, Burundi, Malawi, Somalia e Angola). In questi paesi il tasso di natalità (nascite/1.000 abitanti) è compreso tra 41 e 46, mentre il tasso di mortalità è compreso tra il 10 e il 15.
L’Africa, il continente che abbiamo con le nostre mire coloniali e le nostre politiche economiche desertificato e affamato.
L’Africa quindi è il continente in cui è atteso un incremento della popolazione maggiore e la nazione più coinvolta sarà la Nigeria.
Nel dettaglio, entro il 2100 la popolazione africana aumenterà del 270%, e passerà dagli 1,1 miliardi ai 4,2 miliardi (quanto la popolazione asiatica del 2015).
Gli altri Paesi in cui si attende un incremento molto alto sono l’India e gli Stati Uniti, con questi ultimi che entro il 2100 passeranno da 316 milioni di abitanti a 462 milioni (+42%).
In alcune nazioni Europee, tra cui l’Italia, ci saranno dei cali della popolazione.
Il calo della popolazione colpirà anche la nazione più popolata al mondo, si prevede che la Cina, entro il 2100, vedrà i suoi abitanti ridursi dagli 1,4 miliardi agli 1,1 miliardi.
Sovrappopolazione, quali sono i rischi?
Il problema principale del sovra-popolamento non è la mancanza di spazio sul pianeta, bensì la mancanza di risorse.
La popolazione mondiale, in questo momento, consuma le sue intere disponibilità annuali in poco meno di sei mesi, per questo in caso di passaggio dai 7 agli 11 miliardi di abitanti sarà molto difficile trovare le risorse necessarie per il sostentamento di tutti.
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Cos’è l’Overshoot day
L’Overshoot day è il giorno che indica l’esaurimento ufficiale delle risorse rinnovabili che la Terra è in grado di rigenerare nell’arco di 365 giorni.
La data, che muta di anno in anno a seconda della rapidità con cui tali risorse vengono sfruttate, viene calcolata dal Global footprint network (Gfn) organizzazione internazionale che si occupa di contabilità ambientale calcolando l’impronta ecologica.
Ogni anno questa scadenza tende ad arrivare prima, prospettando un futuro sempre più cupo per la razza umana.
Attualmente, secondo il Gfn, la popolazione mondiale sta consumando l’equivalente di 1,6 pianeti all’anno, questa cifra dovrebbe salire a due pianeti entro il 2030, in base alle tendenze attuali.
Il pianeta che abbiamo a disposizione, però, è soltanto uno.
L’umanità ha iniziato a consumare più di quanto la Terra producesse nei primi anni Settanta, da allora il giorno in cui viene superato il limite arriva sempre prima (nel 1975 era il 28 novembre), a causa della crescita della popolazione mondiale e dell’espansione dei consumi in tutto il mondo.
L’Overshoot day non ferma la sua corsa e continua ad arretrare. Nel 2019 è arrivato il 29 luglio, a questa data l’umanità aveva dilapidato il budget di risorse naturali che il pianeta ci ha messo a disposizione.
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In particolare, secondo la FAO, entro il 2050 la quantità di acqua potabile disponibile pro capite scenderà del 73%.
Oggi, due miliardi di persone nel mondo, cioè 2 persone su 7, vivono in luoghi di elevato stress idrico, dove cioè la domanda di acqua supera l’offerta in un dato periodo o in zone dove a scarseggiare non è l’acqua in generale, ma quella potabile.
Sono quasi 4 miliardi le persone a rischio per insufficienza d’acqua e 5 milioni i morti per malattie legate alla sua scarsità o per mancanza di servizi igienico-sanitari di base.
Questo, mentre il 12% della popolazione mondiale usa l’85% delle risorse del Pianeta.
In particolare, 1,6 miliardi di persone nel mondo non hanno accesso all’acqua potabile, 2,6 miliardi di persone non hanno accesso ai servizi igienico-sanitari di base e 1,8 milioni di bambini muoiono ogni anno per malattie connesse alla mancanza d’acqua potabile pari a 4.900 bambini al giorno.
Nel tempo della nostra lezione circa 600 bambini saranno morti per sete.
Oltre alla mancanza di risorse, un altro problema legato alla sovrappopolazione mondiale sono gli effetti sull’ambiente.
Una recente statistica dell’OMS è stato rilevato che, a causa dei cambiamenti climatici e dei fenomeni a esso collegati, ogni anno muoiono circa 300mila persone, il 50% in più rispetto al 2000.
Il Global Climate Risk Index (Gcri) è un rapporto pubblicato ogni anno da Germanwatch, un’organizzazione non governativa con sede a Bonn, in Germania, che conduce analisi e ricerche sugli effetti dei cambiamenti climatici nel mondo.
In totale, secondo le elaborazioni di Germanwatch, tra il 1999 e il 2018 sono morte nel mondo circa 495 mila persone, in più di 12 mila eventi atmosferici estremi.
Nel 2019 le ondate di caldo sono stato la causa principale di mortalità in questa speciale classifica.
I cambiamenti climatici sono quasi tutti imputabili all’uomo, in quanto l’innalzamento delle temperature è stato causato dall’abuso dei combustibili fossili come petrolio, carbone e metano.
Un altro dei problemi riguarda la deforestazione che entro pochi anni non sarà più sostenibile.
A causa dell’alto livello di deforestazione, Greenpeace ha calcolato che il livello di anidride carbonica presente nell’atmosfera ha superato le 400 parti per milione, un record che non avveniva da almeno 3 milioni di anni.
Se questi valori non si riducono, le conseguenze sul clima potrebbero essere devastanti e nel giro di pochi anni il numero dei morti a causa dei fenomeni climatici potrebbe aumentare ulteriormente.
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Molti dei dati fisici che abbiamo visto sono la conseguenza delle forme culturali che governano il mondo. Ma che cos’è la cultura?
Diciamo che – se non la si deve definire ad alta voce – tutti grossomodo sanno che cos’è la cultura, ma non tutti sanno che questo concetto (o, questo paradigma) nel corso dell’ultimo quarto di secolo si è trasformato radicalmente.
I paradigmi sono aree argomentative omogenee che si trasformano con la ricerca e lo sviluppo socio-politico.
In altri termini, hanno assunto una grande importanza due aspetti di questo paradigma:
– da una parte, la complessità, oggi, della vita corrente (vale a dire dei ruoli, delle aspettative, delle credenze, dei miti, dei riti e di tutte le pratiche, comprese quelle comunicative, che strutturano l’agire quotidiano).
– dall’altra, la sua natura di congegno cognitivo con il quale si da un significato alla realtà che abitiamo e si fanno emergere le identità che la compongono, pur nelle loro diversità.
Gli sviluppi più recenti su questa ri-definizione del concetto di cultura hanno posto l’attenzione sui limiti delle definizioni di natura statica, perché anche se sono in grado di descriverne l’aspetto, di fatto acuiscono le differenze, così come fanno sembrare le culture delle entità astratte nelle quali risulta sminuito lo spazio delle autonomie individuali o dei piccoli gruppi.
James Clifford, un antropologo americano di quella corrente definita de-costruttivista (insegna storia della
conoscenza in California) ha introdotto, sulla scia di queste critiche, l’ipotesi che la cultura non è un bagaglio
di modelli definiti, ma un insieme di possibilità e vincoli che strutturano la
realtà sociale in un processo dinamico.
Una realtà sociale che si nutre di una continua ibridazione anche con le altre culture.
In sostanza, si è passati da una visione di cultura come “roots” (radici) ad una come “routes” (percorsi).
En passant notiamo che un’altra interessante definizione di cultura è quella elaborata dell’antropologo americano Clifford Geertz (1926-2006), il quale, per analogia, accomuna l’idea di cultura a una rete di significati, più o meno astratta e vincolante, che gli individui hanno creato, creano e continuano a ricreare e nella quale si riconoscono.
Una rete nella quale essi sono, allo stesso tempo, i protagonisti e le comparse, la cui importanza è stata moltiplicata dal digitale.
Clifford, nel 1997 ha scritto un libro, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del XX secolo.
(Routes. Travel and tranlations in the late Twentieth Century).
In questo libro Clifford si sofferma sul concetto di “travelling cultures” come un nuovo modo di concepire le culture e i rapporti tra comunità e società diverse.
Fino a qualche tempo fa l’antropologia vedeva le culture come qualcosa di radicato, come un fenomeno da studiare “sul posto”.
In sostanza, gli etnografi occidentali che hanno studiato i costumi e il comportamento dei popoli extra-europei hanno sempre considerato i membri di questi popoli come degli individui confinati nei loro luoghi di appartenenza e svincolati da ogni genere di influenza esterna.
Arjun Appadurai, un antropologo americano, di origine indiana, esperto di sudi post-coloniali, è stato uno dei primi a criticare questa visione, denominandola una sorta di comoda scorciatoia per relegare negli stereotipi i cosiddetti “altri da noi”.
Ciò che Clifford propone è di vedere gli altri non solo come “nativi”, ma anche come “viaggiatori”, secondo un concetto di cultura concepita sia come un luogo di residenza che di viaggio. Viaggio inteso non solo come un muoversi sul territorio, ma anche come metafora.
In altri termini, negli studi sulla cultura fino alla fine del secolo scorso si è sempre dato più peso alle radici (roots) piuttosto che alle strade (routes), intese come vie, rotte percorsi ed itinerari più o meno reali che l’individuo percorre nel corso della vita.
La dimensione localistica, in pratica, ha sempre ricevuto un’attenzione maggiore perchè il rapporto tra espressioni culturali e luoghi fisici è sempre stato inteso in senso statico.
Secondo Clifford, però, questo legame deve essere ri-considerato anche da un punto di vista dinamico, dal momento che le pratiche e le esperienze di viaggio e di incontro sono anch’esse costitutive per la definizione dei significati culturali.
É importante sottolineare che in questo contesto il concetto di viaggio non è da intendersi solo in senso letterale, ma anche metaforico.
Secondo un luogo comune diffuso nella cultura europea il viaggiatore è ancora oggi colui che, godendo di privilegi economici e sociali, è libero di girare il mondo senza doversi scontrare con le necessità della vita materiale.
Un tempo il Grand Tour era un lungo viaggio nell’Europa delle Nazioni effettuato dai giovani dell’aristocrazia o delle famiglie borghesi molto ricche a partire dal diciassettesimo secolo.
Viaggio destinato a perfezionare il loro sapere con un ritorno nella stessa città di partenza, ecco perchè “giro”.
Un viaggio che poteva durare da pochi mesi fino a svariati anni. In genere la meta più comune era l’Italia a ragione del suo enorme patrimonio artistico.
L’obiettivo del Tour, infatti, era imparare a conoscere la politica, la cultura, l’arte antica, così come le altre famiglie nobiliari al fine di essere all’altezza del loro rango e di allacciare rapporti.
Oggi non è più così, il significato di viaggio si è dilatato, assumendo molti altri aspetti.
Si può dire che le storie dei migranti, dei profughi o delle persone in fuga per i motivi più svariati dalla loro terra di origine, da quelli politici a quelli climatici, possono essere assimilate a delle esperienze di viaggio.
Un tempo nella tradizione i viaggiatori erano solo gli uomini.
Nella contemporaneità la forma del viaggio è cambiata, tutti possono viaggiare e non si viaggia solo con la fantasia, come fanno i bambini e i sognatori, ma anche aprendosi alle nuove possibilità offerte dal digitale che favorisce nuove e inedite forme di incontro, sia pure immateriali.
Come ha sottolineato Clifford: il viaggio, o lo spostamento, può coinvolgere situazioni che passano attraverso la rete, la televisione, la radio, il turismo, le attività mercantili e quelle militari.
Concepire le culture come “travelling cultures” vuol dire considerarle come fenomeni in perenne movimento.
Guardarle come il prodotto di incontri e fusioni, ma anche di scontri e conflitti tra tutto ciò che “risiede” o è “dentro” (dimensione locale) e tutto ciò che viene da “fuori” e “passa attraverso” (dimensione globale).
Per intenderci, che passa attraverso i media, le merci, le immagini, i protagonisti dei processi di migrazione, il turismo, le attività legate agli affari transnazionali o militari.
A mio giudizio, osserva Clifford, nessuno è più vincolato in permanenza alla sua “identità” anche se non è possibile disfarsi delle specifiche strutture della razza e della cultura, della classe, della casta, del genere e della sessualità, dell’ambiente e della storia.
Queste opportunità trasversali, egli scrive, non vanno intese come l’occasione per avere nuove patrie, scelte o imposte, ma come luoghi d’incontro e di occasioni di dialogo.
Uno degli aspetti più innovativi della visione di Clifford sta nell’avere esteso la categoria di “travelling cultures” anche alle culture delle società occidentali moderne.
In breve, come le culture dei popoli non-occidentali non possono essere studiate a prescindere dai loro incontri con le culture europee, allo stesso modo, le culture europee non possono essere comprese se non alla luce dei loro rapporti storici con le realtà extra-europee, e quindi con l’“esotico”, il “primitivo”, il “pre-moderno” e il “tradizionale”.
Per fare un esempio di scuola.
Secondo molti studiosi, i tratti fondamentali della cosiddetta Englishness (l’identità culturale tipica degli inglesi), non possono essere compresi senza fare riferimento alle relazioni storiche tra l’ex-impero e le sue colonie, e dunque al progetto imperialista della Gran Bretagna di civilizzare le zone “barbare” e “selvagge” della terra.
Da questo punto di vista, ciò che di solito viene definita come cultura “nazionale” inglese dovrebbe essere considerata una “travelling culture”, vale a dire una cultura che è tale proprio a causa dei suoi spostamenti coloniali, dei suoi programmi imperialisti e dei suoi incontri con ciò che gli inglesi definivano l’altrove.
Un altro concetto su cui Clifford insiste molto è quello di diaspora, dal greco “disseminazione”.
Questo termine, che un tempo designava quasi esclusivamente la dispersione ebraica, si è progressivamente caricato di nuovi significati che rientrano in un campo semantico molto più ampio, comprendente anche parole come immigrante, espatriato, rifugiato, lavoratore straniero, comunità in esilio, comunità d’oltremare e comunità etnica.
Va da se, è molto difficile raggruppare tutte queste esperienze sotto il significato classico di diaspora, per questo Clifford e molti altri antropologi suggeriscono di considerarla solo come un punto di partenza per un discorso che, nelle odierne condizioni di globalizzazione, non può che essere impreciso e ibrido.
In ogni modo il concetto di diaspora è sempre più utilizzato nelle analisi contemporanee proprio a causa dell’intensificarsi del processo di globalizzazione.
Mai come nel Ventesimo secolo le culture e le identità si sono trovate a fare i conti con poteri autoritari, sia locali che transnazionali, e mai vi è stata una interconnessione tra le culture paragonabile quella attuale.
Bene o male, scrive Clifford, il discorso sulla diaspora si sta diffondendo sempre di più.
Questo discorso va permeando il mondo intero per ragioni che hanno a che fare con la decolonizzazione, l’accresciuta immigrazione, la comunicazione e i trasporti sul piano planetario – tutta una serie di fenomeni che favoriscono il congiungimento a luoghi diversi, alle residenze plurime e lo sviluppo di un’intensa attività di viaggio dentro e attraverso le nazioni.
Le identità ibride che traggono origine da queste esperienze della diaspora si caratterizzano per il loro amalgamare insieme lingue, tradizioni e luoghi diversi, in maniere che possono essere sia creative che coercitive.
In sostanza le articolazioni moderne della diaspora sono lette da molti come potenziali sovversioni della nazionalità, modi di sostenere connessioni con più di un luogo, praticando al tempo stesso forme indefinite dal punto di vista politico di cittadinanza.
Una nota storica.
In linea generale il termine diaspora viene usato per riferirsi al destino del popolo ebraico, per indicare tanto la storia secolare dell’esilio degli ebrei dalla propria terra (dalla fuga dall’Egitto al ritorno alla terra promessa di Mosè, alla conquista babilonese nel 722 a.C. fino alla diaspora post-cristianesimo, che ha comportato l’incessante dislocazione di oltre cinque milioni di ebrei), che l’attuale condizione dei soggetti di cultura ebraica che continuano a risiedere altrove rispetto alla patria, oggi identificabile in Israele.
Di fatto la condizione della diaspora appartiene a numerosissime culture, ovvero a tutte le comunità che vivono al di fuori della terra nativa, o immaginata tale, comunità che si riconoscono in una lingua, una religione e una cultura d’origine.
Gli studiosi oggi tendono a distinguere fra le diaspore prodotte dagli imperi, dalle colonizzazioni o dalla segregazione razziale ed etnica, da quelle prodotte dalla necessità di spostarsi per cercare un lavoro, fino a giungere alle diaspore culturali, politiche, razziali o dovute a motivi climatici.
In breve, il passaggio da una concezione che legava la diaspora alla persecuzione religiosa del popolo ebraico a quella secondo cui la diaspora è un evento che ha colpito e colpisce molte comunità in ogni parte del mondo, producendo effetti come la schiavitù, l’emigrazione, la dislocazione, la ricollocazione, ma anche la globalizzazione culturale, è avvenuto grazie all’apporto elaborato nel contesto delle nuovo prospettive dell’antropologia culturale.
Un caso di specie è quello dello spostamento forzato di africani verso le Americhe che ebbe inizio con i primi insediamenti europei nel Nuovo Mondo.
Questo spostamento durò cinque secoli, e comportò un movimento stimato intorno agli undici milioni di persone.
La scrittrice afro americana Toni Morrison arriva a parlare di sessanta milioni o più di africani, conteggiando anche quelli che, nella traversata Atlantica, chiamata middle passage, morivano per denutrizione, maltrattamenti, o si suicidavano (Morrison 1987).
Toni Morrison, pseudonimo di Chloe Ardelia Wofford (1931-2019), è stata una scrittrice e accademica statunitense. Fu la prima africana americana a vincere il Nobel per la letteratura.
Per tutto il periodo della pratica schiavistica, nelle piantagioni venivano messi insieme africani provenienti da varie parti del continente e quindi con lingue e culture diverse, in questo modo non solo non fu possibile conservare le culture e le tradizioni di riferimento, ma per comunicare, gli schiavi furono costretti ad adottare la lingua del padrone in una forma impoverita.
Va aggiunto che dislocazione e maltrattamenti non riuscirono ad annientare completamene la nostalgia e molte abitudini della terra d’origine. Va sottolineato perchè i movimenti per i diritti civili degli anni Cinquanta e Sessanta fecero leva proprio su questi sentimenti per forgiare un’identità culturale e politica.
Ma solo negli ultimi anni del Ventesimo secolo ha avuto inizio il processo di rememory, ovvero di ricostruzione della propria storia, compresa quella della schiavitù.
In pratica il concetto di diaspora è divenuto centrale tanto per la ricostruzione della loro storia che per una rilettura della storia dell’Occidente che non può continuare a oscurare il contributo africano alla costruzione dell’Occidente, né i flussi inevitabili che si sono creati fra Europa, colonie europee e culture colonizzate, come l’India ad esempio, e fra le Americhe e l’Africa.
Per diaspora studies oggi s’intende tanto gli studi sulla diaspora che gli studi che utilizzano la condizione della diaspora che si può definire come una posizione di tensione e sospensione fra il da-dove-vieni e il dove-sei-ora, e i suoi effetti – dolore, lacerazione, nostalgia, ma anche fluidità e contaminazione.
Possiamo dire che la diaspora, oggi, sta aprendo spazi di negoziazione fra le culture, mettendo in crisi le pratiche di assimilazione e collaborazione, per rimappare le storie culturali e mostrare come le stesse storie di ex-imperi ma anche dei singoli stati non possano più essere narrate come omogenee e unitarie.
In sostanza entrare nelle problematiche della diaspora significa porre al centro del discorso l’instabilità delle identità nazionale, la crisi sia del concetto di madrepatria e del concetto di terra natia.
Stuart Hall, che nei vostri corsi avete conosciuto come uno studioso della prossemica, nei suoi numerosissimi studi, ha insegnato a guardare al mondo caraibico non come una semplice diaspora africana, ma anche come una diaspora dell’Europa, della Cina, dell’Asia.
I Caraibi, nella loro complessità culturale, incarnano il concetto-condizione di diaspora, soprattutto ora che i caraibici si sono ri-diasporizzati per motivi economici e politici ripartendo per altri luoghi.
Gli studi su questa diaspora insegnano a guardare immagini e ad ascoltare musica nata dall’esilio, come il blues e il jazz, o il raggae giamaicano come esempi pulsanti di pensiero, pratica ed estetica non nazionalistici, bensì transnazionali e creolizzati.
Si tratta di produzioni estetiche che attraversano tutti i continenti, dal Nord al Sud, e riguardano paesi di lingua francese, spagnola e portoghese, ma anche turca e araba – si pensi alla diaspora curda – e mettono in scena l’irrequietezza e il nomadismo che in questi tempi attraversa svariate comunità in cui la diaspora è indotta dalle spinte del neo-liberismo e neo-imperialismo di stampo occidentale ma anche da spinte nazionalistiche e tribali dell’Est come del Sud del mondo.
Chiudiamo questa nota con il lessico che il concetto di diaspora contiene:
Border crossing, Border studies, Creolizzazione, Differenza, Ebraismo, Esilio, Espatrio, Fuga, G(l)ocal, Globalizzazione, Ibridismo, Impero, Interazione, Migrazione, Nazione, Olocausto, Patria, Periferia, Postcolonialismo, Profughi, Ri-collocazione, Riconfigurazione, (Ri)negoziazione, Ritorno, Schiavismo, Sionismo, Stato, Studi (post)-coloniali, Terra promessa, Transnazionalismo, Travelling cultures.
La cultura, dunque, va considerata come una rete di significati, come dei modelli di pensiero in continua mutazione, come una dimensione morale e simbolica delle rappresentazioni collettive.
C’è la cultura radicata dei luoghi urbanizzati, i cui “prodotti” sono accumulati nelle istituzioni museali, e la cultura di percorsi che si condensa nei neo-siti delle performance sociali.
Siti tra i quali emergono drammatici i campi profughi. Drammatici perchè le conseguenze appariranno solo a long run, mentre adesso appaiono frammentate, fraintese, luoghi di deposito, ostelli di speranza.
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Lo strano caso della “Sape”.
Les Occidentaux ont créé le vêtement,
mais l’habillement a été inventé à Brazzaville.
Baudouin Mouanda
I damerini di Bacongo
Situate sulle due rive del fiume Congo, l’una di fronte all’altra, Brazzaville, capitale della Repubblica del Congo, una volta Africa Equatoriale Francese, e Kinshasa, capitale della Repubbilca Democratica del Congo (già Congo Belga e poi Zaire), formano un complesso urbano di circa quindici milioni di abitanti.
Le periferie di questo grande complesso urbano non eccellono per la qualità della vita: in molti quartieri, l’approvvigionamento idrico è una chimera, così come l’accesso alla corrente elettrica.
La rete stradale è approssimativa, in terra battuta, le infrastrutture precarie, e buona parte della popolazione alloggia in baracche con recinti di mattoni e tetti in lamiera.
Eppure, nonostante questa condizione di povertà, come nel caso del popolare quartiere Bacongo, situato a sud di Brazzaville, si vedono per strada abiti sartoriali delle case di moda più famose, completi in tre pezzi, bastoni da passeggio, scarpe e mocassini in pelle di alligatore, cappelli pipe cravatte e ogni tipo di accessorio stravagante – il tutto in colori non sempre sobri, ma il tutto (apparentemente) autentico e di marca. Questo abbigliamento appartengono agli abitanti del luogo: i cosiddetti “sapeur”.
I sapeur prendono il nome dalla “Sape” (o S.A.P.E.), ovvero la Société des Ambianceurs et des Personnes Élégantes, la “Società dei creatori di atmosfere e delle persone eleganti”.
I membri di questa confraternita condividono l’ideale della ricercatezza, del lusso, dell’ostentazione e, almeno in linea di principio, dell’“eleganza” nel vestire, in un contrasto drammatico e surreale con le condizioni materiali del proprio ambiente urbano.
I sapeur amano abbigliarsi con abiti sartoriali e accessori dei più celebri e costosi marchi europei (tra i tanti ricordiamo Armani, Dolce&Gabbana, Kenzo, Valentino, Versace, Yamamoto, Yves Saint Laurent) combinandoli sia secondo i dettami dell’eleganza formale europea, sia sfoggiando colori ed abbinamenti assolutamente cacofonici che richiamano i cromatismi africani, pur nell’ambito di forme e tagli di ispirazione classica.
Abbigliati in modo impeccabile ( va ricordato che il sapeur ostenta, insieme alla ricercatezza e al lusso degli indumenti e della biancheria, una cura maniacale per la persona), si radunano e sfilano per le strade, il più delle volte polverose quando non sono fangose, mettendo in scena una sorta di spettacolo costituito di movenze artefatte e controllate e di pose ostentate con cui esibiscono con orgoglio le etichette degli abiti.
Non sono mai soli, i sapeur amano incontrarsi con altri gruppi di eleganti, confrontare le rispettive mise, discuterle, dibattere di abbinamenti di colore, di canoni, di prezzi, scambiarsi complimenti.
In questo gioco lo sfoggio riveste un ruolo fondamentale. La competizione è forte, sia tra i singoli sapeur sia tra le varie correnti formatesi in seno al movimento, spesso in forte contrasto fra loro.
Il prezzo degli abiti, in particolare, è un fattore determinante. I capi più costosi suscitano meraviglia ed ammirazione: i marchi devono essere ostentati, le fatture esibite, non importa, come spesso accade, se il sapeur si è rovinato per comprare i suoi vestiti.
Per costoro ciò che soprattutto conta è il gusto nell’abbinamento dei colori, nello stile e nei modi.
A questo proposito, esistono delle regole precise e spesso scritte, come la “teoria dei tre colori” e degli standard a cui attenersi.
Uno di essi è rappresentato dalle scarpe Weston (sul migliaio di dollari), un vero e proprio status symbol di cui il vero sapeur non può fare a meno.
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J. M. Weston è un marchio francese di lusso specializzato nella produzione di scarpe da uomo e accessori di piccola pelletteria.
La storia di J. M. Weston comincia alla fine del 19° secolo, nel 189, nel cuore della regione Limousin in Francia – famosa nel mondo per la sua lunga tradizione di concia e lavorazione del cuoio – quando Édouard Blanchard fonda la sua fabbrica per creare scarpe da uomo e donna.
Poi, suo figlio Eugene quando entrerà in azienda inserirà i moderni metodi di produzione utilizzati negli Stati Uniti. Non a caso è proprio a Weston, in America, dove imparerà la tecnica di manifattura Goodyear che utilizzerà più avanti per la produzione di scarpe nel proprio workshop avviato con Jean Viard, dove brevetta il brand J.M.Weston.
Il mocassino è la vera e propria icona di JM Weston: la sua lavorazione, ancora oggi made in Limoges, è rimasta invariata dal 1946, un modello che può essere re.interpretato all’infinito per soddisfare le esigenze e i desideri di ogni nuova generazione.
Naturalmente oltre le scarpe vi è anche una produzione di accessori, cinture, portafogli, beauty–case e articoli da viaggio che permette al marchio J.M Weston di essere uno dei principali attori nel panorama delle scarpe di lusso, introducendo nel mercato le sue famose brogues, loafers, oxfords e derbys, tramite una rete di quaranta boutique, di cui venticinque all’estero.
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Per costruirsi il proprio guardaroba, i sapeur affrontano spesso costosi viaggi in Francia e Parigi, in particolare, rappresenta la meta più ambita.
Essere un sapeur è uno stile di vita dispendioso, in quanto abiti e accessori raggiungono spesso prezzi di migliaia di dollari, e l’acquisto di capi non originali è considerato un tabù.
Inoltre, va evitata la monotonia: un sapeur maturo deve disporre di un guardaroba ben fornito.
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Il termine lusso deriva dal latino luxus, che indica sovrabbondanza, eccesso. Parlare di lusso significa dunque riferirsi a qualcosa di non necessario, che va al di là di ciò che è sufficiente o in qualche modo adeguato alle normali occorrenze della vita. Il lussuoso ha a che fare con ciò che appare inutile, superfluo e per ciò stesso vizioso. Se la questione è dunque quella dell’eccesso, il punto è se l’inessenziale e il surplus indichino ciò di cui tutti potrebbero fare a meno o se invece la brama per l’inessenziale rappresenti un tratto fondamentale e costitutivo dell’essere umano…
…nel saggio su La notion de dépense (1933) George Bataille mette in evidenza come “l’attività umana non è interamente riducibile a processi di produzione e di conservazione, e il consumo deve essere diviso in due parti distinte. La prima, riducibile, è rappresentata dall’uso del minimo necessario”, mentre la seconda è costituita dalle “spese cosiddette improduttive: il lusso, i lutti, le guerre, i culti, […] i giochi, gli spettacoli, le arti, l’attività sessuale perversa (cioè deviata dalla finalità genitale) rappresentano altrettante attività che, almeno nelle condizioni primitive, hanno il loro fine in sé stesse”. In questa prospettiva, Bataille rileva l’insufficienza del principio classico dell’utilità, e, facendosi forte delle intuizioni elaborate da Marcel Mauss in relazione alla sua teoria del dono (Essai sur le don, 1923), rivendica la necessità di un consumo rapido e violento delle risorse.
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Diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, la Sape non è un passatempo per ricchi.
Il sapeur tipico è un uomo tra i venti e i quaranta anni, vive nei quartieri periferici di Brazzaville o Kinshasa, ed esercita un mestiere il più delle volte manuale: può essere un idraulico, un elettricista, un tassista… un individuo che dispone di un modesto introito di denaro, che non vive in completa povertà ma che certo non può ambire alla ricchezza.
I capitali necessari provengono dai risparmi, spesso di molti anni, che normalmente sarebbero stati investiti nell’acquisto di un appezzamento di terra, o utilizzati per ovviare alle necessità dei membri della famiglia allargata.
Il rischio di farsi prendere la mano e di rovinarsi è alto, gli stessi sapeur ne sono consapevoli.
Se da un lato il sapeur ama distinguersi dalla massa dei “profani”, mal vissuto è un certo senso di imbarazzo nei confronti dei propri vicini e famigliari e delle condizioni di disagio e povertà in cui si trovano a vivere. I parenti e gli amici spesso non vedono di buon occhio chi è preso da questa pericolosa passione, che lo porta a mettere a rischio i bilanci famigliari.
Nonostante questo, i sapeur sembrano essere amati e stimati dalla popolazione, e, oltre ad essere ammirati per lo splendido spettacolo che danno, suscitano entusiasmo, costituiscono dei modelli e dei motivi di orgoglio, diventano a tutti gli effetti dei notabili e dei campioni del loro quartiere.
Va riconosciuto che la Sape non è solo un’ostentazione di abiti di lusso, eleganti o eccentrici, ma è soprattutto uno stile. Il sapeur deve sapersi atteggiare in modo teatrale, deve sapersi mettere in posa, astraendo sé stesso dall’ambiente circostante. Deve saper vantare i propri abiti.
La Sape, inoltre, si configura come un codice di comportamento animato da un’etica di una certa complessità se non addirittura come una religione – la “religione del kitendi” (tessuto in lingua lingala).
Il sapeur deve mostrare cortesia, educazione e raffinatezza nei modi, self–control, deve fuggire la violenza e la discriminazione, coltivare il rispetto, la pace e il cosmopolitismo.
La connotazione religiosa appare chiaramente nel decalogo del sapeur, che riprende e trasforma in veri e propri comandamenti i principi base dell’ideale di comportamento della sapologia:
– Tu saperas sur terre avec les humains et au ciel avec ton Dieu créateur
– Tu materas les ngayas (mécréants), les mbendes (ignorants), les tindongos (les parleurs sans but) sur terre, sous terre, en mer et dans les cieux
– Tu honoreras la sapelogie en tous lieux
– Les voies de la sapelogie sont impénétrables à tout sapelogue ne connaissant pas la règle de trois, la trilogie des couleurs achevées et inachevées
– Tu ne cèderas pas
– Tu adopteras une hygiène vestimentaire et corporelle très rigoureuse
– Tu ne seras ni tribaliste, ni nationaliste, ni raciste, ni discriminatoire
– Tu ne seras pas violent ni insolent
– Tu obéiras aux préceptes de civilité des sapelogues, sapeurs et au respect des anciens
– De par ta prière et tes dix commandements, toi sapelogue, sapeur, tu coloniseras les peuples sapephobes.
A questo decalogo segue la preghiera:
«Gloire à toi Sapelogue, bénis sois ta science, oh grand maître de mon univers, toi qui remplis mes jours de bonheur et de frime, toi qui remplis mes jours de diatance et de tchatche, toi à qui j’ai donné mon corps, mon âme, mon esprit, je te rends grâce.
Oh science de la sape, toi qui est applaudie sur tous les podiums du monde, toi qui par ta beauté illumine le corps des hommes et des femmes sur cette terre ; je te vénère du plus profond de mon être.
Met sur mon chemin les ngayas, les mbendés, les tindongos, qu’ils soient matés afin que ta volonté soit faite.
Ote de mon chemin tous les bandits qui veulent faire du mal à mes vêtements ; protège-moi de tous les sapephobes qui n’aiment pas les sapelogues et sapeurs pour que règne ta science pour des siècles et des siècles; que la Sapelogie soit avec vous et dans le cœur de tous les sapelogues et sapeurs.
Amen.»
L’origine della Sape è oscura.
I suoi primordi si fanno risalire ai primi decenni del Novecento, quando l’odierna Repubblica del Congo faceva parte dell’Africa Equatoriale Francese e la Repubblica Democratica del Congo era il Congo Belga.
È in questo contesto che nasce il concetto di evolué, riferito a un abitante indigeno che adotta i costumi, la lingua, l’abbigliamento e gli ordinamenti dei colonizzatori europei e che riveste in genere un ruolo impiegatizio nell’amministrazione coloniale.
La prima forma di adozione dell’abbigliamento occidentale fa quindi parte di un processo, pur fortemente limitato, di assimilazione culturale, un tentativo di “assomigliare” il più possibile ai colonizzatori in modo da poter accedere, sia pure ai livelli più bassi, alle strutture di potere e guadagnare uno status di privilegio rispetto ai connazionali ancorati alle strutture ed ai valori culturali tradizionali.
In particolare, durante la prima guerra mondiale i soldati congolesi furono mandati a combattere sui fronti europei, entrando così in contatto con lo stile di vita occidentale.
Molti di essi tornarono in Congo portando con sé abiti ed accessori acquistati in Francia, che amavano poi sfoggiare in patria nella vita pubblica o durante le festività.
L’abbigliamento ed i valori francesi si diffusero così sempre più fra i giovani delle classi medie, in particolare di Brazzaville, in un generico desiderio di integrazione dal basso.
Nel periodo tra le due guerre mondiali vennero fondati molti club di evolué neiquali esisteva una forte competizione fra i membri per apparire il più “occidentalizzati” possibile, a partire dall’abbigliamento. Sono gli antesignani della Sape.
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, con la decolonizzazione e la formazione di stati indipendenti – quasi sempre con regimi autoritari – la situazione si fa più complessa.
Il culto dandy dell’abbigliamento subisce poi un notevole sviluppo negli anni ‘60 e ‘70, in coincidenza e in un rapporto contrastato – a causa della forte opposizione delle autorità – con il regime di Mobutu in Zaire (1965-1996) e con la diffusione del marxismo nella Repubblica Popolare del Congo (1969-1992).
Negli ultimi vent’anni del secolo scorso la passione per l’eleganza dilaga fra la gioventù disoccupata di Brazzaville, che sogna di poter viaggiare in Francia e comprare abiti eleganti, ed è santificata e diffusa, tra gli altri, da artisti come Papa Wemba, vero profeta della Sape – chenelle sue canzoni esalta i valori e lo stile di vita dell’uomo “ben sbarbato, pettinato, profumato e ben vestito” – e Adrien “Stervos Niarcos” Mobele, congolese emigrato in Francia, anch’egli tra i “padri spirituali”, fondatore della “religione del kitendi” e, di volta in volta, “re”, “papi” o “divinità” della Sape.
È in questa stagione che nasce formalmente l’acronimo S.A.P.E., giocato sul significato di sape (saper: saper commentare, in francese e, nello slang, saper abbigliare) espressione coniata a quanto pare da Christian Loubaki, un tuttofare parigino che, rientrato in Congo, nel 1978 aprì la prima boutique di moda a Bacongo, Brazzaville, ancora oggi l’epicentro della sapologie.
La Sape è un fenomeno complesso e contraddittorio.
Lo sviluppo di un culto del lusso e dell’eccesso in un contesto socio-economico problematico come le periferie congolesi comporta delle complesse difficoltà di interpretazione.
Al tempo stesso, proprio la sua apparente contraddittorietà fornisce degli utili indizi.
Il desiderio di integrazione degli evolué con i dominatori francesi attraverso l’assimilazione e l’emulazione esteriore è del tutto comprensibile come manifestazione del desiderio di riscatto sociale mediante l’appropriazione di ciò che è pertinente ai colonizzatori.
D’altra parte, la natura stessa del concetto di ‘imitazione’ pone gli “indigeni” nell’impossibilità di pervenire per suo tramite ad una vera eguaglianza, rafforzando il processo di alterizzazione tipica del discorso coloniale, un tema spesso affrontato dagli “studi coloniali”.
L’abbigliamento, poi, è stato usato come un’arma anche contro i tentativi di uniformazione culturale perpetrati dai regimi di ispirazione marxista e autoritaria dell’epoca post-coloniale.
L’abbigliamento diventò così un modo per opporsi alla massificazione, all’eliminazione dell’individualità e alla limitazione della libertà personale.
Non per niente il regime di Mobutu in Congo, nel più ampio quadro della “campagna di autenticità” del costume, si oppose fortemente alle istanze dei sapeur, sia come associazione che emulava i modelli occidentali, sia in quanto espressione di libertà individuale.
Nel Congo contemporaneo, poi, il culto dell’eleganza può essere interpretato come una forma di riscatto dalle condizioni di emarginazione economica e politica, e dalla conseguente frustrazione, percepita da gran parte della popolazione.
La Sape, in sostanza, appare come un desiderio di nascondere il fallimento sociale e trasformarlo in una vittoria apparente, come un desiderio di avere stima di sé nonostante le circostanze, di simulare un mondo pacifico e raffinato. In una, di essere felici ed eleganti pur senza aver mangiato abbastanza. Rappresenta una fuga da una realtà problematica che, pur nell’apparente superficialità, può configurarsi in una resistenza non-violenta.
Il sapeur si sente un re, si sente il più ricco di tutti. Il senso di riscatto è ben espresso da esternazioni come: «Thanks to la Sape and Papa Wemba’s music, Congo is today well-known worldwide for something else than war and poverty» e, ancora: «When we go downtown London, people point at us saying: ‘Look how elegant they are, they must be Congolese.»
In questo senso, per concludere, il paragone col dandysmo europeo di fine XVIII-inizio XIX secolo, inteso come un espressione di rifiuto e un desiderio di evasione nei confronti di una realtà socio-economica mutata (l’ascesa della borghesia) e non percepita come propria, sembra particolarmente calzante, sia nelle cause sia nelle manifestazioni, ovvero nella ricerca dello straordinario e dell’eccesso.
Per concludere, possiamo poi notare che le istanze sollevate, nell’ambito dell’ideologia della Sape e nei suoi comandamenti, riguardano alcune tra le problematiche più significative del Congo e dell’Africa, a riprova di quanto questo movimento non sia un mero sistema concettuale di evasione ma una forma di espressione dalla componente politica rilevante.
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Appendice:Milano settembre 2018.
Milano, capitale della moda e del fashion, ha visto sfilare per la prima volta i Sapeurs nella serata di lunedì 10 settembre, in Galleria Vittorio Emanuele, grazie all’appuntamento Fashion Azioni Africane organizzato da Unità Case Museo e Progetti Speciali.
La manifestazione era stata programmata così: Il pubblico avrebbe stazionato in piedi nei pressi dei Sapeurs e seguito da vicino la manifestazione, spostandosi insieme ai protagonisti, o intercettandoli sul proprio cammino. All’interno della sfilata il modo di camminare dei Sapeurs avrebbe assunto un ruolo centrale quale atto estetico, richiamando alla mente idealmente talune manifestazioni delle pratiche artistiche del primo Novecento.
Alla sfilata della SAPE sono stati affiancati: Les Hommes Canette, creati dall’artista congolese Eddy Ekete Mombesa: una sorta di “giganti” costruiti con delle lattine di alluminio che hanno vagato per le strade e ballato in un clangore di suoni metallici.
Come lo definisce il suo stesso creatore, l’Homme Canette è un riciclaggio poetico di materiali presi dalla pubblicità urbana. Evoca le nostre società segnate dalla profusione di oggetti usa e getta che produciamo ogni giorno, che rimanda ad una critica della produzione di massa e dei comportamenti che generano.
Ibridazione delle culture. Una nota.
Parlare di ibridazione delle culture o di interculturalità era considerato fino a qualche anno fa un argomento minore, era più popolare – per usare la formula coniata dal politologo americano Samuel Huntington – il tema dello scontro di civiltà.
I perchè sono molti, quasi tutte frutto di disinformazione e leggerezza intorno a quel dominio di rappresentazioni e di pratiche che gli antropologi chiamano cultura.
In ogni modo, in che senso possiamo oggi parlare di ibridazione di culture e di interculturalità?
Ibridazione è una nozione ambigua perché da qualche tempo si usa per fenomeni e processi che appartengono più alla biologia – all’ingegneria genetica – piuttosto che alla cultura in quanto tale.
Anche se i simboli che descrivono la socialità non sono i geni manipolati dai genetisti, essi, comunque, sono portatori di informazioni.
Permantenerel’analogia si può dire che la differenza principale sta nel fatto che mentre i geni viaggiano per vie naturali i simboli viaggiano in forza di una comunicazione di tipo verbale, visiva e visuale su supporti analogici o digitali.
Nelle scienze sociali l’ambiguità più pericolosa contenuta nel concetto di ibridazione sta nel fatto che utilizzandolo si potrebbe sotto-intendere che esistono delle culture pure, immacolate.
In realtà le culture sono per loro stessa natura ibride, sono il risultato di secoli di stratificazioni e selezioni, il più delle volte sconosciute o incontrollate.
Oggi, quando usiamo il concetto di ibridazione definiamo un processo dinamico di incontro e scambio di saperi e di stili di via.
Questo incontro e scambio tra le culture molto spesso è generato da rapporti di forza di varia natura, spesso drammatici e violenti, in particolare, oggi, queste dinamiche sono ovunque e sono la diretta conseguenza di una planetarizzazione o, come si dice più spesso, di una globalizzazione che non ha precedenti nella storia passata del mondo.
In particolare, con l’espressione “ibridazione” si denota oggi la natura intensa, rapida e problematica dei contatti tra culture diverse, un fenomeno che si contrappone a quella che una volta era chiamata la staticità culturale.
In quest’ottica l’interculturalità si configura come uno sguardo prospettico.
Uno sguardo orientato a cogliere le dinamiche e gli effetti prodotti dall’incontro di codici culturali diversi ma reciprocamente traducibili. Diversi, ma non incomprensibili.
Assumere una prospettiva interculturale vuol dire considerare le culture non come dei monoliti cementati dalla tradizione, ma come dei sistemi di codici culturali elastici, capaci di relazionarsi.
Quando i codici culturali s’incontrano non rimangono mai immutati, possono trasformarsi(nel migliore dei casi), oppure irrigidirsi, in ogni caso non rimangono mai quello che sono stati, anche quando, paradossalmente, sviluppano elementi di chiusura o di ostilità.
En passant notiamo come prima dell’era moderna, quando le culture non volevano entrare in contatto o si scontravano, tendevano a ripensare la loro identità, mettendo in campo codici culturali contrapposti – esemplare è il caso del maiale (che sostituisce l’agnello a Pasqua) sulla frontiera polacca con l’impero ottomano o la leggenda della nascita del croissant durante l’assedio turco di Vienna.
La guerra polacca-ottomana, fu combattuta tra il 1633 e il 1634, questo conflitto vide affrontarsi la confederazione “polacco-lituana”contro l’impero ottomano, sotto la guida del sultano Murad IVe i suoi stati vassalli.
La battaglia di Vienna ebbe luogo l’11 e il 12 settembre 1683 e pose fine a due mesi di assedio posto dall’esercito turco alla città di Vienna.
Un antropologo svedese, Ulf Hannerz, che insegna antropologia all’università di Stoccolma, ha elaborato una definizione di cultura nell’ambito della realtà globalizzata paragonandola a una struttura di significati, a un flusso di dati che viaggiano su reti di comunicazione non localizzate in singoli territori, ma che su di essi si appoggiano.
É un concetto di cultura molto diverso dall’immagine della cultura fondata sull’equazione tradizione-territorio-identità che mette in evidenza la comprensione della diversità nei suoi propri termini.
O, come diceva Walter Benjamin, significa cercare di espandere le nostre capacità espressive allo scopo di inglobare l’altro da noi nel nostro linguaggio, allo scopo di adattare il nostro linguaggio al linguaggio dell’Altro da noi e viceversa.
(febbraio 2020)