IDENTITÀ E FORME ALIMENTARI
Il reale è dapprima un alimento.
Gaston Bachelard
“Dire e con.dire”. Il paradigma alimentare, come racconto, storia e destino dell’uomo, costituisce da sempre un importante strumento di produzione e rappresentazione dell’immaginario sociale e, insieme, un’efficace metafora visuale e progettuale delle sue espressioni culturali ed artistiche.
Intorno al cibo, infatti, da tempo immemorabile, si è costruita la storia sociale degli uomini, si è plasmato sia il gusto che li guida che una parte notevole della loro sensibilità espressiva e sensoriale.
Si sono configurate le forme materiali della cortesia, della cerimonia, della socialità e le strategie di soggettivazione del mondo.
Questo importante paradigma confluisce oggi, da una parte, nei food studies, come punto di approdo degli aspetti antropologici, psicologici e sociologici dell’alimentazione, nei consumption studies, votati ad analizzare le logiche, le pratiche, le geografie dei consumi, della fame, della denutrizione, ma soprattutto nei foodscapes, vale a dire nei paesaggi estetici dentro i quali la società moderna cerca di ridisegnare le sue prospettive, delineare le sue nuove identità, comprendere i fenomeni delle mode allo stato nascente.
Dall’altra, sulla spinta delle rinnovate tendenze creative tratteggiate dalle poetiche e dalle tecnologie dell’immateriale, è diventato una parte importante della produzione simbolica della modernità, intrecciandosi con gli originali saperi della comunicazione visuale e con le loro inedite sintassi.
Gli atti alimentari che compongono questo paradigma sono dunque l’aspetto sensibile dei cambiati scenari in cui si formano gli stili di vita, si condensano le loro rappresentazioni cognitive e si esplorano le problematiche per una società più giusta.
Partiamo da una affermazione gnoseologica:
GLI ATTI ALIMENTARI SONO STRUTTURATI COME UN LINGUAGGIO.
Osserviamo in essa una concomitanza importante:
Il compimento del lungo cammino che ci ha portato al linguaggio e alla gestione del fuoco, per la cottura dei cibi, datato pressappoco dello stesso periodo.
Trecentomila anni fa.
Gli atti alimentari – che si strutturano come un linguaggio simbolico possiedono oltre ad una storia e ad una tradizione:
– un patrimonio lessicale.
– una grammatica, con la quale possiamo studiare la loro morfologia, cioè il loro diventare una forma e, quindi, una struttura.
– una sintassi, vale a dire, delle regole di composizione delle parti che li compongono. Regole artificiali, cioè, frutto dell’artificio con le quali diamo un senso all’agire e alle sue procedure.
– una logica che, per quanto ci riguarda, significa che possono essere studiati e compresi razionalmente.
In termini funzionali, dal fatto che gli atti alimentari abbiano una loro logica, ne deriva che possono essere trattati come se fossero scientifici nelle forme e nelle leggi che li regolano.
Questo sia sul piano meramente nutrizionale, che culturale.
In sostanza, al pari di un linguaggio, le forme cucinarie possiedono un lessico – rappresentato dai prodotti e dagli ingredienti – questo lessico può essere organizzato secondo delle disposizioni grammaticali che contribuiscono a “delineare” le prescrizioni o, in termini più descrittivi, le ricette.
Infine e non da ultimo gl’atti alimentari possiedono una retorica che si invera soprattutto nei comportamenti cerimoniali, unaretoricanella quale si riflettono e si formano, anche se spesso in modo inconsapevole, le tradizioni, le abitudini, gli stili di vita.
Dicendo retorica intendiamo dire un complesso di regole che contribuiscono a dar loro un significato.
L’analogia cucina-linguaggio è un assioma ben conosciuto.
Partiamo da una osservazione evidente. Tutti gli uomini parlano delle lingue differenti.
Nello stesso modo, tutti gli uomini mangiano, ma mangiano secondo cucine differenti.
La parola chiave è differenti.
Differenti vuol dire che le cucine costituiscono, di fatto, un insieme di disposizioni e procedure implicite di cui, in genere, non ne abbiamo una consapevolezza diretta quando ci appartengono ma, di contro, s’impongono alla nostra evidenza quando ci sono sconosciute.
Questa ignoranza può suscitare ansia, anche se il più delle volte produce degli effetti comici, così come può suscitare disgusto o riprovazione.
Questo perché come sappiamo bene lo straniero o, noi stranieri altrove, siamo rassicurati quando possiamo vedere il cibo.
In Italia sarebbe inconcepibile condire gli spaghetti al pomodoro con lo zucchero, anche se in Oriente è nel nord d’Europa è un abitudine.
Logica? Certamente, se partiamo dal principio che sono carboidrati con l’aggiunta di zucchero.
In un paese che non conosciamo potremmo, per ignoranza dei costumi alimentari, produrre ilarità ordinando pietanze in contraddizione tra di loro o, ed è più grave, sollevare riprovazione violando delle norme che derivano dalle convinzioni religiose, come nel caso ordinassimo dell’arrosto di maiale in un paese islamico.
C’è un’altra osservazione per restare nell’ambito dell’analogia cucina-linguaggio.
Noi non facciamo mai caso al fatto che mangiamo secondo una grammatica e una sintassi alimentare interiorizzate fin dalla più giovane età.
Una cucina, dunque, non è solo un insieme di ingredienti e di tecniche applicate al fine di preparare un alimento, ma anche e soprattutto un complesso sistema di norme e di regole implicite ed esplicite, sempre in continuo mutazione, che strutturano le rappresentazioni e i comportamenti.
Ma c’è di più.
Gli atti alimentari possiedono una loro semiotica, vale a dire si compongono di segni che si possono interpretare e di simboli, ad essi relativi, da cui deriva un’importante funzione simbolica che coinvolge spesso anche la sessualità e le forme della religione e del costume.
Ma che cosa vuol dire che gli atti alimentari si compongono di segni?
I segni,nel nostro caso, sono dei fenomeni sensibili o, meglio degli elementi dell’interpretazione con i quali possiamo conoscere, riconoscere, prevedere, ipotizzare, sia sulla scorta delle nostre conoscenze acquisite che di studi specifici.
Il colore rosso sulla buccia di certe specie di mele significa che esse sono mature e ricche di zuccheri.
Una coloritura grigiastra che tende al nero o al marrone intorno alla spina dorsale del pesce cucinato che abbiamo nel piatto, ci rivela che non era fresco, ma surgelato, perché questa coloritura deriva dalla rottura delle cellule, cioè, alla mortificazione del tessuto dovuta al ghiaccio che in esse si è formato e che a parità di peso ha un volume maggiore del liquido cellulare.
In Andalusia si appendono i prosciutti al soffitto dei bar e dei ristoranti.
È un’antica tradizione che ci ricorda come la presenza di questa preparazione alimentare, realizzata con la stagionatura della carne di maiale, servisse a distinguere i locali frequentati dai cattolici da quelli degli arabi e degli ebrei a cui è interdetto il consumo di carne suina.
Così, sempre in Andalusia, se qualcuno al tempo di Isabella di Castiglia, diciamo alla fine del quindicesimo secolo, ci avesse invitato a colazione di sabato e ci avesse servito dell’adafina – che è uno stufato di agnello e ceci, con cipolla, rape, cannella, noce moscata e qualche volta uova sode – avremmo capito di essere in casa di un ebreo sefardita (Sefarad in ebraico significa Spagna), perché questa preparazione alimentare si cucina il venerdì sera e si tiene al caldo con coperte o panni di lana, in cantina o in appositi armadi, per essere consumata durante lo Shabbat.
…e sapremmo anche, ma questa è un’altra storia. Che una delle più belle e tolleranti stagioni della storia europea stava per finire.
Non per caso, ma per disprezzo nei lager nazisti adafina era chiamata la broda riservata degli ebrei.
Torniamo ai segni.
In semiologia possono essere naturali o convenzionali.
Charles Peirce (1839-1914), che con William James rappresenta uno dei protagonisti di quella corrente di studi filosofici che va sotto il nome di pragmatismo, nei suoi studi distingue tre tipi di segno, l’icona, l’indice, il simbolo.
Tutti e tre contribuiscono alla significazione, vale a dire, concorrono a costruire una relazione tra significante e significato.
Il simbolo, in particolare, si può definire il segno figurativo di un’idea astratta, ovvero l’aspetto materiale di un’astrazione, perché è con i simboli che costruiamo la rappresentazione materiale di un concetto o di una sensazione che non sapremmo esprimere altrimenti.
Da questo punto di vista, il successo mercantile di San Valentino, come festa degli innamorati, è facilmente spiegabile se pensiamo ad un fiore o ad una scatola di cioccolatini come simbolo di un amore che troveremmo difficile esprimere o ci vergogneremmo da esternare senza ricorrere a qualcosa che è condiviso culturalmente.
In sostanza, gli atti alimentari sono un immenso catalogo di segni da cui derivano simboli e forme cerimoniali più o meno storicizzati e culturalmente rilevanti sia sul piano della socialità che della conflittualità.
Simboli è forme che, a loro volta, formano un paradigma consolidato.
Vediamo in breve come si è formato nel corso della storia questo paradigma, risalendo il percorso compiuto dagli studi di antropologia sull’alimentazione nel corso di quest’ultimi tre secoli.
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Prima proviamo a definire che cos’è un paradigma.
Il termine è stato recentemente introdotto nella sociologia e filosofia della scienza per indicare quel complesso di regole metodologiche, modelli esplicativi, criterî di soluzione di problemi che caratterizza una comunità di scienziati in una fase determinata dell’evoluzione storica della loro disciplina: a mutamenti di paradigma sarebbero in tal senso riconducibili le cosiddette «rivoluzioni scientifiche.
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En passant.
Abbiamo detto che gli atti alimentari sono strutturati come un linguaggio.
Non è un’idea nuova, ne erano convinti, sia pure su un diverso registro, i filosofi e i viaggiatori.
Tra i primi che lo hanno affermato con convinzione va ricordato James Boswell (1740 -1795) un giudice scozzese che amava i viaggi e i diari.
Nel 1785 pubblicò un Diario di un viaggio alle Ebridi. (Sono un esteso gruppo di isole al largo della costa occidentale della Scozia.) In questo diario si può leggere questo passo:
La mia definizione di uomo è animale che cucina.
Le bestie hanno in qualche misura memoria, discernimento e ogni altra facoltà e passione racchiusa nella nostra mente, ma nessuna bestia cuoce (…) solo l’uomo è in grado di preparare un piatto come si deve e, ogni uomo – a prescindere che sia più o meno bravo a cucinare – insaporisce ciò che mangia.
All’inizio, gli studi sociali sul cibo, in Europa, riguardano soprattutto i consumi alimentari.
Il primo di una certa importanza, risale alla fine del ‘700, è di un pastore anglicano, David Davies, che studia il flagello delle fluttuazioni nell’occupazione manifatturiera e si preoccupa di capire come si nutrivano i poveri e i disoccupati.
Per farlo realizza un’inchiesta tra un centinaio di famiglie della periferia londinese che l’industria tessile aveva gettato sul lastrico.
Qualche anno più tardi, nel 1797, una manciata di anni dopo la Rivoluzione Francese, esce un libro dell’inglese Frederick Morton Eden (1766-1809), baronetto per nascita, s’intitola The State of the Poor.
Eden si definiva un investigatore sociale, oggi diremmo che è stato un ricercatore e uno scrittore sociale. Lasua inchiesta, che mette in luce le contraddizioni sociali e politiche del nascente capitalismo industriale, è da tutti definita ampia ed onesta e per anni ha costituito la fonte dei dibattiti su questo tema.
Lostesso Karl Marx lo definisce un allievo intelligente di Adam Smith, l’economista scozzese autore di La ricchezza delle nazioni.
Conoscendo la storia materiale possiamo dire che gli studi sull’alimentazione nacquero in Inghilterra con la decapitazione, nel gennaio del 1649, di Carlo I° Stuart, cioè con la nascita dell’industria manufatturiera.
Sono studi che confluirono anche in un’altra disciplina nascente, la sociologia dei consumi.
Una disciplina che studia e registra una mutazione ben più complessa di cui oggi vediamo in pieno le conseguenze: quella che trasforma i cittadini in consumatori, classificandoli secondo il loro reddito.
Una mutazione che cambia profondamente lo status dei cittadini in ordine ai processi valoriali, alle loro libertà, diritti e doveri.
Una seconda via, che porterà ad elaborare una teoria ed una critica dei processi alimentari, è costituita dagli studi epidemiologici, in particolare quelli sull’igiene sociale.
Sono studi che mettono in luce un’influenza degli stili di vita sulla morbilità, vale a dire, sull’impatto che le malattie hanno sulla popolazione.
Su questi studi, poi, c’è da considerare l’importante contributo dovuto al diffondersi degli strumenti di una nuova disciplina, la scienza statistica che mette in rilievo, enucleandoli, i fatti sociali e le loro cause.
Ricordiamo, a questo proposito, le ricerche di Alphonse Quetelet (1796-1874), astronomo e statistico belga, che con esse esercitò una forte influenza sul pensiero di Émile Durkheim, il padre della moderna sociologia.
Di Quetelet si è detto che fece diventare la statistica una scienza sociale.
Di questo studioso si ricorda spesso una frase sul potere di previsione degli studi statistici:
“Possiamo dire in anticipo – egli scrisse – quanti individui si macchieranno le mani col sangue dei loro simili, quanti saranno i truffatori, quanti gli avvelenatori. Possiamo predirlo quasi come possiamo predire le nascite e le morti che avranno luogo…” . (1830)
Un altro autore di indubbio interesse è Ernst Engel (1821-1896), un economista tedesco che ha dato il nome ad una legge che dedusse dallo studio dell’analisi di spesa di circa duecento famiglie belghe condotto da Eduard Ducpétiaux.
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Antoine Édouard Ducpétiaux era un giornalista belga e massone. Nel 1827 ottenne il dottorato all’Università di Gand, e fu ammesso all’insegnamento a Bruxelles l’anno successivo. Divenne noto come oppositore della pena di morte e fervente difensore della libertà di stampa. Si occupò di carità sociale. _______________________________________________________________________________
Questa legge afferma:
La proporzione del reddito destinato all’alimentazione diminuisce quando il reddito aumenta. Ciò vuol dire che l’elasticità della domanda rispetto al reddito è inferiore all’unità.
La Legge di Engel è una delle leggi tra le più note e universali dell’economia.
Può essere applicata sia ai paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo, anche se può mostrare forme di elasticità diverse.
In parole semplici possiamo dire che, quando il reddito e il potere d’acquisto salgono, anche il bilancio alimentare cresce in valore assoluto, ma – in percentuale – la sua parte relativa, nel bilancio complessivo, diminuisce.
Dopo Durkheim e grazie alle sue ricerche sulla fondazione del discorso sociologico, gli studi sull’alimentazione diventeranno studi sociali ed essi, anche a seguito di questo mutamento, cominceranno a crescere d’importanza.
In altri termini, gli atti alimentari possono essere configurati, dal punto di vista della sociologia, come un’istituzione.
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In dottrina le istituzioni possono essere definite come dei sistemi relativamente stabili di relazioni, sorretti da norme specifiche che assolvono a funzioni e interessi della vita sociale come tale.
In generale un’istituzione assolve ad un triplice compito:
– Concorre ai processi di socializzazione, cioè, ad interiorizzare le regole di condotta.
– Consente il controllo sociale. Vale a dire regola l’area dell’approvazione della riprovazione e/o delle sanzioni.
– Partecipa alla formazione dei principi che regolano la sociabilità. Vale a dire delle norme che rendono prevedibili ed accettati i comportamenti individuali.
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Nella fattispecie degli atti alimentari, possiamo osservare che il pasto familiare, per la borghesia, ha sempre avuto un suo sistema normativo molto preciso che comporta, se viene rispettato, un’approvazione benevola, mentre, in caso di trasgressione, induce alla riprovazione.
Va da sé, oggi, nel mondo terziarizzato le cose sono cambiate, il pasto, come cerimonia sociale, si è frantumato e ricomposto in modi differenti, ma le sue ragioni sopravvivono in molte occasioni, negli anniversari civili, in quelli religiosi, così come in molte parti del mondo, nella cultura contadina o tribale.
Questo è uno dei percorsi, tra gl’altri, con il quale i minori (in pratica i bambini) interiorizzano le regole dell’educazione, i valori nutrizionali e i valori della pulizia, così come il rispetto dei commensali e la condivisione dei ruoli, imparando ad apprezzare le cerimonie conviviali.
Uno dei primi ricercatori, di quella che potremmo chiamare l’antropologia alimentare, è Audrey Isabel Richards (1899-1984), allieva di Bronislaw Malinowski.
La Richards è stata una vera pioniera di questi studi.
In una indagine sul campo presso alcune popolazioni del Sud Africa, in particolare tra i Bambas del nord della Rhodesia, sviluppò una tesi, oggi largamente diffusa.
Questa tesi definisce l’alimentazione un processo vitale fondamentale, sia considerato di per sé che per i suoi legami con la sfera sessuale e culturale.
Negli anni subito dopo la seconda guerra mondiale, nel 1945, Margaret Mead (1901-1978), una delle più celebri antropologhe americane, allieva di Franz Boas ed esponente della corrente culturalista, autrice, tra l’altro, di un Manuale per lo studio delle pratiche alimentari, riprese e sottolineò l’importanza degli aspetti socio-culturali e psicologici dell’alimentazione.
La Mead dimostrò che l’atto alimentare s’inscrive non soltanto in un contesto naturale, ma anche e soprattutto in un contesto sociale.
Successivamente la corrente strutturalista, nella quale si distingue il lavoro del suo fondatore, Claude Lévi-Strauss, mise in luce la complessità delle strutture culturali legate all’alimentazione, indicandole tra le matrici fondative dell’ordine e dei modelli sociali che viviamo.
Partendo da questi presupposti, un’altra donna antropologa, l’inglese Mary Douglas (1921-2007), una ricercatrice delle forme e dei significati simbolici delle religioni, ha poi studiato l’alimentazione come un vettore di comunicazione.
In pratica, come un vero e proprio linguaggio la cui struttura può essere compresa per mezzo di una grammatica adeguata che tenga conto del fatto che nutrirsi è, allo stesso tempo, un atto simbolico, un’azione biologica e un comportamento sociale.
In uno dei suoi libri più famosi, Purity and Danger: An analysis of Concept of Pollution and Taboo, del 1966, la Douglas ha dimostrato come il disgusto non è quasi mai un processo reattivo individuale, ma è una conseguenza dalle regole culturali, sociali e religiose apprese.
Dunque, è un importante marcatatore delle somiglianze e delle differenze culturali.
Ricordiamo, ancora, tra i tanti, Pierre Bourdieu (1930-2002), uno dei padri della sociologia francese, che mise in luce gli aspetti violenti del potere del simbolico sulla vita corrente.
Partendo dalle osservazioni della Douglas egli studio il carattere classista che agisce sulla formazione del gusto, mostrando che questo si forma e dipende direttamente dall’origine sociale di colui che mangia. Ciòimplica che il gusto, più o meno consapevolmente, riproduce la condizione di classe.
Oggi,in un’epoca di forti flussi migranti, si tende ad “impadronirsi”di questo potere del simbolico politicizzandolo, perché con il moltiplicarsi di tali flussi è diventato un tema sensibile capace di dilaniare la dicotomia tra le culture locali e le culture dei migranti, fino ad esacerbarne il senso e a banalizzarne la complessità.
Basta vedere quello che avviene nell’area che abitiamo, la pianura Padana, con la polemica tra la polenta e il cous-cous, dietro cui si vuole mascherare i nuovi scontri di classe.
In altri termini, gli stili di vita concorrono a formare e rafforzano lo statu quo dei rapporti sociali, in particolare quelli che coinvolgono le abitudini alimentari.
Come concludere?
Che il cibo si è rivelato, agl’occhi degli antropologi, come un efficace strumento – sia attivo che passivo – di classe e di discriminazione socio-culturale.
In sub ordine, quanto più numerosi sono gli status, cioè, le posizioni sociali che formano il meccanismo della stratificazione sociale, tanto maggiore è la varietà degli atti alimentari.
In sede accademica la ripresa, nel secondo dopoguerra, degli studi teorici sul tema dell’alimentazione, considerata in tutte le sue implicazioni culturali, artistiche, politiche, antropologiche e nutrizionali, ha avuto inizio in Europa con la pubblicazione del numero 31 della rivista francese Communications, nel 1984, interamente dedicato a questo tema.
Dobbiamo aggiungere che a questa ripresa non è estranea quella tendenza cucinaria definita come nouvelle cuisine che ha agito da volano ad accrescere la percezione “culturale” – soprattutto artistica – degl’atti alimentari.
La direzione di questo numero monografico di Communications era stata affidata a Claude Fischler (oggi, direttore del “Centro nazionale francese per la ricerca scientifica”, con la supervisione di Edgar Morin, sociologo e filosofo, con il quale Fischler aveva fondato, nel 1970 un “Groupe de diagnostic sociologique”.
Di Fischler in italiano è stato tradotto il libro, L’Homnivore. Le goût, la cuisine et le corps.
In quest’opera Fischler mostra come coloro che mangiano elaborano un sistema classificatorio di ciò che è consumabile e di ciò che non lo è.
Un sistema che lungi dall’essere funzionale rinvia a delle rappresentazioni che sono proprie dell’immaginario e dell’educazione sia religiosa che di classe.
Ne consegue che mangiare non significa soltanto incorporare degli alimenti, ma anche delle qualità simboliche e magiche secondo il noto principio che io divengo ciò che mangio.
Questa ripresa degli studi sull’alimentazione e gli atti alimentari corre parallela ad una constatazione, anche di ordine socio-economico, specifica del mondo occidentale, vale a dire, oggi, soprattutto in Europa, in Giappone e negli Stati Uniti, le funzioni cerimoniali degli alimenti sono diventate più importanti del loro valore nutritivo, accentuando le differenze con i paesi della fame.
Sotto un altro aspetto questo vuol dire anche un’accresciuta importanza dell’aspetto comunicativo di questi atti.
Prima di proseguire ricordiamo anche alcuni studi a latere,come sono gli studi sulle filiere degli atti alimentari e su quel intreccio con i sistemi dietetici che esaltano la linea come un carattere morale.
Quanto agli studi sulle filiere sono una metodologia per affrontare le politiche nutrizionali, i sistemi di distribuzione e la conoscenza degli alimenti. Oltre a rappresentare un modo narrativo per parlare della fame nel mondo.
Ne è stato un pioniere Kurt Lewin (1890-1947), uno psicologo tedesco, uno dei fondatori della psicologia della Gestalt e della psicologia sociale, emigrato negli Stati Uniti, a seguito delle leggi razziali naziste.
Lewin mise a punto questa metodologia per conto del governo americano allo scopo di educare soprattutto le casalinghe a degli acquisti alimentari consapevoli. Un educazione che si realizzava attraverso la formazione di community self-survey, cioè, di comunità consapevoli di sé.
Questo insieme di considerazioni, che qui abbiamo appena accennato, hanno fatto in modo che la “socio-antropologia dell’alimentazione” abbia, a partire dall’inizio del secolo, definito meglio il suo paradigma, anche grazie al perfezionarsi dei cultural studies.
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Che cosa sono questi studi culturali lo diremo en passant.
Costituiscono una corrente di ricerche che si situa grossomodo all’incrocio della sociologia con l’antropologia culturale, la filosofia, l’etnologia, la letteratura, gli atti alimentari, la mediologia, le arti e soprattutto la cultura della vita corrente.
Dal punto di vista disciplinare sono caratterizzati da una forte componente critica, in particolare per quanto riguarda le relazioni della cultura con le istituzioni del potere.
È la ragione per la quale questi studi hanno assunto, rispetto ai temi trattati, un atteggiamento “trasversale”, poco ortodosso con i metodi delle indagini accademiche, anche se da molti giudicato poco critico.
I cultural studies nascono nella tradizione culturale anglosassone negli anni ‘60/70 ed hanno il loro apice intorno agli anni ‘80 del Novecento.
Si sono poi diffusi in tutto il mondo occidentale soprattutto grazie ai dipartimenti di anglistica e all’interesse che dopo il 1968 hanno acquisito le problematiche sociali della vita quotidiana legate alla cultura materiale, con particolare riferimento al fenomeno delle minoranze e delle devianze.
Nei paesi di lingua inglese i cultural studies sono stati favoriti anche da alcuni campi d’indagine dove sono divenuti egemoni, come nell’analisi dei flussi migratori, della condizione femminile, del genere (dove hanno dato vita ai gender studies) e al cosiddetto dibattito post-coloniale.
Precisamente si sono sviluppati a Birmingham verso la fine degli anni ’50 grazie ad alcuni studiosi quali Richard Hoggart, fondatore del Centre for Contemporary Cultural StudiesCCCS – Raymond Williams, Edward Thompson, Phil Cohen, David Morley, e proseguiti con successo da Stuart Hall che deve la sua popolarità alle sue ricerche sulle sottoculture giovanili e sui flussi migranti.
Altri temi indagati dai cultural studies sono le tecno-scienze, la globalizzazione e la geografia sociale, il multiculturalismo, la musica popolare, la moda, eccetera.
Negli anni ’70 i cultural studies furono introdotti negli Stati Uniti e messi in relazione con la teoria critica francese conosciuta attraverso il lavoro di Jacques Deridda, Gilles Deleuze, Michel Foucault, Jean Baudrillard ed altri.
Negli anni ’90 si diffusero in Europa, soprattutto in Olanda e in Germania, dove prendono il nome di Kulturalwissenschaft.
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La lingua inglese, per chiudere il nostro excursus sugli studi culturali definisce food studies l’insieme delle ricerche dedicate agli aspetti antropologici, storici, psicologici, sociologici ed estetici dell’alimentazione.
È una sorta di macro-disciplina che s’interseca e si mescola con i consumption studies.
Cioè, quei studi volti ad analizzare modi, miti e rappresentazioni intorno alle pratiche e alle cerimonie di consumo, come del valore e del significato delle merci, considerati nei diversi contesti socio-culturali che determinano i nostri stili di vita.
Come abbiamo visto è opinione condivisa che attraverso lo studio del sistema alimentare è oggi possibile, anche in assenza di altri dati, delineare l’organizzazione sociale di un popolo, della sua vita domestica, della sua etica e della sua religione.
Dietro la soddisfazione di questo bisogno fisiologico non è difficile scorgere un preciso
impianto comunicativo.
In questo senso, il modo di alimentazione è un linguaggio che stabilisce l’identità e individua la diversità, a tal punto che, anche nei casi estremi di sradicamento dalle proprie condizioni di vita e dalla propria cultura, la cucina è una della tradizioni che più denota la provenienza etnica.
Da tempo è ampiamente provato che certe dominanti alimentari resistono ai cambiamenti, anche profondi, dell’ambiente sociale ed ideologico.
Per esempio, i migranti, anche quando hanno abbandonano tutte le tradizioni del loro paese di origine, restano in qualche modo fedeli alle loro tradizioni culinarie più di quanto non lo restino alle loro convinzioni religiose e di costume.
In altri termini, queste tradizioni alimentano la nostalgia e i suoi riti.
Sempre a proposito di atti alimentari occorre considerare le implicazioni di queste due paradossali specificità culturali dell’uomo.
La prima è questa:
Se proviamo a sommare tutte le proibizioni del mondo a proposito di cibo, a partire da quelle di natura religiosa per finire a quelle legate al gusto o alle circostanze dell’ambiente naturale, l’umanità, con quello che resterebbe selezionato, morirebbe di fame nel giro di una generazione.
Basta far mente locale alle proibizioni più note, carne di animali domestici che hanno ricevuto un nome, di roditori, di serpenti, d’insetti per noi europei, carne bovina per gl’indiani, carne di maiale per i musulmani e gli ebrei e così via… .
Di contro, se proviamo a sommare tutto ciò che l’uomo ha chiamato cibo e che ha usato per nutrirsi nel corso della sua storia l’intero mondo potrebbe essere considerato una forma alimentare, dagli escrementi al suo stesso corpo.
La seconda implicazione è di natura ideologica.
Le fonti di cibo nel mondo sarebbero, per adesso e per molto tempo ancora illimitate se gli uomini smettessero di rifiutarne con ragioni diverse e persistenti, quasi sempre di natura culturale, una parte, spesso notevole.
Ogni cultura, infatti, più o meno deliberatamente, ha elaborato un catalogo alimentare che si tramanda da generazione a generazione e che si modifica nel tempo con grandi difficoltà e molto lentamente.
Questo catalogo alimentare costituisce di fatto la sua identità soggettiva e spesso viene vissuto dall’Altro come uno stereotipo pericoloso.
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Una breve nota aggiuntiva.
L’uomo è onnivoro, come i maiali, i topi e molti altri animali, può mangiare e digerire sia cibi di origine vegetale che cibi di origine animale.
La quantità di prodotti commestibili di cui può nutrirsi è praticamente infinita.
Perché allora la maggior parte degli esseri umani consuma
solo poche varietà di prodotti alimentari?
Non lo sappiamo con certezza, possiamo solo dire che la sua fisiologia spiega tendenzialmente
come l’uomo eviti gli alimenti meno adatti alle sue caratteristiche psico-sociali.
Ad esempio, foglie, erba e cortecce non vengono mangiate
perché l’intestino dell’uomo non è in grado di smaltire grandi quantità di cellulosa, così come è costretto ad
assumere più pasti nell’arco della giornata e non uno solo per favorire i processi digestivi.
Davanti alle svariate tradizioni
alimentari del mondo è opinione comune che solo le differenze culturali espongono
a sufficienza il perché delle diverse abitudini alimentari.
Di fatto, quello che è buono e appetibile per alcuni è disgustoso e detestabile per altri.
Insetti, cavallette e lombrichi sono fonti di proteine per milioni di persone, per molti altri qualcosa di assolutamente ripugnante.
I lattofobici evitano di bere latte, un alimento estremamente nutriente, perché secreto dalle ghiandole di un animale (al pari della saliva) e così perdono la possibilità di digerirlo una volta svezzati.
Una cosa è culturalmente certa, alla base delle abitudini
alimentari dell’uomo ci sono anche motivazioni di tipo pratico.
Vale a dire, i cibi che sono entrati nella tradizione cucinaria di un luogo sono tendenzialmente i più validi per quel luogo dal punto di vista ergonomico e nutrizionale.
Le caratteristiche
ambientali sono state le responsabili dirette delle scelte produttive
alimentari dell’uomo, in questo senso, i prodotti “selezionati”
nelle diverse culture sono anche quelli che si sono rivelati più pratici da “allevare” e che hanno dimostrato di
sfruttare al meglio le risorse in cui sono coltivati.
In linea generale, le popolazioni con
una ridotta densità demografica e con un territorio poco adatto alla
coltivazione hanno privilegiato un’alimentazione a base carnea.
Al contrario, le
popolazioni numerose e con disponibilità di terre adatte alla coltivazione
hanno sviluppato un’alimentazione basata sul consumo di cereali e vegetali,
soprattutto se queste popolazioni vivono in un habitat incapace di
sostenere i costi energetici dell’allevamento del bestiame.
Un esempio è quello del divieto di consumare carne di maiale, proprio delle religioni ebraica e musulmana.
I maiali d’allevamento hanno bisogno di ombra e di acqua per rinfrescarsi, perché non hanno ghiandole sudorifere e non possono quindi regolare la temperatura corporea con la sudorazione. Sono tendenzialmente stanziali, non trasportano carichi e non possono essere cavalcati.
Non sorprende quindi che il tabù sia nato tra popolazioni
originariamente nomadi, e in un ambiente arido e caldo come quello del deserto.
A lato di questi due aspetti culturali resta l’opzione bio-politica.
Gli uomini hanno il diritto di togliere la vita ad altri essere viventi per la propria alimentazione e senza che questo sia assolutamente necessario?
Qualunque sia la vostra opinione è bene considerare questo:
– le diete a base di carogne animali sono più costose di quelle cerealicole.
– l’allevamento di animali destinati all’alimentazione producono un inquinamento ambientale che sta diventando sempre più insostenibile.
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Da un punto di vista accademico, l’odierno accresciuto interesse delle scienze sociali per gl’atti alimentari non si è consolidato con il riconoscimento del carattere sociale del gusto o con la circostanza per la quale attraverso questi atti vengono continuamente prodotte, riprodotte e trasformate le identità sociali, ma a partire dalla loro “tematizzazione” (intesa come un congegno culturale per spiegare altri paradigmi) o, in altri termini, dal fatto che gli atti alimentari rappresentano un modello di ricerca avanzato.
Anche se marginalmente, l’alimentazione non è mai stata esclusa dalle scienze sociali, come possiamo constatare, fare qualche nome, in Émile Durkheim o in Georg Simmel, che in un volume di scritti per il centenario dell’Università di Berlino, nel 1910, si occupò della “sociologia del pasto” mostrando come questo confluisca in una classe di forme sociali con le quali si può misurare la soddisfazione individuale.
Oppure in Maurice Halbwachs (1877 – Buchenwald 1945) un sociologo francese allievo di Durkheim e studioso del fenomeno della memoria collettiva.
Halbwachs in La classe ouvrière et les niveaux de vie, uscito nel 1913, osservò che per la classe operaia il pranzo, l’ordine delle portate, la scelta del cibo e il suo prezzo costituivano una vera è propria struttura sociale, un fattuale fenomeno di classe.
In ogni modo – come abbiamo già notato – lo sviluppo di una vera e propria sociologia degl’atti alimentari ha inizio intorno al 1970, possiamo riassumerlo nella scoperta che questi atti sono una forma particolarmente plastica di rappresentazioni collettive significanti, soprattutto a fronte di una mutata mobilità di persone e cose.
O, come ha scritto Arjun Appadurai, un antropologo indiano, esponente di quella corrente di studi che va sotto il nome di studi post-coloniali, nella scoperta che gli atti alimentari sono un potente congegno semiotico.
In genere, gli studi sugl’atti alimentari si sono concentrati in passato soprattutto sui consumi anche perché essi sono profondamente legati all’identità sociale degli individui.
Un concetto che Brillat–Savarin sottolineò a suo tempo nella Physiologie du Goût con l’aforisma:
Dimmi cosa mangi, ti dirò chi sei.
Ma perché il cibo parla di noi?
Perché rappresenta le nostre origini, i nostri gusti e i nostri disgusti alimentari?
Perché essenzialmente mangiare significa distinguere, discriminare, includere e escludere, in una “operare” un processo che è storico, psicologico, sociale, religioso e politico che è, in ultima analisi, il nostro habitat.
Questo spiega perché Claude Lévi–Strauss ha definito l’essere umano l’animal cuisinier, un animale che nella cucina traduce più o meno inconsciamente la struttura della società che abita.
O, ancora, perché una grande antropologa inglese Mary Douglas in un saggio del 1972 contenuto in Antropologia e simbolismo consideri la decifrazione di un pasto (vale a dire la sua struttura, la sua preparazione e il modo di consumarlo) come una espressione simbolica dei rapporti sociali di cui sono il prodotto e allo stesso tempo un sistema di comunicazione, un codice che rivela l’ambiente che gl’individui esprimono.
In sintesi, ogni pasto è un evento sociale strutturato che struttura altri eventi a sua immagine.
En passant notiamo come anche in Italia i manuali di cucina sono andati al cuore della nostra identità collettiva.
Nell’Ottocento essa era espressa da Pellegrino Artusi e dal suo La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene.
Di contro, oggi, la progressiva frammentazione regionale e locale è spesso una nostalgia per una tradizione il più delle volte inventata sui libri e sponsorizzata dagli interessi economici.
Le abitudini alimentari, a tutti gl’effetti, contribuiscono sempre di più a stabilizzare i confini e le differenze simboliche che strutturano lo spazio sociale e, spesso, anche quello religioso e geopolitico.
Wolfgang Schivelbusch, un sociologo tedesco che si occupa di studi culturali nel suo libro sulla storia dei generi voluttuari (in Italia è stato pubblicato nel 2000) mette a confronto – siamo nel Seicento – la nascente società borghese anglosassone e puritana con la Spagna e la Francia cattoliche attraverso l’importanza che gl’inglesi assegnavano al caffè e i due paesi europei alla cioccolata.
Varrebbe la pena di ricordare Madame de Sèvigné e la cioccolata così come la chroniqueur dell’affaire Françios Vatel, al solo scopo di mettere in luce come nel Seicento gli atti alimentari diventarono un Leitmotiv letterario e di corrispondenza.
Per venire ai nostri giorni gli stessi giganti della ristorazione di massa, come i McDonald, si sono dovuti adattare ai costumi alimentari e ai gusti locali.
In Israele i Big Mac sono senza formaggio per non contravvenire alle norme kosher che richiedono la separazione della carne dai latticini.
In India hanno dovuto sostituire nel Maharajah Mac la carne bovina con la carne di montone.
A questo proposito un fenomeno oggi all’attenzione di molti è quello delle cucine etniche che concorrono alla ibridazione delle culture.
I migranti usano il cibo per rimanere in contatto con le loro tradizioni e così facendo le riproducono nei luoghi dell’esilio spesso con significative varianti dovute alle circostanze e diventando, senza volerlo, agenti di cambiamento dei consumi alimentari delle culture d’accoglienza.
Vediamo meglio questo punto.
Il cibo per le ragioni che abbiamo detto e che vedremo riesce ad esprimere bene le diverse fisionomie che assume la globalizzazione, soprattutto se agisce su un mercato e un commercio in larga scala. In genere, di fronte al fenomeno della globalizzazione, si tenta di ridurne, di rifiutarne o d’introiettarne l’impatto.
In cucina si esprimono diversi e appariscenti atteggiamenti in questo senso.
Si può opporre resistenza, rifiutando o limitando l’uso di prodotti identificabili come propri di altre culture.
Si possono ibridare le diversità culturali ibridando i cibi e la loro lavorazione con l’obiettivo di arrivare a nuove espressioni alimentari.
C’è l’appropriazione, molto popolare un tempo, soprattutto dopo la scoperta dell’America, ovvero la capacità di una cultura di assorbire i caratteri degl’atti alimentari dell’Altro da sé trasformandoli in qualcosa che appartiene alla propria storia.
Per entrare nelle tecniche che trasformano gl’ingredienti in nuove ricette, seguendo la classificazione di Richard Wilk, un antropologo americano, autore della raccolta di saggi Fast Food. Slow Food – The cultural economy of the global food system (2006) abbiamo:
– la miscelazione. È una tecnica elementare che sta alla base soprattutto della creolizzazione, com’è chiamata la ricerca di nuove combinazioni di forme e sapori
– la sommersione. È un modo di miscelare gl’ingredienti che volutamente o inconsciamente fa sparire quello che si ritiene estraneo nell’amalgama generale così che la sua identità gustativa sia eliminata.
– la sostituzione. È una tecnica che consiste nel sostituire un ingrediente particolare con uno nuovo, in genere locale. Rappresenta una sorta di simulazione della ricetta originaria.
– la confezione adattativa. Con questa tecnica s’introduce un ingrediente locale in un piatto che non ci è familiare allo scopo di riconoscere in esso un sapore che è familiare.
– la compressione ideologica. Si banalizza la diversità alimentare di una cultura riducendola ad una sola preparazione alimentare esaltandola come un simbolo. È un’operazione che si compie sempre più spesso nelle cucine dei ristoranti.
– l’alterazione contestuale. Si promuove la gustazione di cibi sconosciuti fuori dal loro contesto originario. Per esempio, usando pietanze destinate ad un pasto completo in piccoli snack, come avviene soprattutto con la cucina orientale.
Anche le distinzioni di classe e di ceto si esprimono mediante le abitudini alimentari e soprattutto si stabilizzano con esse. Lo ha rilevato Pierre Bourdieu (1930-2002) un sociologo francese esperto di fenomeni culturali nel libro La Distinction (1979) sul quale ritorneremo più avanti.
In questo stabilizzarsi confluiscono anche le connotazione di genere che coinvolgono sia la preparazione degli alimenti – affidato per tradizione alle donne – che il tipo, come il caso della carne rossa ritenuta un cibo maschile.
Diciamo che intorno al rapporto con il cibo – dalla produzione al consumo – storicamente sono venute a formarsi molte e complesse visioni della femminilità, alcune decisamente negative.
Visioni spesso improntate al servizio, al controllo di sé, alla moderazione se non alla mortificazione.
Del resto attraverso il cibo possono aprirsi anche spazi di trasgressione.
Quasi ovunque nella storia e nelle diverse culture dell’uomo esso è stato investito di una carica erotica che comincia con la mela che Eva porge a Adamo e – soprattutto attraverso il cinema e la televisione – arriva fino ai nostri giorni.
Per riassumere.
Le distinzioni sociali e le tassonomie culturali tendono ad esprimersi e a realizzarsi attraverso il cibo e ciò che è inteso come cibo è il risultato di un processo di classificazione culturale che si realizza attraverso una serie di pratiche secondo i tempi e i modi delle istituzioni sociali che, soprattutto nella modernità, compongono una complessa filiera alimentare.
Si tratta sempre e comunque di portarsi a casa del cibo – sia pure precotto o già cucinato – conservarlo, scaldarlo, combinarlo con altri cibi, utilizzando una serie di saperi che ce lo fa mettere in una giusta sequenza.
Gli attori sociali, poi, devono aver appreso non solo ad apprezzare il gusto dei cibi a loro disposizione, ma anche a utilizzare attrezzi diversi per il loro allestimento e consumo.
Oggi la distinzione impone di saper parlare del cibo, non solo in termini di gusto, ma anche dal punto di vista dietetico, estetico, edonistico, salutistico, commerciale e non da ultimo religioso.
Come possiamo riassumere tutto questo?
Dicendo che le avventure del cibo e le sue rivoluzioni, lungi dall’essere delle semplici avventure materiali, sono soprattutto delle avventure simboliche che si trascinano dietro nuove forme del costume sociale.
La diffusione in Europa di bevande come il caffè, il tè, la cioccolata si accompagnò alla diffusione capillare del consumo di zucchero che segna profondi mutamenti culturali.
Non per caso lo zucchero e le bevande amare, che devono essere zuccherate, divennero prima un lusso aristocratico e poi un lusso diffuso che fu circondato da rituali di consumo complessi.
Basti pensare all’importanza della cerimonia del tè in Inghilterra o del caffè nel sud dell’Europa.
Del resto la storia dell’uomo si divide sempre tra coloro che credono che siano le idee il motore del mondo e quelli che invece sostengono che siano i prodotti economici.
Herny Hobhouse,un divulgatore inglese di questioni agricole in un libro di qualche anno fa che ebbe un discreto successo, Seed of Change: sei piante che hanno trasformato l’umanità sostiene che la scoperta delle Americhe è un effetto imprevisto della ricerca del pepe. Le altre piante sono lo zucchero, il tè, il cotone, la patata, il chinino e la coca.
Al di là del fatto che questa affermazione sia corretta, esagerata o campata in aria dobbiamo notare un altro aspetto degli studi sugl’atti alimentari.
Essi hanno contribuito ad elaborare alcune dicotomie di comodo che hanno segnato il pensiero sociale, quali la contrapposizione tra materiale e simbolico. Produzione e consumo. Soggetto e oggetto. Locale e globale.
Nello specifico significa che per l’attore sociale mangiare così come produrre il cibo non sono solo atti cognitivi o atti materiali, ma comportamenti inestricabili che ruotano intorno alle pratiche alimentari.
In un tale contesto queste pratiche contribuiscono a delineare e a distinguere le nostre identità soggettive e sociali e a modularle sulla società che viviamo.
Gli atti alimentari non sono solo un terreno privilegiato di ricerche intorno alla cultura materiale e alla storia sociale, ma devono anche fronteggiare sfide pressanti e politicamente delicate.
Una di queste sfide riguarda gli squilibri nutrizionali che portano un numero crescente di persone che abitano i paesi a capitalismo avanzato ad essere sovra peso mentre il Sud del mondo è periodicamente attraversato da significative carestie.
In altri termini nonostante siamo entrati nel terzo millennio della nostra storia il numero di coloro che non sanno cosa mangiare e di coloro che non sanno cosa vuol dire mangiare è impressionante.
La prima categoria copre di vergogna l’intera umanità e senza appello.
La seconda categoria ci riguarda direttamente e mostra le falle della nostra educazione alimentare.
Tendiamo ad eccedere nel bere e nel mangiare, sviluppiamo patologie che ci spingono verso l’obesità, la bulimia, l’anoressia, sprechiamo una parte considerevole del cibo di cui entriamo in possesso, cibo che non lo conosciamo dal punto di vista nutrizionale.
Soprattutto abbiamo sviluppato una tendenza ideologica a “medicalizzare l’alimentazione”. Siamo ossessionati dalle calorie, dai lipidi e dai zuccheri.
Abbiamo finito per de-strutturare i pasti, semplificandoli e mangiando quando capita da soli o in luoghi diversi da quelli familiari senza più riconoscere un valore e un senso ai rituali.
Non sappiamo più controllare la voragine che si è aperta tra norme e pratiche alimentari e questa volta non per la scarsità del cibo – come avveniva un tempo – ma per un’abbondanza materiale e una varietà di offerta che disorientano.
Di più, siamo sottoposti ad una pressione pubblicitaria, spesse volte dai toni terroristici e razziali, che gli stessi organismi internazionali, come la Fao, reputano eccessiva.
In breve, la nostra “libertà a-nomica”,che ci sospinge verso i tranelli dell’ansia, favorisce il diffondersi di condizioni e abitudini alimentari aberranti.
Il grande antropologo italiano Ernesto de Martino (1908-1965) ha scritto.
“Se è una minaccia la fame, è una minaccia anche il mangiare da soli, perché il pane come cibo che nutre si può perdere anche quando si spegne il suo valore di cibo da mangiare in comune.”
Aggiungiamo, come traspare dall’etimo di “compagni”, vale a dire di coloro che dividono il loro pane.
L’obbligo a variare la dieta e la pulsione a scegliere alimenti conosciuti o classificati come commestibili secondo codici condivisi ingenera nell’uomo, da una parte, atteggiamenti neofili o neofobici, dall’altra, lo svilupparsi di ansie alimentari.
Queste ansie sono oggi soprattutto un problema psicologico o psico-analitico, ma nascano come un fenomeno storico con l’allargarsi dei circuiti alimentari dovuto alla scoperta delle Americhe.
Diciamo che la rottura dell’ordine alimentare locale, ordine sul quale si sono rette per secoli le abitudini alimentari, sviluppò una fondamentale ambivalenza dell’uomo di fronte al cibo, favorendo l’affermarsi della dicotomia piacere vs disgusto e, di seguito, lo sviluppo di una nuova e complessa grammatica dell’esperienza legata agl’atti alimentari.
Una grammatica che, sullo sfondo della dicotomia vita vs morte, declina la relazione di salute e malattia, di valore dietetico e valore mondano, di moralità e spreco e ha in qualche modo favorito la spinta verso la laicizzazione dell’alimentazione.
Questa laicizzazione nella sua evidenza è un effetto dei processi industriali, ma sotto traccia mostra ancora una dimensione sacra come quella che nell’antichità legava la “carne” ai sacrifici religiosi. Che altro rappresenta, infatti, la pletora di saperi e di esperti con i loro linguaggi specialisti che ancora oggi segue passa dopo passo la filiera alimentare e la trasforma in spettacolo di massa?
Molti hanno anche notato che la modernità togliendo o affievolendo il legame tra prodotto e territorio, che consegue alla nascita dei flussi di merci alimentari de-localizzati, genera un feticismo per i cibi, che si manifesta con la regressione del gusto verso quei prodotti che il marketing alimentare chiama cibi facili, freschi e genuini.
Questo feticismo che esprime l’intrecciarsi di globalizzazione e localizzazione ha dato vita anche a quella che viene per comodità definita la World Cuisine una cucina fusion basata sull’ibridazione di materie prime e preparazioni.
Come reagisce il consumatore frastornato?
Cercando quello che il marketing definisce originale, artigianale, genuino e di gusto.
In breve, tipico.
Il tipico è a tutti gli effetti un percorso istituzionalizzato di garanzia che traduce l’origine locale in due modi.
Uno, burocratizzato che viene tenuto in ombra o occultato.
L’altro attraverso un codice comunicativo sempre più egemonico sorretto da miriadi di manifestazioni regionali, provinciali e comunali.
Su un altro registro va registrato un tentativo di “de-feticizzare” i prodotti alimentari.
Lo stato di fatto ci dice che un po’ meno del venticinque per cento della superficie del pianeta è dedicato alla produzione alimentare, che circa un miliardo di persone sono sottonutrite o soffrono la fame, che sempre più pressanti sono le spinte verso la salvaguardia dell’ambiente e di tutela dei gruppi sociali svantaggiati.
In quest’ottica la “de-feticizzazione” del cibo esprime il tentativo di rendere visibili e razionali i suoi percorsi di produzione non solo dal punto di vista ambientale come accade nel biologico o nei prodotti tipici, ma anche umanitario come si è cercato di fare con il commercio equo e solidale.
Come dicono i sociologi americani occorre saper coniugare la food security – la sicurezza alimentare nella doppia accezione di lotta alla fame e alla scarsità – con la food safety – rappresentata dai rischi igenico-alimentari che sono spesso il risultato non previsto di un’industrializzazione che ha fallito nel suo scopo di eliminare le carenze alimentari.
Come abbiamo visto sommariamente gl’atti alimentari sono attraversati da identità e differenze, caratteristiche oggettuali, costruzioni simboliche, processi globali e peculiarità locali, rituali di consumo e complessi percorsi di produzione illuminati da un’analisi dei gusti sempre più complessa e dalle politiche del cibo frutto di compromessi.
In quest’ottica, Alan Warde, un sociologo inglese specializzato nella ricerca sul cibo e i consumi ha scritto che la semplice attività di uscire a mangiare in un ristorante è una forma di consumo culturale che implica un insieme di conoscenze condivise e espresse attraverso convenzioni che governano le performance individuali.
Tali conoscenze e convenzioni che appaiono come “gusti” in qualche modo e qualche volta realizzano un ponte tra il sapere e il sentire, ma più spesso sono alibi per affermare la propria distinzione sociale anche a scapito delle forme di coerenza alimentare.
Colui che mangia.
Prima di procedere all’analisi dei caratteri di colui che mangia dobbiamo sottolineare una peculiarità della modernità, sulla quale ritorneremo.
Da qualche tempo a questa parte e per la prima volta nella storia dell’uomo una parte rilevante della popolazione mondiale può nutrirsi senza dover produrre direttamente il cibo che consuma.
Questo fatto è di un’unicità caratterizzante (cioè, fa la differenza)sia rispetto al nostro passato che rispetto a molte altre culture che abitano la periferia del “villaggio globale”.
In pratica è mutata radicalmente la relazione che lega gli atti alimentari alle cerimonie della socialità ed introduce la forma di merce come un parametro semantico su cui si formano i valori sia nutrizionali che culturali del cibo.
Tale unicità inevitabilmente tende sempre di più ad intrecciarsi con gli effetti perversi della globalizzazione, vale a dire concorre a formare i nuovi modelli di adozione culturale e, al limite, di colonizzazione.
Un esempio limite di questi effetti lo si è rilevato nei Luo, o Lwo, una famiglia di gruppi etnici che vivono in un’area che si estende, pressappoco, dal Sudan all’Uganda, dal Congo al Kenya.
Da qualche tempo a questa parte questi gruppi etnici, per i riti di passaggio dalla condizione di adolescenti a quella di guerriero, invece di usare tisane di erbe raccolte nella savana, utilizzano la “coca-cola” come bevanda rituale per i loro riti d’iniziazione.
Osserviamo, per cominciare, che in una prospettiva sociologica i cambiamenti sociali e l’evoluzione degli stili di vita legati all’alimentazione dipendono in modo sostanziale e diretto dai problemi dell’adattamento.
Questi problemi, di natura contingente, s’intrecciano strettamente con lo sviluppo delle forme legate all’emotività e alla concezione del sacro, dunque alla morale.
In questa prospettiva possiamo enucleare tre fondamenti del paradigma degli atti alimentari.
– Uno. Il pensiero classificatorio.
Costituisce un modo di pensare il mondo e, in particolare, il mondo alimentare.
Da tempo sappiamo che gli uomini, più o meno coscientemente, nel relazionarsi con le forme dell’habitat, procedono o, meglio, sono indotti dalla struttura delle nostre abilità cognitive a delle classificazioni dalle quali fanno poi se ne deducono regole e categorie.
– Due. Il principio d’incorporazione.
L’antropologia inglese alla fine del diciannovesimo secolo aveva notato, presso alcune culture primitive l’esistenza di credenze che furono raggruppate sotto il nome di magia simpatica.
Queste credenze possiamo riassumerle nella formula: si è ciò che si mangia.
In pratica, queste credenze scaturiscono dalla convinzione che chi mangia assorbe, per analogia, le caratteristiche del mangiato inglobandone la sostanza, sia che si tratta di caratteristiche fisiche, morali o simboliche.
– Tre. Il paradosso dell’onnivoro.
Lo ha sviluppato per primo Paul Rozin, uno psicologo americano specializzato nella ricerca motivazionale nel campo delle scelte alimentari che insegna alla University of Pennsylvania.
Si tratta di una caratteristica della specie umana connessa alla sua condizione di specie onnivora.
È sostanzialmente uno stato cognitivo ed emotivo attraverso il quale l’onnivoro scopre la complessità, indissolubilmente biologica e culturale, del suo rapporto con l’alimentazione da cui ne trae vantaggi, ma più spesso ansia.
Questi tre fondamenti del paradigma alimentare dell’uomo, poi, si combinano in una sorta di gestione morale degli atti alimentari.
Vale a dire, il colui che mangia giunge inevitabilmente a moralizzare il suo rapporto con l’alimentazione ed impara a valutarlo anche in base alle forme etiche acquisite.
In pratica impara a formulare dei giudizi morali e ad usarli come pretesti normativi e pregiudiziali, spesso di natura razziale.
Qui possiamo cogliere un’analogia con quello che succede per la sfera sessuale, che risulta sottomessa, praticamente in ogni cultura e da tempo immemorabile, alle tradizioni religiose e morali, dunque a dei giudizi o a dei luoghi comuni acquisiti acriticamente che il più delle volte sono normativi e sanzionatori.
A questo proposito nel mondo occidentale da qualche tempo a questa parte si verifica un fenomeno curioso che ha già interessato gli studi di antropologia culturale.
Invece di procedere verso una liberazione sessuale si moltiplicano i modelli delle perversioni, cioè delle forme di jouissance (di piacere o di supposto tale) legate alla trasgressione di quelli che per il soggetto sono tabù o forme di anomia ritenute gratificanti.
Parallelamente per quanto riguarda l’alimentazione, si costata un accentuarsi irrazionale dei moralismi, il cui effetto più evidente è il moltiplicarsi delle diete e dei disturbi alimentari, in primis, il diffondersi dell’anoressia e del voming, quest’ultimo elevato anche a forma artistica.
Perversione e moralismo sono – in chiave psicoanalitica – le due facce della stessa medaglia.
Lo hanno dimostrato gli studi di due degli allievi più famosi del “freudismo di sinistra”, Wilhelm Reich (1897-1957) e l’ungherese Geza Róheim (1891-1953).
Di quest’ultimo ricordiamo un fatto curioso. Fu il primo psicanalista che, su incarico diretto di Sigmund Freud, cercò di dimostrare con inchieste sul campo la validità del paradigma psicoanalitico.
Róheim riuscì a dimostrare l’universalità del complesso di Edipo in polemica con un altro grande antropologo, Bronislaw Malinowski, che lo negava nelle cosiddette culture madri-lineari.
Non è allora per caso che ogni appello tra cui uno recente di alcuni intellettuali francesi di far cancellare dalla chiesa la gola dal numero dei peccati capitali è caduto nel vuoto.
Vediamo ora in modo più analitico alcuni aspetti di questi tre fondamenti.
– Il pensiero classificatorio.
Il senso comune è convinto di saper distinguere ciò che è commestibile da ciò che non è commestibile in termini fisico-chimici e tossicologici.
Per il senso comune, in pratica, è commestibile tutto ciò che è mangiabile in una prospettiva metabolica e nutritiva.
Formalmente costituisce una elementare procedura classificatoria, ma ad osservarla riserva delle sorprese.
Se infatti consideriamo le pratiche e gli usi alimentari del mondo emerge chiaramente che le specie o le varietà biologicamente mangiabili e che possono essere metabolizzate sono molte di più di quelle che gli uomini consumano.
Richard Borshay Lee, un antropologo canadese che insegna a Berkeley, in California, Politiche della cultura, qualche anno fa ha catalogato, con l’aiuto degli indigeni che lo abitano, tutte le specie animali e vegetali del Kalahari, quella regione africana che si trova tra la Namibia e il Mozambico all’altezza del Tropico del Capricorno.
La catalogazione ha evidenziato che le specie animali, conosciute ed identificate dagli abitanti del luogo, sono maggiori di quelle reputate commestibili e che, tra quelle reputate commestibili, solo una piccola parte è effettivamente mangiata.
Tuttavia non ci sono per questa scelta delle ragioni razionali, tutto affonda nella tradizione orale.
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Gli indigeni, studiati da Lee, sono i “Nyae Nyae! Kung”, un popolo di cacciatori-raccoglitori nomadi che vivono, come abbiamo detto nel deserto del Kalahari, nel nordest della Namibia.
Appartengono all’etnia dei boscimani.
L’altra etnia di queste terre è quella ottentotta.
Hanno pochi contatti con il mondo civilizzato e la loro capacità di vivere in modo adeguato nel deserto è il frutto di una strategia di sopravvivenza sviluppata nel corso di migliaia di anni.
Siccome l’andamento delle piogge e molto vario, l’acqua che bevono sono costretti ad estrarla dalla radice delle piante.
Per tradizione è un compito affidato alle donne con l’aiuto sporadico degli uomini.
Le donne raccolgono anche la legna da ardere, mentre gli uomini cacciano in piccoli gruppi o da soli.
Durante il giorno si nutrono di piccole razioni di cibo, la sera, invece, mangiano in modo abbondante radunandosi intorno ai fuochi.
L’attività preferita di questa etnia è stare sotto gli alberi a parlare o, meglio, ad esercitare l’arte dell’affabulazione.
Non hanno quasi mai discussioni violente perché isolano subito i provocatori.
Tutti sono considerati uguali ed essendo nomadi hanno pochi beni personali.
Si può dire che non conoscono il furto e considerano la cooperazione un fatto della massima importanza.
Tra di loro amano scambiarsi regali e questi sono sempre ricambiati, anche a distanza di anni, l’importante che non siano ostentativi.
Un altro passatempo è la danza.
Con la danza si propiziano la caccia, la pioggia e curano le malattie.
Oltre a fumare in gruppo la danza è di fatto, l’unico tipo di cerimonia religiosa che praticano, perché con la danza sono convinti di scacciare gli spiriti maligni.
Sono sani e vivono a lungo.
Hanno soprattutto due problemi, le malattie della pelle e le infezioni polmonari che curano con cerimonie specifiche.
Che altro dire?
Questa etnia di cui abbiamo parlato sta scomparendo sotto la pressione della modernità e per colpa dei diamanti di cui sono ricche queste terre.
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UNA NOTA SU MARSHALL SAHLINS.
David Marshall Sahlins è un antropologo americano, insegna all’università di Chicago, anche lui si è occupato dei Kung.
In italiano sono stati pubblicati molti suoi libri, noi ne prenderemo in considerazione due.
Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, pubblicato un paio di anni fa e uno dei suoi primi lavori, L’economia dell’età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive pubblicato in Italia nel 1980.
Per Salhins la cultura plasma il modo di percepire le cose e gli avvenimenti e di conseguenza determina le motivazioni degli individui più della stessa eredità biologica.
In quest’ottica l’evoluzione è la tendenza dei sistemi culturali e sociali ad aumentare la complessità, l’organizzazione della vita corrente e l’adattabilità all’ambiente, ma questa complessità, per Salhins, non è in direzione di un uomo economico e razionale.
Leggiamo un passo significativo tratto da L’economia dell’età della pietra.
“I cosiddetti primitivi”, egli scrive, “hanno pochi beni, ma non sono poveri. La povertà” – che è tutta un’altra cosa della miseria economica della modernità – “non è una quantità ristretta di beni, né è solo un rapporto tra mezzi e fini. La povertà è una relazione tra le persone, dunque è uno stato sociale. Come tale è un’invenzione della civiltà e delle idee che l’hanno prodotta. In questo senso è cresciuta con la civiltà è si è installata tra gl’uomini come uno strumento di discriminazione tra le classi.
Da qui le due conclusioni che a suo tempo lo misero al centro di numerose polemiche.
La prima e che i cacciatori-raccoglitori consumano meno energia pro-capite per vivere rispetto a qualunque altro gruppo umano e quindi a dispetto dei nostri sforzi di essere benestanti essi sono la vera società dell’opulenza e sono coloro che vivono un rapporto più equilibrato con il loro habitat.
La seconda che gli antropologi, almeno fino alla seconda guerra mondiale, non hanno capito molto delle società cosiddette primitive, vittime dei loro pregiudizi e di un’idea distorta di che cos’è l’abbondanza che, per esempio, ha impedito loro di cogliere il significato che in queste culture rappresenta la prodigalità.
In breve la mera economia di sussistenza e l’incessante ricerca di cibo che hanno sempre contrassegnato le descrizioni delle società di cacciatori-raccoglitori sono mere illusioni se non dei veri e propri inganni capitalistici.
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Ritorniamo al pensiero classificatorio.
Riassumendo si può affermare, a dispetto del senso comune, che anche nelle culture definite primitive e non solo in quelle evolute, ciò che è biologicamente mangiabile non è sempre culturalmente commestibile.
Acominciare, per quel che ci riguarda, dagli insetti, dalle larve, dai ragni per finire agli animali da compagnia o a quelli a cui diamo un nome proprio.
Possiamo dire che, anche a prescindere dalla nostra coscienza, c’è un repertorio implicito di ciò che noi riteniamo commestibile e che dipende dall’ecosistema, dall’adattamento, dai vincoli economici contingenti e dalle necessità storiche.
Ma quello che più conta sottolineare è che interiorizziamo questo repertorio e lo accettiamo senza averne una coscienza diretta e motivata.
Di più, le trasgressioni a questo principio, di qualunque natura esse siano, possono scatenare una reazione e una risposta biologica e culturale violenta, com’è il disgusto.
Ne consegue – e questo è oggi divenuto importante a seguito della globalizzazione dei mercati, dei fenomeni migratori e del turismo di massa – che per poter mangiare in una cultura diversa dalla nostra occorre spesso forzare e superare la barriera del disgusto e della diffidenza.
Occorre, in sostanza, arrivare a condividere le forme culturali e cerimoniali dell’Altro da noi, entrare nel suo paradigma alimentare.
Questa barriera di commestibile e non-commestibile è efficace, ma allo stesso tempo è indubbiamente rozza ed approssimativa perché gli atti alimentari sono attraversati da innumerevoli classificazioni implicite di cui non abbiamo una coscienza diretta.
Gli alimenti, infatti, sono sempre e con modalità diverse codificati in funzione del loro uso, della categoria di persone che possono o non possono consumarli, del tempo, della stagione, dell’età, dello stato di salute, eccetera.
Dappertutto, nei gruppi, nelle comunità, nelle società, oggi come ieri, ci sono alimenti che possono o non possono essere mangiati da determinate categorie di individui come le donne in gravidanza, i bambini, i vecchi, gli sportivi, i guerrieri, eccetera.
Altri alimenti, poi, sono ammessi solo in certe circostanza o in determinate occasioni .
Come ha dimostrato Mary Douglas, l’alimentazione è governata da un sistema implicito di regole complesse che spesso appaiono a prima vista arbitrarie.
Nella nostra cultura si può distinguere tra regole estrinseche e regole intrinseche, esamineremo di esse la loro forma storica per meglio comprenderle, tenendo presente che esse da qualche tempo a questa parte sono profondamente cambiate.
Lo facciamo perché queste regole hanno disegnato la memoria di quello che noi chiamiamo il design degli atti alimentari e il catalogo di oggetti e strumenti che esso ha determinato.
Dunque, le regole estrinseche, fanno capo alla relazione tra il consumo del cibo e certi fattori esteriori ad esso. Come sono, per esempio, gli orari o i luoghi.
Noi mangiamo secondo un orario e questo orario regola le procedure di servizio e la qualità degli elementi, piccola colazione, seconda colazione, merenda, spuntino, pranzo, cena, eccetera.
Queste specificità, a loro volta, variano a seconda del gruppo sociale, del livello culturale e dell’epoca e possono essere orientate della pubblicità, della grande distribuzione commerciale e delle mode.
Le regole intrinseche, invece, governano la composizione interna degli episodi alimentari.
Nella forma di pasto, per esempio, si può distinguere tra una dimensione diacronica e una dimensione sincronica.
La dimensione diacronica concerne la sequenza delle portate la cui successione costituisce il pasto, soprattutto nell’ambito della cultura occidentale.
La dimensione sincronica deriva dall’associazione o dalla relazione delle portate che sono tutte servite allo stesso tempo, tipica delle culture orientali. In questo caso il pasto si configuri come un viaggio di sapori e di testure.
Ci sono poi aree culturali o epoche dove la diacronicità e la sincronicità compongono un sistema è misto.
Per esempio, nel sistema detto alla francese che precede, nella storia europea quello detto alla russa.
Questo sistema misto ha subito nel tempo delle varianti molte delle quali derivavano dalla teatralizzazione degli atti alimentari e dall’ostentazione del lusso.
È stato, in sostanza, un servizio per le grandi occasioni formali o cerimoniali.
Oggi, soprattutto nella ristorazione commerciale, è prevalso il servizio alla russa, soprattutto in Europa.
È un servizio dove i convitati sono serviti individualmente e secondo una successione spesse volte già annunciata dal menu.
In ogni modo, qualunque siano i modi in cui le regole estrinseche e intrinseche si sviluppano o s’incrociano la loro alterazione, al di là di un certo range, può produrre effetti comici o ripugnanza.
Per semplificare, noi possiamo benissimo immaginare di mangiare nel corso della prima colazione un frutto esotico, ma difficilmente accetteremo di mangiare un piatto di lasagne alla bolognese o di trenette al pesto.
Quello di cui è importante prendere atto è che le regole e le categorie in questione sono meramente culturali ed anche se si sono formate in seno agli atti alimentari non sono assolutamente regole che derivano da dispositivi nutrizionali o biochimici.
A Parigi, alle due del mattino, usciti da una discoteca possiamo consumare, con piacere, in un comptoir, una soupe à l’oignon con fette di pane abbrustolito.
La stessa zuppa, però, ci apparirebbe assolutamente indigesta se ci fosse proposta qualche ora dopo, alle quattro del mattino.
A quel ora, va da sé, preferiremmo un caffè con un croissant.
Questo schema ci sembra ovvio, ma non lo è.
Se fossimo dei contadini e dovessimo alzarci per lavorare nei campi, ecco che alle quattro o alle cinque del mattino ritornerebbe appetibile una zuppa e risibile un croissant.
A questo punto è facile intuire che noi tutti abbiamo introiettato un certo ordine nelle vivande così come una certa composizione di esse.
Cosa se ne deduce?
Che la cultura alimentare costituisce un tessuto di regole di grande complessità e di difficile percezione quando non la conosciamo.
Il perché di questa complessità è quali siano le sue ragioni è l’oggetto degli studi degli atti alimentari.
Chi mangia tende ad elaborare un sistema classificatorio all’interno della sua esperienza diretta o acquisita di che cosa è commestibile e di cosa non lo è.
Questo sistema lungi dall’essere meramente funzionale, rinvia in continuazione a delle rappresentazioni simboliche e alle strutture dell’immaginario per poi variare con l’educazione, l’età, lo stato di salute, l’esperienza, le contingenze della vita materiale.
La razionalità di colui che mangia, dunque, non è mai realmente nutrizionale o economica, ma deve fare i conti con i suoi valori culturali, le sue credenze, la tradizione,i suoi stili di vita.
(Febbraio 2020)