[Parte 8 di 8 – Ultima parte]
Queste nuove forme di comunicazione hanno anche trasformato il modo di pensare il tempo.
Per esempio, il presente che viviamo si è dilatato e in esso non si coglie più il fluire del passato. Noi viviamo un tempo reale che fatica a diventare tempo storico.
A livello psicologico nessuno vuole più invecchiare perché risultano svalorizzati il vissuto e la memoria. Perché la storia sociale come scuola di vita è tramontata.
Con quali conseguenze?
Che le strutture narrative, che un tempo intrecciavano le costruzioni del senso, si sono affievolite, mentre il progredire delle frontiere tecnologiche va di pari passo con le trasformazioni dei meccanismi cognitivi.
In breve, il dominio del tempo e dello spazio amplia i poteri della mente, nello stesso movimento che altera il fluire della coscienza. In questo modo, all’interno delle società avanzate si generano nuove forme di anomia sociale che non sappiamo ancora affrontare.
Sotto un altro aspetto è come se la contingenza avesse preso il posto della narrazione.
Una contingenza – com’è per esempio quella che si ottiene con lo zapping – che crea una cultura sempre più forte per la potenza dei suoi contenuti, ma allo stesso tempo capace di rendere l’individuo sempre più estraneo al suo senso, alla capacità d’interpretarla.
In questo contesto evolutivo il fattore organizzativo finisce per svolgere un ruolo capitale.
Come tutti possono vedere si è ridotto l’intervallo tra produzione dei contenuti e il loro consumo.
Si è incrementata la qualità e l’intensità delle rappresentazioni.
Tutto appare e diviene più fragile ed aleatorio.
Le reti sono così divenute uno strumento di creazione e trasformazione dei problemi sociali e della soggettività individuale.
Paradossalmente, le stesse conoscenze individuali hanno subito una trasformazione significativa.
Da un paio di generazioni almeno a questa parte e per la prima volta nella storia dell’uomo, il patrimonio di conoscenze di cui una persona dispone all’inizio della sua carriera è destinato a diventare soprattutto in campo scientifico, prima della fine della sua vita professionale, obsoleto.
Non per caso, nei paesi industrializzati quelli che perdono l’occupazione dopo i quarant’anni faticano a trovare un altro posto di lavoro.
Più concretamente, l’avvento del world wide web ha segnato l’inizio di un’era di cui non sappiamo ancora tracciare in modo verosimile il percorso.
Nonostante una grande quantità d’informazioni si sia resa disponibile ai più è sempre più difficile determinarne la veridicità e l’affidabilità.
Per molti internet rispecchia il caos del mondo reale, per altri, lo sviluppo della comunicazione istantanea e decentrata.
In ogni caso porterà a dei cambiamenti significativi nella struttura dei mass media e dunque della società della conoscenza, di come questi cambiamenti si depositano nella cultura e di come potranno essere usati.
Come sempre, da una parte ci sono gli “apocalittici” – per i quali i media hanno un potere di distruzione delle forme classiche della socializzazione – dall’altra ci sono gli “integrati” propensi a considerare positivi gli esiti della socializzazione tramite i media.
Una cosa, però, appare assodata.
Questo secolo sarà dominato dalle problematiche dell’informazione, come il Novecento è stato dominato dal tema dell’energia e l’Ottocento dalla trasformazione e dalla nascita di nuove materie di sintesi.
Se vi guardate attorno, in casa, per strada, in questa scuola, non vedrete che oggetti e strumenti costruiti con sostanze che non esistevano nel Settecento.
Per analogia si può immaginare che questa storia si ripeta tra gli uomini che hanno festeggiato il capodanno dell’anno duemila e i loro nipoti appena nati.
Per quanto riguarda l’oggi una cosa è certa.
I media – a ragione della loro struttura comunicativa – modificano profondamente la nostra percezione della realtà e della cultura senza che gli uomini lo percepiscano nel momento in cui queste modificazioni avvengono.
Lo intuì per primo un autore spesso in questo corso ricordato, Marshall McLuhan (1911-1980), che lo sintetizzò in una formula efficace: il medium è il messaggio o, meglio, il massaggio.
Il titolo del libro a cui questa formula fa capo è: The medium is the massage, McLuhan lo scrisse con Quentin Fiore nel 1967. Alcuni dicono che il mezzo è divenuto il massaggio a causa di un errore del tipografo che entusiasmo McLuhan, che lo lesse anche come “mass age”.
Più verosimilmente è ricavato da un’affermazione di Thomas S. Eliot, nato in America, ma considerato uno dei poeti inglesi più famosi del Novecento.
Eliot in un saggio critico scrisse che il poeta si serve del significato come un ladro di serve del pezzo di carne che lancia al cane di guardia per distrarlo ed entrare in casa.
Per analogia, credere che un sito internet trasmetta contenuti piuttosto che “forme di mutamento” e come pensare che lo scopo del ladro sia sfamare il cane che fa la guardia.
In realtà noi siamo massaggiati dal mezzo e in qualche modo plasmati da esso. In altri termini, i media ci condizionano e contribuiscono a modellare il nostro modo di pensare.
McLuhan è l’autore più famoso di quella che è stata definita la Scuola di Toronto, a cui hanno dato il loro contributo Harold Innis, Walter Ong, Joshua Meyrowitz e molti altri.
Il fatto poi che la comunicazione di massa sia diventata una merce rende estremamente importante lo studio delle strategie con cui vengono prodotti e diffusi i messaggi, specialmente quando lo scopo di questi è d’influenzare i comportamenti dei destinatari.
Per la sociologia dunque i mass-media sono divenuti dei potenti ed ancora incontrollabili agenti di socializzazione, come lo erano ieri la famiglia, gli amici, le piazze, i teatri, la stampa popolare.
Incontrollabili, va da sé, dal punto di vista del controllo della loro capacità di manipolare l’opinione.
Questa socializzazione dipende:
*da strategie intenzionali (come sono quelle contenute nelle trasmissioni radiofoniche, cine televisive, internet…)
* da effetti indiretti (come la forzata condivisione dei consumi e degli stili di vita che scaturiscono dalla pubblicità mascherata da informazione o occulta, quella dei telefilm, dei reality show, dei serial…)
Molti ritengono e non senza qualche ragione che queste nuove forma di socializzazione siano diseducative perché si concentrano sul solo vedere.
Oggi, nei paesi disposti sulla fascia temperata del pianeta e in particolare in quelli ad industrializzazione avanzata i bambini stanno davanti alla televisione per più di trenta ore la settimana.
Cosa comporta questo?
Un’accentuarsi della difficoltà a distinguere la realtà dalla finzione.
Una disumanizzazione dell’Altro da sé.
Il fatto che ci sia tanta violenza sul piccolo schermo induce il bambino ad una vera e propria indifferenza empatica per i problemi altrui. Come tutti hanno avuto modo di constatare, nel mondo degli adulti ci si commuove per gli avvenimenti di una fiction e si resta indifferenti mentre sul telegiornale scorrono scene di fame o di violenza…e questi adulti non hanno alle spalle una storia televisiva paragonabile a quella dei loro figli.
Un’accentuata difficoltà a distinguere tra gli oggetti – in particolare quelli animati – e le persone, chel’ induce a pensare di poter trattare le seconde come se fossero cose.
Un accrescimento dell’aggressività.
Vediamo adesso alcune tesi di un sociologo che ha lavorato a lungo con McLuhan, Derrick de Kerckhove, belga di nascita, naturalizzato canadese e direttore del McLuhan program presso l’Università di Toronto.
Questo autore, tra l’altro, insegna anche in Italia, presso l’Università degli Studi di Napoli, Sociologia della cultura digitale.
Kerckhove è stato uno dei primi sociologici ad aprire un dibattito sul tema della collettività e della connettività.
La connettività qui è intesa non solo come un problema informatico per la soluzione della comunicazione tra sistemi diversi, ma come un approccio collettivo di singoli soggetti per il raggiungimento di un obiettivo, di un oggetto multimediale o di un artefatto cognitivo.
Il suo obiettivo è quello di esplorare come le nuove tecnologie influenzeranno la società a partire da un’idea di fondo, quella per la quale queste tecnologie non solo promuoveranno delle inedite espressioni artistiche e culturali, ma le integrano in nuovi sistemi significanti.
In altri termini, di come si ricompone il tema dell’estetizzazione della società e dei valori che promuovono l’etica e la formazione del sacro.
Il punto di partenza è il superamento di quella che egli definisce la civiltà della televisione.
Un congegno sostanzialmente passivo che ha relegato lo spettatore a semplice consumatore o adoratore di merci, ad una società nella quale il computer è il simbolo di una nuova stagione di forme e strategie interattive.
Questa nuova stagione, afferma Kerckhove, sarà necessariamente all’insegna di una nuova estetica, le forme d’interazione saranno più artistiche e legheranno l’arte alla scienza.
In altri termini, si trasformerà radicalmente l’estetica del sentire.
In questa visione, di cui già si possono cogliere i prodromi, l’attenzione si sposterà dall’artista-produttore, inteso come creatore, al fruitore-consumatore, che interverrà direttamente sull’opera-progetto.
La rete, in sostanza, è destinata a diventare uno strumento di nuove aggregazioni socio-culturali basate sia sugli interessi che sulle affinità di coloro che sapranno gestirla.
Se non saranno modificati eccessivamente (da un punto di vista economico) i parametri per accedere alla rete questa nuova visione sociologica delle reti sostiene che i rapporti sociali riacquisteranno quel potere che hanno perduto con l’affievolirsi delle ideologie nel corso del Novecento, cioè con le antiche architetture del mondo.
Nei fatti tutto tende a far si che l’informazione diventi il “vero” ambiente (un neo-luogo) in cui si muovono gli uomini e le idee, un ambiente in cui sarà determinante il peso che acquisteranno i mezzi che portano i messaggi.
Un’idea mediata direttamente da McLuhan che ha affermato come i media moderni sono delle forme di ambiente in cui vive l’uomo che da essi è modellato.
In questo modo il problema si sposta verso lo spazio comune, verso la comunitas dove ogni singolo uomo è testimone dell’esperienza ambientale che ha vissuto e tutti insieme dovrebbero rielaborare questa esperienza.
Lo spazio pubblico (condiviso) era un tempo il paese, poi la città, la nazione, la regione, il continente. Oggi è il pianeta.
L’ambiente, dunque, è il nuovo medium ed esso è globale anche se non è più sensoriale.
“Quando l’informazione viaggia alla velocità dell’elettricità, il mondo delle tendenze e delle voci“, afferma McLuhan, “diventa il mondo reale”, o se si preferisce, lo specchio del mondo che conosciamo.
È evidente che oggi nel sistema delle comunicazioni l’intervallo tra stimolo e risposta, cioè, tra chi trasmette e chi riceve è collassato.
Di contro, tende costantemente ad aumentare in maniera esponenziale la quantità delle transazioni più o meno reali o necessarie.
Da qui l’interdipendenza, che si realizzerà nel ventunesimo secolo, tra le tendenze sociali, economiche, culturali e politiche, che renderà tutto apparentemente incerto e certamente complesso, facendo crescere la sensazione di un bisogno di sicurezza.
Sotto un altro aspetto, tutto è accelerato e, per questo, vissuto in modo sempre più precario.
C’è sempre meno spazio tra l’azione e la reazione, tra gli stimoli e le risposte del pensiero connettivo, con la conseguenza che si è formata una sorta di contiguità tra il pensiero che pianifica e l’azione.
Il pensiero connettivo è, per Kerckhove, il prodotto cognitivo che nasce dall’interazione tra gli individui.
Di più, la moltiplicazione dei contatti comporta la possibilità di unificare le risposte di tutto il pianeta, moltiplicandone gli effetti.
Le conseguenze le vediamo bene nel mondo dell’economia e soprattutto della finanza – cioè del capitale immaginario – dove interi comparti, possono essere rielaborati, esaltati o stravolti nel giro di poche ore.
La rete finisce così per fungere da moltiplicatore, sia positivo che negativo di tutti gli effetti.
In questo senso è profetica un’affermazione di McLuhan:
“L’inflazione è denaro che ha una crisi d’identità”. Vale a dire, l’inflazione è più simile ad una crisi emozionale che al risultato di fattori tecnici diretti. Perché emozionale?
Perché nel villaggio globale informatico il rumore è realtà.
Su un altro piano è come se dicessimo che l’inconscio collettivo sta per essere soppiantato da un inconscio connettivo. Non domina più il senso, ma il condiviso.
Cambia anche la dimensione del tempo.
Un antico proverbio inglese diceva che il tempo è denaro. Oggi il tempo è il mercato.
Il tempo si acquista come possibilità di scelta e questa scelta è sempre più legata allo spazio della realtà virtuale.
In breve, questo globalismo che si sta prospettando come il nostro futuro si fonda soprattutto su due fattori, il multiculturalismo e la condivisione dei destini.
Come dicono i poeti di questa nuova realtà, una farfalla sbatte le ali in Cina, in Europa trema una banca.
Questa condivisione dei destini è un punto importante per le scienze sociali perché ridefinisce l’individuo dal punto di vista delle sue responsabilità sociali, economiche, ecologiche ed etiche.
In altri termini si sta sviluppando un nuovo paradigma di responsabilità civica e pubblica, perché globalità significa anche estensione delle responsabilità.
Non per caso nel tempo della velocità elettrica siamo tutti più vicini e il problema del mio vicino è anche il mio problema, sia che si parli di politica, di diritti umani, di economia, di guerra o di privilegi.
Un mio problema in tutti i sensi racchiuso nella formula chiamata “atteggiamento nimby” – not in my back yard, non nel mio giardino.
Esso consiste nel riconoscere come necessari, o possibili, gli oggetti del contendere, ma contemporaneamente, nel non volerli nel proprio territorio a causa delle eventuali controindicazioni sull’ambiente locale.
Per concludere la modernità si sta figurando secondo tre direttrici fondamentali:
L’interconnettività globale.
L’accelerazione, senza precedenti, dell’evoluzione degli stili di vita.
Le trasformazioni ecologiche globali dovute all’interazione dei fattori evolutivi, sociali, culturali, economici e tecnologici.
Tutto questo sarà compatibile osservano gli “organismi internazionali”, se:
Miglioreranno le condizioni di vita. Ancora oggi almeno il venti per cento della popolazione globale vive in condizioni di povertà estrema.
Se cresceranno le aspettative di vita alla nascita e se si saprà gestirle. (L’aumento della vita media, infatti, crea dei forti problemi sociali ed economici, come dimostra in Italia la discussione sulle pensioni d’anzianità.)
Se saranno risolti il problema dell’alfabetizzazione e quello dell’emancipazione delle donne e dei più deboli in genere.
Se sarà realizzato un accesso diffuso ed economico ai mezzi di comunicazione.
Se cresceranno il “prodotto interno lordo” dei paesi industrializzati e le istituzioni democratiche dei paesi delle zone povere.
Se le tensioni sociali non si trasformeranno in un rifiuto al cambiamento.
Infine, ma non da ultimo, se non proseguirà a questa velocità la rottura degli equilibri naturali e climatici.
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Appendice due.
Una piccola finestra sulla pubblicità.
All’inizio del Novecento, come abbiamo già detto, la pubblicità migliora le sue strategie operative ed aggiunge nuovi significati al suo messaggio.
infatti, la crescita quantitativa dell’offerta di beni e servizi spingeva sempre di più i produttori a ricercare degli strumenti di competizione diversi dal prezzo, anche se spesso di difficile gestione, strumenti basati soprattutto su fattori immateriali.
La pubblicità smise di essere un accessorio contingente nel meccanismo della vendita e divenne per le aziende che producevano beni e servizi di largo consumo un ulteriore elemento di conoscenza da offrire al consumatore e di contatto con il mercato in genere.
Questa conoscenza o era inglobata nel prodotto stesso, in questo caso consisteva soprattutto di etichette ammiccanti, di imballaggi di qualità e prestigio, di foglietti d’istruzione sapientemente redatti in modo da fidelizzare, come si dice oggi l’acquirente.
Oppure, questa conoscenza era fatta giungere al consumatore per vie esterne.
Per posta, attraverso i giornali, le affissioni stradali, gli annunci radiofonici, eccetera.
Erano forme di conoscenza oggettivamente in concorrenza tra di loro, perché ogni produttore cercava d’inventare una propria strategia operativa, e esse avevano un unico scopo, agganciare l’attenzione del pubblico che consumava e spingerlo a consumare di più, anche attraverso una sapiente gestione dell’obsolescenza psicologica dei prodotti.
Possiamo dire che l’apparato analitico che il mondo della pubblicità costruì nel giro di una generazione, tra l’inizio del secolo e gli anni trenta, rappresenta una suggestiva innovazione concettuale nell’ambito delle strategie per vendere o incrementare i consumi.
Per la prima volta nella storia della comunicazione commerciale, attraverso una sistematica raccolta di opinioni, le idee correnti e gli stereotipi della gente comune venivano interrogati, analizzati, classificati ed usati al fine di aumentare le vendite.
In altri termini, le motivazioni, le intenzioni, e i sentimenti che la sociologia aveva sempre interpretato dal punto di vista della persona, venivano esplorati anche sul piano collettivo ed usati nell’opera di persuasione a fare o a non fare determinate cose, ad assumere o a non assumere determinati comportamenti.
Come è facile intuire queste circostanze segnarono la nascita della ricerca sociologica sul campo che da questo momento e fino alla fine del ventesimo secolo caratterizzerà la sociologia americana.
Sul piano della psicologia sociale furono progressi giganteschi e pericolosi, perché si ottennero penetrando nell’intimità degli individui, cioè, nella loro individualità.
Il pudore, infatti, non è una faccenda di centimetri di stoffa in più o in meno, ma una sorta di vigilanza su noi stessi che decide del grado di apertura o di chiusura verso l’altro.
Queste ricerche, in sostanza, nell’esplorare la personalità degli individui, finirono per renderla pubblica con il risultato di alterare le forme di pudore e di omologare le forme dell’intimità.
Come si può vedere, c’è una relazione molto stretta tra pubblicità e spudoratezza!
Apriamo una parentesi.
Alcune ricerche sugli schemi comunicativi interpersonali furono svolte, negli anni ’60 dalla cosiddetta Scuola di Yale, in particolare intorno al tema della persuasione.
Esse si riallacciano alle ricerche empiriche compiute, dopo la fine della prima guerra mondiale, per stimolare il mercato dei beni e dei servizi di largo consumo, mentre la loro ripresa deriva dal rinnovato interesse per il problema della comunicazione che si diffuse dopo la seconda.
I finanziamenti pubblici che ricevettero contribuirono a rendere queste ricerche particolarmente accurate e ampie.
Abbiamo visto come un messaggio si componga di una fonte, del messaggio vero e proprio e di un ricevente.
Questi tre elementi, dal punto di vista della persuasione, pongono tre interrogativi.
Sulla fonte: Qual è l’effetto della sua credibilità?
Sul messaggio: Come deve essere strutturato un messaggio per essere persuasivo?
Sul ricevente: Quali sono le persone più facilmente influenzabili?
Qual è la sostanza delle motivazioni che stanno dietro questi interrogativi?
Uno. La comunicazione persuasiva ha leggi sue proprie.
Vale a dire, ci sono comunicazioni che hanno a che fare con quesiti che non possono essere risolti attraverso l’osservazione diretta e che presentano delle conclusioni rispetto alle quali si possono sollevare opinioni diverse.
C’è una distinzione, infatti, tra atteggiamenti ed opinioni.
Le opinioni, in genere, sono risposte verbali o scritte delle quali emerge qualche questione generale. Gli atteggiamenti sono risposte implicite strettamente legate alle opinioni che orientano l’individuo.
Due. Le opinioni al pari delle abitudini derivano dall’apprendimento e tendono ad essere mantenute fino a quando l’individuo non vive o subisce un esperienza di apprendimento diversa.
Tre. Perché una nuova opinione sostituisca quella di cui l’individuo già dispone è necessario che essa venga associata ad un vantaggio o ad un incentivo.
In questo schema, da dove deriva la credibilità del comunicatore, cioè della fonte?
Per chi riceve il messaggio la credibilità deriva da tre elementi, la conoscenza, l’affidabilità e la veridicità.
Quanto al messaggio i ricercatori di Yale partirono dal presupposto che l’argomentazione a sostegno di una tesi o metteva in luce i vantaggi legati all’adesione a questa tesi, oppure gli svantaggi della non-adesione.
Le ricerche verificarono che, quando un individuo è esposto ad un messaggio contenente delle minacce per il Sé, per esempio, se fumi raddoppi la tua probabilità di morire di cancro ai polmoni, vengono sempre indotte reazioni emotive spiacevoli, con il risultato che l’individuo diventa fortemente motivato a prendere in considerazione delle risposte diverse fino a quando non trova quella che riequilibra lo stato emotivo negativo.
La cosa più sorprendente fu lo scoprire che l’appello alla paura più è elevato e più induce ad una maggiore tensione emotiva nell’audience, ma la più forte influenza sul comportamento, nella direzione desiderata da chi emette il messaggio, si ottiene quando l’appello è debole, non solo, il risultato così provocato è anche più stabile nel tempo.
I ricercatori scoprirono che un appello forte provoca uno stress emotivo talmente intenso che pur di alleviare la tensione i riceventi del messaggio tendono ad ignorarlo o a minimizzarlo.
Esattamente il contrario delle strategie adottate per ridurre il numero dei fumatori utilizzando delle
scritte di sapore intimidatorio stampate sui pacchetti di sigarette.
A distanza di qualche anno si vede come esse non hanno inibito più di tanto i fumatori che reagiscono maggiormente ad altri stimoli, per esempio, alla penalizzazione del vizio attraverso l’aumento del prezzo dei pacchetti di sigarette o la disapprovazione sociale.
I malevoli dicono che tutto ciò era prevedibile considerato che chi ha fatto le campagne promozionali contro il fumo sono gli stessi che fanno le campagne promozionali indirette per promuoverlo.
A proposito del ricevente si scoprì che la comunicazione che illustri i vantaggi che derivano dall’accettazione di una data posizione può risultare persuasiva soltanto in relazione alle motivazioni personali del ricevente.
Fu notato anche che, dal momento che gli individui vivono generalmente in gruppi, il livello di resistenza al cambiamento dipende spesso dall’attaccamento che un individuo ha rispetto al gruppo di appartenenza, più di quanto non dipenda da alcuni caratteri della personalità come l’autostima, l’aggressività, l’intelligenza.
Va da sé, allora, che conviene agire soprattutto sul gruppo di appartenenza dei soggetti che interessano la fonte che emette il messaggio, piuttosto che sul singolo individuo, anche se è evidente che lo stato d’animo contingente al momento in cui si riceve il messaggio può influenzarne l’efficacia in un senso o nell’altro.
Per concludere, va anche osservato che queste ricerche, nate per incrementare i livelli di produzione dei beni di consumo, sono anche quelle che faranno fare,con i loro massicci investimenti finanziari, passi da gigante alla teoria della ricerca sociologia, alla microsociologia e alle tecniche sociometriche.
Il giudizio che oggi la sociologia ha sulla pubblicità è radicalmente diverso.
Essa è accusata di creare conformismo e di contribuire a costruire falsi bisogni, un giudizio ambiguo, considerato che certe ricerche sociologiche sono sostenute dai capitali che orbitano intorno al mercato dei beni di consumo.
In dottrina possiamo affermare che la pubblicità crea conformismo, alimenta gli stereotipi della vita banalizzata e fabbrica falsi bisogni nel tentativo di aumentare i bilanci di spesa moltiplicando le offerte di gadgets e di merci superflue.
Lo aveva notato, con molta ironia più di un secolo fa Oscar Wilde, quando affermava che nulla più del superfluo è assolutamente necessario.
Nel libro, Le chewing-gum des yeux, Ignatio Ramonet, un sociologico sudamericano, ex-direttore di Le Monde diplomatique, scrive:
“Gli spots vendono sogni, essi propongono delle scorciatoie simboliche per l’ascensione sociale, essi diffondono prima di tutto dei simboli e stabiliscono un culto dell’oggetto, non per il servizio pratico che può offrire, ma per l’immagine che permette ai consumatori di darsi di loro stessi”.
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Appendice tre.
La scrittura e l’evoluzione dei testi scritti.
Riconsideriamo la scrittura per comprendere uno dei paradigmi della moderna comunicazione.
Consideriamo il passaggio dei testi scritti da un uso esclusivamente pubblico ad un consumo anche individuale.
Questo passaggio è stato cruciale, perché costituisce la premessa da cui poi deriverà la funzione sociale di quei particolari oggetti di uso quotidiano come sono i libri, i giornali, le agende e successivamente, per arrivare ai nostri giorni, i dischi, le cassette, i CD rom, i DVD, eccetera…
È un passaggio che storicamente avvenne in concomitanza con la comparsa dei codici, come sono chiamati quei fogli di pergamena piegati ed uniti per il dorso in modo di formare una sorta di quaderno.
La pergamena o, cartapecora, era fatta di pelle di capra o di pecora conciata e lisciata.
Si chiama pergamena perché si pensa che sia apparsa, per la prima volta, a Pergamo, una città dell’Asia Minore, a circa un centinaio di chilometri da Smirne.
Riuniti per il dorso i fogli di cartapecora formavano dei quaderni che, a partire dal secondo secolo dopo cristo, furono usati soprattutto dalle comunità cristiane. Il formato portatile e la leggerezza ne permettevano una comoda consultazione e una facile distribuzione.
Insieme al diffondersi dei codici si verificherà un altro importante evento.
Essi si erano radicati soprattutto nella cultura religiosa cristiana e, di conseguenza, la loro diffusione crebbe soprattutto tra i credenti.
Con il crollo dell’impero romano d’Occidente, seguito a breve da quello di Oriente, e il conseguente periodo di decadenza che si produsse a partire dal V secolo dell’era comune calò drasticamente il numero degli alfabetizzati e, al contempo, si ridusse l’interesse per la lettura.
Questo stato di cose contribuì ad affermare nel corso dell’alto Medioevo una concezione sacra e magica del libro manoscritto.
I codici furono trasformati in una sorta di contenitori d’immagini, molto simili a delle icone e si arricchirono di simbologie e di testimonianze fantastiche.
In altri termini, le raccolte di codici perdettero molto della loro natura di oggetti d’uso e di riflessione, per trasformarsi in segni di fede da ammirare, memorie acritiche di un sapere da inculcare nella coscienza dei fedeli e degli illetterati.
Tutto questo favorì la spinta verso forme di scrittura calligrafica e di redazione sempre più preziose, anche a prescindere dalla loro importanza o veridicità.
In breve questi libri manoscritti, o codici, si riempirono di illustrazioni, divennero raffinati nell’impaginazione, preziosi sotto l’aspetto estetico, con la conseguenza che, in molti casi, si perse l’uso del codice come mezzo di analisi e di riflessione critica.
Si modificò anche il loro aspetto, divennero molto più grandi, persero in maneggevolezza e in praticità, fino a promuovere quello che successivamente è stato definito come una sorta d’infatuazione per di sguardo figurale.
In breve dal punto di vista di una storia della comunicazione sono secoli in cui non ci sono sostanziali progressi nell’editoria, né sotto il profilo dei congegni di comunicazione, né dei contenuti trasmessi.
Sul piano dello sviluppo delle forme sociali questa stagione di analfabetismo diffuso, che durerà qualche secolo, creerà non pochi problemi sia alla diffusione dei saperi e delle informazioni che all’affermazione di nuove forme di pensiero politico sulle forme di governo e dei loro sistemi di rappresentanza, venendo in qualche modo a ritardare il nascere di un pensiero critico sul tema dei diritti civili fondamentali.
Molti problemi di governo e di gestione dell’ordine pubblico furono parzialmente risolti con accorgimenti tecnici, come, per esempio, introducendo l’arte dei sigilli e la colorazione degli inchiostri nella stesura degli atti ufficiali.
L’inchiostro rosso, in genere, segnalava, agli analfabeti, che lo scritto era di un’autorità e dunque che aveva l’imperio di legge ed obbligava all’obbedienza.
Di conseguenza, la detenzione abusiva di sigilli e d’inchiostri colorati era punita con la tortura e la morte per squartamento.
Da questa situazione di stallo si cominciò ad uscire solo con la grande espansione universitaria del tredicesimo e quattordicesimo secolo.
In questo periodo, sia pure lentamente, si riforma un pubblico di lettori.
Per la prima volta, dopo secoli, c’è anche una significativa richiesta di libri di argomento non-religioso, perfino di manuali, e questi libri diventano agili, pratici e consultabili da tutti, senza eccessive difficoltà formali o ideologiche.
C’è da considerare che con il consolidarsi del sapere umanistico e scientifico le nascenti università spinsero sempre più alla lettura e alla libera discussione di testi, che finirono per alimentare un bacino di lettori sempre più grande e favorire la nascita di biblioteche pubbliche.
In questi anni compare anche un nuovo supporto di scrittura, la carta.
Viene dalla Cina ed importata in Europa dagli arabi. Siamo intorno al’undicesimo secolo.
La carta sarà poi fabbricata e migliorata a Fabriano, in Italia, dai maestri fabrianesi.
Questo supporto, comunque, resterà relativamente costoso bisognerà aspettare fino al 1799 prima che la sua fabbricazione diventi intensiva con l’invenzione della macchina a produzione continua.
Fino all’introduzione della carta, infatti, un ostacolo di rilievo alla praticità dei libri era costituito soprattutto dai supporti di scrittura che erano o in pergamena, resistente ma di lunga lavorazione, o in papiro, fragile e costoso.
Un altro problema che condizionava la diffusione dei testi era costituito dal fatto che essi circolavano solo all’interno di specifici organismi, religiosi e amministrativi, dunque, il loro flusso era legato al funzionamento di queste istituzioni.
In breve, fino a quando la produzione dei testi restò legata all’attività degli ordini religiosi e dei loro centri di produzione l’attività editoriale restò sganciata da uno stabile coordinamento tra produzione e consumo.
Con l’avvento dei testi universitari, invece, cominciano a formarsi dei proto–editori.
A questo proposito misurate su un’economia di scala le tirature di questi testi erano sempre relativamente basse e ciò costituiva un serio ostacolo al diffondersi della lettura e, di riflesso, alla possibilità d’imparare a leggere e a scrivere.
Questo quadro rimarrà sostanzialmente immutato almeno fino all’invenzione della macchina per stampare a caratteri mobili, che tradizionalmente si fa risalire a Johann Gutenberg (1400 circa-1468) con la quale, a Magonza nel 1455, stampò un esemplare della Bibbia.
In realtà, fu un’invenzione diffusa, nel senso che in questi anni in molte parti d’Europa furono costruite macchine per stampare. Gutenberg ha solo il merito di essersi fatta una buona pubblicità con un libro da tutti stimato e ritenuto importante.
In ogni modo a partire dal XV secolo, nelle città universitarie, i metodi di produzione dei libri acquistarono una dimensione imprenditoriale stabile.
Essi si affidavano a gruppi di copisti coordinati e di grande fiducia, che consolidarono la figura dell’editore. Per certi versi, si può dire che i libri cominciarono ad essere realizzati in piccola serie.
C’è un altro aspetto di questo problema da considerare e che ritroviamo sostanzialmente immutato, oggi, con internet, quello dell’attendibilità dei testi o dell’aderenza dei testi copiati agli originali.
Erano anni in cui nelle copisterie pullulavano, accanto ai buoni copisti, dei copisti infedeli e per i motivi più svariati, ideologici, religiosi, etici, personali o di superstizione, oppure, semplicemente motivati dal desiderio di diffamare tesi altrui o dimostrare che erano sbagliate.
Erano copisti che inevitabilmente seminavano, con i loro errori, voluti o involontari, o con le loro personali correzioni, seri dubbi sull’autenticità delle fonti.
In questo quadro, la serietà del responsabile della sede di copiatura era fondamentale. Più questo proto-editore era conosciuto e rispettato, più si riteneva veritiera la copia dello scritto, soprattutto se era stato tradotto da una lingua antica o da una lingua poco conosciuta.
Fatte le debite proporzioni questo problema è arrivato fino a noi. Ancora oggi, più un editore è famoso e più noi, istintivamente ci fidiamo del libro che ci vende, soprattutto se l’autore ci è sconosciuto.
È logico tutto questo? Non potrebbe darsi, invece, che il grande editore, che ha problemi di reddito, sia meno interessato a ciò che stampa di un piccolo editore che pubblica solo libri di cui condivide le tesi?
Nel XV secolo poi si verificano due fatti di portata rivoluzionaria.
Il primo è costituito dal formarsi, per i testi universitari, di uno stabile e duraturo mercato della comunicazione.
Il secondo fatto è ancora più significativo, perché il libro costituisce, nella cultura europea, la prima produzione di serie di una certa importanza.
La merce-libro e i suoi mercati cominciarono a diventare un forte elemento di trasformazione della società.
Per verificarlo basta un dato.
Tra il XV secolo e le prime decadi del XVI secolo, nelle quali, come abbiamo visto, la stampa a caratteri mobili fa la sua comparsa, sono stati realizzati più libri manoscritti che in tutto il millennio precedente.
Si può affermare che la stampa, nel XV secolo, portò a termine quella traiettoria connettiva del sapere, attraverso la scrittura, nata in Grecia otto secoli prima di cristo.
Vediamo, ora, qualche effetto, sul piano delle relazioni sociali, che segue all’introduzione della stampa.
Uno. Assistiamo al passaggio da un mondo dominato dalla differenza – da attività originali e irripetibili – ad un mondo dominato dalla regolarità.
Di conseguenza da una sostanziale discesa dei prezzi di molti beni e servizi.
Questa idea di una uniformità ripetibile finirà per diffondersi nella società favorendone la sua organizzazione e il suo sviluppo, soprattutto, attenuando gli effetti di una certa anomia sociale che la dominava.
Due. Aumenta la varietà dei prodotti di comunicazione, in ognuno dei quali si materializzano specifici contenuti cognitivi.
Tre. Il mercato tende sempre di più a diventare la forma economica che regola, sotto i più svariati aspetti, la grande maggioranza degli scambi comunicativi.
Quattro. Divenne abituale (soprattutto nelle città più sviluppate da un punto di vista culturale, come sono quelle che hanno sedi universitarie) la circolazione di nuclei interpretativi del mondo, in particolare di quelli che riguardavano la politica, il costume e le leggi.
Questi nuclei interpretativi del mondo, spesso in aperta concorrenza tra di loro, favoriranno i cosiddetti mercati delle ideologie, dando vita ad una vera e propria arte sull’interpretazione dei fatti, soprattutto quelli storici e politici.
Per capire che cos’è un mercato delle ideologie basta pensare all’informazione sportiva, come è facile constatare dietro a delle semplici performances da anni si è formato un mercato delle notizie fondato sulla polemica, che gira capitali ingenti, spesso legati al mondo della finanza e della politica.
C’è d’aggiungere che, a partire dal XVII secolo, l’acquisto di libri, che fino a questo momento era abbastanza episodico e slegato nel tempo, con l’aumento della produttività e il crescente interesse per la lettura rompe il vincolo dell’episodicità.
Comparve l’acquisto di flusso, come dicono gli esperti di marketing, cioè l’acquisto che si ripete nel tempo e con questo, si moltiplicarono le biblioteche pubbliche e comparvero le prime grandi biblioteche private.
Che cosa consegue a tutto questo?
Uno. Che i testi scritti, qualunque sia la loro tipologia, cominciarono ad essere scambiati sulla base del prezzo di produzione e non del loro contenuto.
Due. Che il prezzo rese possibile il calcolo economico e la pianificazione della produzione.
Sempre sotto l’aspetto dei fatti sociali, si constata anche che l’informazione genera valore circolando.
Ciò non toglie che, per la natura stessa dell’informazione, cominciarono a svilupparsi anche dei contenuti cognitivi che hanno interesse a restare riservati e segreti.
Basti pensare alla riservatezza che circondano i nuovi procedimenti industriali, certe particolari attività artigianali, i documenti contabili, i testamenti, gli accordi riservati tra le diplomazie, eccetera.
Sono casi, come è facile intuire, in cui l’informazione ha valore solo se resta circoscritta a pochi.
Oggi, questa dialettica tra ciò che può essere divulgato e ciò che deve restare riservato, se non addirittura segreto, è diventata una parte integrante delle strategie dell’informazione, fino a punto da aver dato vita alla scienza della disinformazione, come arma per combattere gli avversari, in guerra, nelle competizioni finanziarie ed economiche, nella gestione delle notizie politiche.
In ogni modo, come principio generale diciamo che, quanta più informazione circola tanto maggiore è il valore che essa può generare.
È un principio che ha sorretto fino ad oggi le strategie relative alla diffusione dei contenuti cognitivi.
La prima strategia è quella che opera sull’asse spaziale, cioè, quella che punta ad incrementare il raggio di azione, di vendita e di consumo dell’informazione.
La seconda strategia di valorizzazione, invece, opera sull’asse temporale.
Essa mira a gestire, riducendolo, l’intervallo di tempo che separa la fonte cognitiva dal consumatore.
Nel caso della carta stampata è come dire che ci sono prodotti editoriali che mirano ad espandersi sul territorio, perché i loro contenuti non sono durevoli, come succede con i quotidiani.
Così come ci sono prodotti editoriali che agiscono nel tempo, perché i loro contenuti non sono effimeri, sono o dovrebbero essere i libri di un certo valore culturale.
Nell’ambito dell’informazione attraverso i giornali, infatti, il valore della conoscenza deriva da una duplice radice: la tempestività e la diffusione capillare.
Senza il requisito della tempestività, soprattutto oggi, il valore dell’informazione per un quotidiano, come è intuitivo capire, è uguale a zero.
La crisi che questi prodotti stanno attraversando nasce proprio da questo problema, dalla concorrenza che muovono loro i mezzi di diffusione telematica delle informazioni e delle notizie.
Un’osservazione.
Da un punto di vista sociologico questo incremento delle capacità operative dei congegni connettivi, posta, libri, opuscoli, giornali, eccetera, si rivelerà, tra le altre cose, un elemento essenziale per il perfezionamento della macchina dello Stato, in particolare, della sua centralizzazione che vedrà, da lì a poco, il suo trionfo, nella forma di nazione.
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