NOTA: A questa lezione segue la prima esercitazione
A che ora del giorno siamo nell’incontro
con l’Altro da noi?
Da Roots a Routes.
Abbiamo definito la cultura come una rete di significati, come dei modelli di pensiero (Boas) in continua mutazione, come una dimensione morale e simbolica delle rappresentazioni collettive.
La cultura nella pratica ha molti aspetti. C’è la cultura radicata dei luoghi urbanizzati, i cui “prodotti” sono in genere accumulati nelle istituzioni museali.
C’è la cultura di percorsi che si condensa nei neo-siti delle performance sociali, siti tra i quali emergono in modo drammatico i campi profughi.
Drammatico perchè le conseguenze reali appariranno solo nel lungo periodo, mentre adesso appaiono frammentate, fraintese, come luoghi di deposito, come ostelli di speranza.
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A proposito di déracinement.
In una prospettiva antropologica possiamo notare come dalla psico-analisi alla teologia della tradizione cattolica, dai Dogon del Mali agli aborigeni australiani, tutti individuano nella casa un doppione microcosmico del corpo umano.
Non è per caso, che i bambini vedono nelle finestre gli occhi della casa, nella porta la bocca o che molti adulti definiscano le cantine come le sue viscere.
La casa in numerose culture è più di un luogo dove vivere, ma è un vero e proprio organismo che vive.
Essa sottolinea la personalità di chi l’abita, perchè non è solo il luogo fisico costruito e abitato, esprime anche una sua rappresentazione simbolica o, meglio, una matrice di soggettività.
L’azione simbolica esercitata dalla casa sulla vita psichica degli individui si riflette anche su quella sociale, diventando un paradigma che riunisce, e in parte sovrappone la sfera intima, quella interpersonale e quella socio-politica dei suoi abitanti.
Questo spiega perchè quando si perde la “casa” si perdono o si frammentano anche le sue funzioni organizzatrici e contenitrici, portando alla frantumazione della relazione individuale-personale, familiare-coniugale, socio-economica e culturale-politica.
Molti mediatori culturali ritengono che è questa destrutturazione che nei rifugiati porta al cosiddetto disorientamento nostalgico.
Un’altra funzione importante della casa è quella di fornire una base coerente alla storia delle famiglie.
Una storia che non ha un valore obiettivo ma che ordina e rende coerente tutti i momenti che gli individui hanno vissuto in essa, da quelli peggiori a quelli migliori.
In questo modo essi sono resi intelligibili e comprensibili e danno, agli attori un senso di continuità, di prevedibilità e di coerenza.
Quando le persone perdono la loro casa e acquistano la qualifica di rifugiati s’infrange questa continuità, questa prevedibilità e questa coerenza, e sono precisamente queste dimensioni che l’assistenza ai rifugiati dovrebbe favorire.
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Città verso metropoli. Nell’ottica del nostro workshop la città è l’alcova dei sogni. La metropoli, di residenze e di viaggi.
Qualche esempio:
– Nadja di André Breton.
– Il flâneur di Walter Benjamin.
– Il mito di Arthur Cravan, viaggiatore, poeta e boxeur.
– La Sape.
La Sape, abbreviazione per: Société des Ambianceurs et des Personnes Élégantes (ovvero, La società delle persone di belle maniere ed eleganti), è un movimento sociale e culturale nato a Brazzaville nella Repubblica del Congo.
L’aderente a una Sape è chiamato sapeur. Il movimento ricopia, attualizzandola, l’eleganza nello stile e nelle maniere dei dandy colonialisti e ha dato vita a una vera e propria filosofia della moda chiamata Sapologie.
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La cultura fatta con i simboli dell’altrove.
La feticizzazione delle culture.
Che ci faceva sullo schermo del mio televisore un giovane arabo a piazza Tahrir al Cairo con una t-shirt di Rambo?
Perchè gli studenti universitari di Beirut indossano felpe con la scritta UCLA (University of California Los Angeles)?
Cosa voleva trasmettermi la studentessa ucraina durante l’esame di sociologia della comunicazione qui allo IED con la scritta sulla felpa: Animal Liberation Front – Until Every Cage is Empty (fino a quando le gabbie non saranno vuote)?
É abbastanza frequente sentir parlare di «creolizzazione», «meticciamento» e «ibridazione».
Si tratta di termini diversi che rinviano, sostanzialmente, a un concetto comune.
La questione è che nel corso del tempo le culture evo!vano e vengano in contatto fra loro, questo costituisce una condizione rilevante per la loro contaminazione.
A seguito di questo le
culture tendono ad ibridarsi e ad assumere nuove configurazioni.
Per creolizzazione culturale (o ibridazione) s’intende questo processo di contaminazione di aspetti e forme di vita provenienti da culture diverse, a volte anche molto distanti fra loro.
Da questo punto di vista nonesiste una cultura pura e vergine, incontaminata e protetta da un isolamento totale.
Per la psicologia della cultura la creolizzazione, fenomeno tipicamente umano,si fonda più che sul contagio e l’emulazione, sulla capacitàd’imitazione degli esseri umani, vale a dire sulla curiosità, sul desiderio di esplorazione, sulla capacità di sperimentazione e d’innovazione delle persone.
Sull’esigenza di provate percorsi diversi e alternativi.
Per questo occorre non sottovalutare il valore dell’ibridazione culturale e del meticciamento, poiché, di fatto, siamo tutti culturalmente contaminati e ibridi.
L’altra faccia della medaglia.
É rappresentata dalle forme dell’instabilità nella produzione della soggettività.
Le migrazioni di massa, associate al rapido fluire delle immagini sulla rete, contribuiscono alla deterritorializzazione dello spettatore e alla costruzione di sferepubblichediasporiche come matrici di nuovi e notevoli mutamenti sociali. (Arjun Appadurai).
Oggi i lavoratori turchi in Germania guardano film turchi nei loro monolocali immersi nella nebbia del quartiere di Kreuzberg a Berlino.
Tra qualche mese milioni di emigrati dal Medio Oriente e dal Sud-est asiatico seguiranno le Olimpiadi che si terranno a Tokio in Giappone dagli schermi delle nostre televisioni, con i commenti dei nostri presentatori e in una lingua diversa dalla loro.
Un ricordo personale. L’ultima volta che sono stato a New York il tassista indiano che mi stava portando dalla 42esima al Metropolitan Museum, mentre guidava, ascoltava con uno smart–phone cinese le prediche del suo Imam pachistano.
Dalla “Dichiarazione dell’UNESCO di Messico City “(1982): La diversità culturale sono patrimonio dell’umanità.
Dalla “Dichiarazione dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani” (2007): La diversità culturale come radice del pluralismo culturale e come wellspring (sorgente) di creatività.
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La prospettiva dei Cultural Studies. La nuova geopolitica.
Globalizzazione, colonizzazione, post-modernità:
Paradigmi mescolati, sovvertiti e resi dinamici da un immaginario culturale strutturato su un traffico transnazionale di narrazioni e “visioni” su cui si esercita un potere digitale monopolizzato.
I moderni sistemi di significati socialmente organizzati, le nuove costellazioni di credenze e di pratiche rituali. La lingua si manifesta nella realtà unicamente come molteplicità (Humboldt).
I diritti assiologici (i diritti sociali della persona che non possono essere messi in dubbio dalla mera realtà dei fatti, anche se minacciati dalle ideologie dalla storia, dalla politica, delle religioni).
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I Cultural Studies sono un particolare indirizzo di studi sociali che hanno origine in Gran Bretagna come ampliamento del settore della critica letteraria verso i materiali della cultura popolare di massa.
La loro data di nascita viene fissata all’uscita dei lavori di Raymond Williams e Richard Hoggart.
The Uses of Literacy di Hoggart del 1957 e Culture and society del 1958 di Raymond Williams sono considerati i due testi fondativi di quest’indirizzo di studi.
I Cultural Studies si consolidano successivamente come corrente definita nell’area culturale britannica intorno al Centre Contemporary Culture Studies (CCCS) dell’Università di Birmingham, fondato dallo stesso Hoggart nel 1968.
Lo scopo primario del centro era lo studio dei cambiamenti nella cultura della classe operaia inglese dal dopoguerra in poi e in particolare dei mutamenti nell’orientamento della gioventù della working–class.
Sia Hoggart che Williams provenivano dall’insegnamento scolastico per adulti.
L’attività del centro di Birminghan si estende negli anni successivi fino a comprendere le tematiche del razzismo, del femminismo e dell’etnicità.
Sul piano metodologico i Cultural Studies si distinguono per un approccio quasi etnografico ai contesti indagati, attenti alle pratiche concrete degli attori sociali.
Sul piano teoretico è da segnalare una programmatica tendenza a non rinchiudersi in confini ideologici definiti. Nei lavori prodotti dal gruppo è possibile rintracciare un costruttivo e incessante dialogo con le più importanti correnti del pensiero europeo continentale : Lukàcs, Antonio Gramsci, Walter Benjamin, Althusser, per citare qualche nome. ___________________________________________________________
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La de-costruzione: Frontiere, Flussi, Contaminazioni, Appartenenze, Separazioni, Interdizioni, Interferenze. Sono forme di de-costruzione del territorio.
A questo si oppongono le forme dell’ospitalità: i nuovi nidi dell’esserci.
I confini, ovvero, terre di frontiera: luoghi di contatto (proibiti, autorizzati, regolamentati, trasgressivi) o di rifiuto. In breve: E’ solo nella volontà di chi lo costruisce che sta il limite del potere di un recinto. (Piero Zanini)
I confini come solchi.
Vale a dire solchi arati, solchi sacri, oppure “luoghi di malintesi” (Wladimic Jankélévitch).
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CONFINI
I dizionari definiscono il confine come una linea, naturale o artificiale, che delimita l’estensione di un territorio, di una proprietà o la sovranità di uno Stato.
Porre o disegnare un confine, nel suo significato metaforico, è un modo per confrontarsi, misurarsi, pretendere, riaffermare dei significati.
L’obiettivo di chi si rinchiude in un confine è soprattutto quello di possedere uno spazio autonomo dove stabilire le proprie regole e, allo stesso tempo, sottolineare un’autonomia che deve essere visibile dall’esterno.
Un’autonomia che deve apparire come una diversità riconoscibile e riconosciuta.
In questo senso il confine mostra sempre quello che è il suo carattere fondamentale:
Segnalare il luogo di una differenza, reale, immaginaria o presunta.
Ma un confine, in termini gnoseologici, è molto di più.
Rappresenta qualcosa che appartiene all’immaginario e ha poteri di natura impositiva.
Tenerlo presente aiuta a comprenderne l’importanza che esso ha sia nella cultura, che nella geopolitica, nella storia, come nelle cronache della contemporaneità.
In termini fenomenologici il confine è qualcosa di radicato alla terra e al territorio, lo si vede bene nel suo etimo, soprattutto nelle lingue indoeuropee.
In queste lingue il confine rimanda al solco che il vomere, trascinato dall’aratro, traccia nel terreno.
L’etimologia suggerisce che la radice “ar“, di aratro, indica il muoversi verso, il penetrare, lo spingersi e – al limite – il colpire.
Sullo stesso piano l’etimo di vomere, in sanscrito, rinvia al fendere,allo spezzare, al recidere.
Sul piano topologico – vale a dire dello studio dei luoghi – il fine di un “con-fine” è quello di sottrarre dello spazio al nulla, appropriarsi di uno spazio che appartiene all’infinito indistinto.
In sostanza, il confine, attribuendo una dimensione geometrica e culturale a uno spazio che non ha una dimensione, lo fa esistere, gli da una consistenza, un’identità e un nome.
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Con l’espressione di frontiera, invece, s’intende la linea di confine di uno Stato o anche la zona di confine, vale a dire, una stretta striscia di territorio che sta a ridosso del confine.
Una striscia di territorio ufficialmente delimitata, riconosciuta, e dotata, in molti casi, di opportuni sistemi difensivi e offensivi.
In senso figurato la frontiera è la linea che separa in modo inequivocabile ambienti, situazioni o concezioni differenti, spesso intesa come un limite che può essere spostato e modificato, soprattutto in senso progressivo.
C’è nella storia delle nazioni una frontiera particolare è quella americana.
Frederick Jackson Turner (1861-1932) è stato uno storico americano famoso soprattutto per il libro The Significance of the Frontier in American History (Il significato della frontiera nella storia americana), nel quale sviluppo una teoria della frontiera.
Secondo Turner la frontiera è alla base della storia americana, intesa come storia della colonizzazione dell’Ovest.
Il termine frontiera in quegli anni aveva il significato di regione scarsamente e recentemente popolata, a diretto contatto con il wilderness, il territorio non colonizzato o più in generale, l’ignoto, nella narrazione sulla conquista dell’Ovest il 1763 è l’anno d’inizio di questa avventura.
Lo spirito di frontiera significava essenzialmente individualismo, iniziativa, rischi, forme rozze di
democrazia diretta.
É un punto importante perchè nelle nuove terre poterono svilupparsi, spesso in modo originale, le istituzioni, radicarsi le tradizioni e le esperienze religiose, libere da impacci organizzativi e dogmatici e funzionali alle condizioni dell’espansione colonizzatrice.
(Il mito del revolver alla cintura…)
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Torniamo alla cultura latina la traccia del vomere rappresenta il solco “fondativo” della città e dunque dello spazio cittadino.
In questo senso è il vomere che disegna la linea materiale e culturale che separa la città dalla campagna, l’interno dall’esterno.
Per stare agli etimi, le parole solco e alzaia richiamano il “trascinare guidato”.
Non è difficile capire come il confine sia stato per gli uomini e per secoli una traccia magica, un segno sacro.
Magica perché il luogo, il territorio che racchiudeva, anche se era stata scelto dagli uomini, si supponeva rivelato dagli dei.
Non per caso che colui che tracciava o disegnava il solco era quasi sempre uno sciamano o un sacerdote.
Una volta che gli dei avevano rivelato il sito ( illuogo) l’aratro lo circoscriveva , manovrandolo in modo da far cadere la terra smossa all’interno del recinto.
Nei punti, poi, in cui dovevano essere aperte delle porte (per esempio, secondo la cultura etrusca, in numero di tre, ma ogni religione ha sempre avuto il suo numero e un’idea su dove aprirle) il sacerdote/fondatore doveva sollevare l’aratro e trasportarlo per tutta la larghezza dell’apertura in modo da non offendere lo spazio di passaggio.
Nel mondo latino questo sacerdote era il Rex, colui che ha il potere di tracciare un confine mediante l’uso della regula nel suo duplice significato di linea che delimita un territorio e di norma da seguire.
In origine la regula era un assicella di legno che serviva a tracciare le righe.
Tracciare un confine equivaleva a disegnare sulla terra una rappresentazione dell’ordine cosmico.
Per i Romani gli assi di un sito erano il cardo (che significa polo), e il decumano, l’asse che segue il corso del sole.
Insieme servivano a tracciare l’orientamento urbano della città romana.
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In dettaglio.
Il cardine (che deriva dal latino cardo) era una delle vie che correva nelle città romane in direzione nord–sud.
Queste vie erano solitamente basate su uno schema urbanistico ortogonale, ossia suddivise in isolati quadrangolari uniformi.
Uno schema molto popolare soprattutto per ‘urbanistica degli accampamenti militari e degli insediamenti coloniali.
Uno degli assi principali della centuriazione e più in generale dell’urbanistica cittadina era chiamato il cardo maximus.
Si incrociava ad angolo retto con il decumanus maximus, ovvero il principale asse est–ovest.
Quanto alla centuriazione (centuriatio) era il sistema con cui i romani organizzavano un territorio agricolo, basato sullo schema che usavano negli accampamenti militari e nella fondazione delle nuove città.
Si caratterizzava per la regolare disposizione, secondo un reticolo ortogonale, di strade, canali e appezzamenti agricoli, destinati in genere all’assegnazione a coloni o a legionari a riposo.
Di regola, all’incrocio di queste due direttrici principali si trovava quasi sempre il forum, ossia la piazza principale della città.
Il cardo maximus, inoltre, era di particolare importanza perché nell’urbanistica romana collegava (come strada) due delle quattro porte principali dell’insediamento.
Solitamente, una di queste porte era maggiormente decorata e facilmente riconoscibile perchè indicava la strada consolare che portava a Roma.
Queste due direttrici principali erano tracciate anche nell’ambito degli accampamenti romani,
all’incrocio dei quali non vi era il forum, ma il cosiddetto praetorium, ossia la tenda del comandante.
Ricordiamo che alcuni accampamenti, che erano stati costruiti in posizioni strategiche, divennero con il tempo civitas. É il caso di alcune città italiane, come Torino, Pavia, Aosta, oppure europee come Vienna e York, nell’Inghilterra Nord-orientale.
In chiave esoterica ricordiamo che il pernio era il centro attorno al quale ruotava o, meglio, roteava l’antica cosmologia dell’Univers.
Da pernio deriva il Cardine, l’asse polare o meglio, l’Asse del Mondo che congiungeva il cielo e la terra, l’alto e il basso.
Cardo, invece, discende dalla radice indoeuropea kerd (krd), dalla quale deriva il vocabolo greco di kardia e quello latino di cor–cordis, il cuore, centro della vita, ritenuto la sede della mente e dell’intelligenza, dell’amore e dell’anima, il luogo dell’incontro tra l’umano e il divino.
Nell’espressione decumano,la via che correva da est a ovest, la radice della parola decumanus (Decumus) rimanda al sanscrito Dac, che significa venerare una Divinità.
Dalla radice sanscrita Dac deriva Daca che significa “stato”, “condizione”, “età dello spirito”, “epoca della vita”.
Mentre dal termine Dec-umus si ricava il significato di consacrazione, di fecondazione della terra.
questo è il motivo perché nell’antica Roma, come in quasi tutta l’antichità, il
numero dieci (Deka in greco) era un attributo della divinità e significava
“potenza”, “splendore”, “gloria” e
“onore”.
È importante il fatto che decimus, decus, da cui decussis (una moneta romana pari a dieci assi – l’asse era una moneta in bronzo), nella lingua latina identifica la figura della croce con la quale si indicava il numero dieci sulla moneta.
Successivamente dall’incisione a croce sulla moneta deriva il “segno della croce”, che il sacerdote eseguiva per esorcizzare lo spazio sacro.
Ci sono anche altri collegamenti.
La X latina ricorda la ventiduesima lettera dell’alfabeto greco, Khi, e il Tau, l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, che in antico si scriveva con una X.
Notiamo infine che anche in Cina il segno grafico del numero 10 è la X.
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Segue.
Com’è facile intuire dagli etimi il solco ha una dimensione e un valore morale, distingue ciò che è retto da ciò che è storto.
In altri termini incidere la terra con il vomere (che come abbiamo visto rimanda al verbo spezzare) è la celebrazione di un sacrificio.
La stessa città di Roma nasce sul sacrificio, per mano di Romolo, di Remo, ucciso da questi perchè aveva osato scavalcare per dileggio, come riporta Tito Livo nella sua storia di Roma, il confine appena tracciato.
Una leggenda che contiene una lezione.
A partire dall’antichità per arrivare fino ai giorni nostri, farsi gioco dei confini è sempre stato e è ancora pericoloso.
Dentro il terreno scavato dal solco spesso c’erano dei sassi o delle pietre.
Anch’esse finivano parte di un rituale, venivano tolti e accatastati sul bordo per diventare un segno tangibile del confine, ciò che rendeva il margine visibile.
Da qui l’origine dei muri a secco, muri composti da sassi e pietre sovrapposti che cingono e difendono lo spazio liberato.
Queste pietre, che a causa della loro funzione acquistano spesso poteri particolari, oltre a costituire un riparo, diventavano in molte culture un rimedio all’incertezza e al non delineato. Il luogo di un’identità.
Poi il muro, grazie alla ferocia, all’astuzia e all’abilità degli uomini, divenne limes, vallo, muraglia, cheresiste ill tempo di un assalto e può durare secoli.
Più questo muro si rafforza e diviene imponente più appare sicuro. Più è sicuro e più attira contadini, mercanti, viaggiatori, nomadi, gente dai luoghi diversi e pericolosi.
Con il tempo attorno a questi muri si formarono delle comunità artigianali che vivevano e commerciano ai piedi dal centro abitato dai signori.
Comunità che si muteranno in borghi, dai quali, secoli dopo, nascerà un nuovo tipo di “homo faber”, il borghese.
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Frontiere, confini e limiti sono dunque delle linee che – tanto nel reale quanto nell’immaginario – tracciano, configurano, delimitano degli spazi particolari nei quali le traiettorie dell’umano, del sacro e del senso si intrecciano nei modi più disparati.
La frontiera, da un punto di vista formale, è la linea geografica di passaggio fra due spazi connotati differentemente.
È una linea che
separa e ratifica una contrapposizione.
L’idea di confine comprende una frontiera che sottolinea il fatto che i confini hanno lo scopo di sottolineare delle differenze.
Il confine, di
fatto, esprime un concettodiappartenenza più sfuocato rispetto a quella di frontiera.
Il limite, infine, definisce una linea estrema e contiene in sé, più che il concetto di frontiera o di confine, l’idea dell’invalicabilità e, al tempo stesso, il desiderio del suo superamento.
È un concetto espresso con molta efficacia da Giacomo Leopardi nella poesia L’infinito. Il sogno segreto di ogni atleta.
Il limite inoltre
serve, sul piano dei simbolismi alla rappresentazione di topografie immaginarie.
Più in generale possiamo dire che le linee che disegnano una frontiera, un confine o un limite, siano esse reali o immaginarie, geografiche o storiche, politiche o culturali, individuano una serie di spazi che hanno il compito di condizionare la rappresentazione del mondo e dell’uomo.
C’è poi un atteggiamento con il quale si guardano queste linee, è l’atteggiamento di chi valuta la possibilità o meno del loro
superamento, come se fossero degli ostacoli.
Un atteggiamento che caratterizza, da una parte, i migranti e i nomadi, dall’altra, i regimi autoritari.
Sono ostacoli con due fronti, perché il loro punto di vista cambia a seconda della parte da cui si osservano.
C’è quello di chi sta dentro e quello di chi sta fuori, culturalmente esemplificato dalla relazione dominatore v/s dominato.
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Parte seconda.
Da qualche tempo si sta ripensando il rapporto tra cultura, forme di scrittura e spazio.
È un nuovo capitolo di quella che si chiama letteratura comparata, allargata alle scienze umane, a quelle sociali e all’immaginario.
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La letteratura comparata, anche detta comparatistica (in inglese comparative literature) è la disciplina che studia i rapporti tra le letterature di lingue diverse.
È una sorta di interrogazione culturale dei testi nell’ambito della quale, l’incontro con l’Altro e dei suoi percorsi culturali, costituisce il principale motivo di analisi.
Formalmente come disciplina nasce nell’Ottocento delle lingue, delle nazioni, del Romanticismo e delle identità nazionali, ma solo in questi ultimi due decenni ha avuto degli sviluppi importanti. _______________________________________________________________________________
In particolare, da una prospettiva geocritica o più semplicemente geopolitica, questa letteratura comparata è un’opportunità per riflettere sullo sguardo dell’Altro e su come giudica gli ostacoli e le forme di accoglienza con i quali viene in contatto.
Abbiamo ricordato il tema della letteratura comparata perché ha dato vita, da una parte, ai border studies, con i loro capitoli dedicati ai processi egemonici, razziali, di diaspora, di identità e di contaminazione.
Dall’altra, a delle nuove ipotesi imago-logiche tese a considerare le images (in senso antropologico) non più come stereotipi culturali, ma principi descrittivi che possono dar vita a nuove ipotesi geo-culturali.
In breve, frontiera, confine e limite sono i nuovi soggetti di un mondo, che, come dice Lotman ha assunto impensabili e inediti tratti spaziali.
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Lotman ⟨lòtmën⟩, Jurij Michajlovič. – Teorico russo della letteratura (1922 – 1993). Titolare della cattedra di storia della letteratura russa presso l’università di Tartu in Estonia, è da considerarsi uno dei maggiori rappresentanti della scuola semiotica dell’URSS. Definì il concetto di semiosfera in un saggio del 1985 intitolato appunto La semiosfera, che è il suo studio più noto
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Tratti spaziali che negli spazi di contatto possono mettere in luce relazioni inattese tra parole e immagini, forme e rappresentazioni. Modelli di politica e life-styles.
Per riassumere, l’assenza di un paradigma unico o di un canone, nella produzione letteraria e artistica, dentro questi spazi di confine (che sono anche limiti ideologici), può oggi tradursi nella costruzioni d’immaginari fondati sul concetto di soglia, come esordio di un processo di osmosi tra linguaggi, luoghi, tradizioni e saperi.
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Cum-finis, alla lettera confine, è ciò che separa e al contempo ciò che unisce, è ciò che è in comune con l’altro, qualunque cosa l’altro o l’oltre significhi.
L’ambiguità del concetto di confine è ciò che sta alla base della sua tragicità socio-politica.
Un’ambiguità che dipende dalla sua duplice natura di artificio e di convenzione, che dovrebbe far riflettere sull’utilità dei confini, sia logici che materiali.
Blaise Pascal, riflettendo su questa ambiguità, aveva notato che ciò che era vero al di qua dei Pirenei spesso non era più vero al di là.
La definizione politica di confine che potremmo definire classica, emerge tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento dalla dottrina generale dello Stato e dalla geografia politica, soprattutto a cura di autori tedeschi.
Scrive Ratzel nel 1897:
“Nella sostanza ogni Stato è una porzione di umanità…questo fa si che l’uomo non è pensabile senza la terra… e tanto meno è pensabile la più insigne opera dell’uomo sul nostro pianeta, ovvero la forma di Stato”.
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Friedrich Ratzel (1844-1904) è stato un etnologo e un geografo tedesco tra i più autorevoli.
È il fondatore della geografia antropica, detta anche antropogeografia.
È stato colui che ha coniato l’espressione di spazio vitale (Lebensraum), espressione che ha poi avuto una larga diffusione nell’ambito demografico e soprattutto politico.
I suoi studi nel campo dell’etnologia diedero vita alla così detta scuola storico–culturale di antropologia.
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Sono gli anni in cui l’unitarietà e l’indivisibilità del territorio della nazione, insieme alla formale unità di popolo e di potere, rappresentavano gli elementi essenziali che concorrevano alla definizione della forma di Stato.
In quest’ottica la definizione di confine è una conseguenza in qualche modo scontata dell’esistenza degli Stati Nazionali.
In quest’ottica il confine è quel concetto astratto che consente di definire il processo di espansione di una popolazione o, il limite, dell’ambito territoriale di validità del potere di uno Stato.
George Curzon, che fu ministro degli esteri inglese e viceré in India, negli anni precedenti la prima guerra mondiale (1908) affermava che solo “l’integrità dei confini e la vera condizione di esistenza dello Stato”.
E aggiungeva: “I confini sono la lama di rasoio su cui sono sospese le questioni moderne della guerra e della pace”.
In queste considerazioni sulla definizione classica di confine c’è la cornice dentro cui si è consumata la storia delle migrazioni in Europa tra l’Ottocento e il Novecento.
In altri termini, la tenuta dei confini e la netta distinzione tra lo spazio interno e lo spazio esterno è stata la condizione che ha consentito il formarsi, all’inizio del secolo scorso, di importanti e in qualche modo definiti sistemi migratori.
O meglio, ha permesso il nascere di una sottomessa e disperata – dal punto di vista delle culture stanziali e nazionali – geografia delle migrazioni internazionali,come fu il caso di quella italiana verso gli Stati Uniti d’America.
A questo proposito, va notato come, a dispetto delle story–telling di comodo, in questi ultimi anni sono molti gli storici che hanno scritto come l’apparente e idilliaca rappresentazione delle migrazioni del secolo scorso sia servita sia a stigmatizzare quelle odierne e sia a mettere in ombra la immane tragedia che queste hanno rappresentato per centinaia di migliaia di persone.
Va anche aggiunto che da quando si sono diffusi – soprattutto nei paesi di lingua inglese – i cosiddetti postcolonial studies – tra i loro meriti – va messo quello di aver contribuito a mettere in crisi le vecchie definizioni di confine.
Ha osservato a questo proposito Etienne Balibar:
L’Europa è il punto da cui sono partite e sono state tracciate, dappertutto nel mondo, le linee di confine, perché l’Europa è la terra di nascita del concetto stesso di confine.
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Étienne Balibar è un filosofo francese, allievo di Louis Althusser, apprezzato per aver contribuito a sviluppare una nuova interpretazione del pensiero marxiano con specifiche riflessioni sui concetti di razza, cultura e identità. Insegna a Nanterre.
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In questo senso il problema dei confini europei è sempre coinciso con quello dell’organizzazione politica dello spazio mondiale e delle sue frontiere.
Questa ossessione europea, dice Balibar, consente di sottolineare come la proliferazione dei confini costituisce l’altra faccia della globalizzazione.
In altri termini, la globalizzazione ha inaugurato la crisi di quella connessione di Stato e Territorio che costituiva il presupposto classico della definizione di confine.
Come dicono con ironia gli inglesi: Space is out of joint, lo spazio è sballato.
Sballando ha anche banalizzato la classica definizione geopolitica di confine, un concetto che oggi ha valenze culturali, simboliche, cognitive, spesso più forti di quelle politiche.
Molti esperti sostengono che i movimenti migratori contemporanei rivelano delle tensioni e esprimono dei conflitti che non sono altro che la naturale conseguenza di questo stato di cose.
Sono la conseguenza di questa incontrollabile scomposizione e ricomposizione culturale, geopolitica, economica che stiamo vivendo.
Da questi nuovi scenari se ne deduce – tra l’altro – che i processi migratori di oggi non sono assolutamente paragonabili a quelli del secolo scorso.
In sostanza le migrazioni contemporanee hanno molti aspetti inediti.
Oltre all’aspetto economico, sono caratterizzate da una forte accelerazione dei flussi e da una trasformazione della loro composizione –basti pensare all’aumento di donne, bambini e anziani – e, soprattutto, queste migrazioni sono rese complesse da una crescente imprevedibilità delle loro direzioni.
A partire dall’ultima decade dell’Ottocento e fino alla seconda guerra mondiale i flussi migratori erano facilmente comprensibili.
Era prevedibile sia la geografia dei loro spostamenti che l’identità delle popolazioni coinvolte, come era facile individuarne le direzioni, le aree di partenza e le destinazioni.
Oggi, al contrario, i flussi sono imprevedibili, si muovono in ogni direzione, vanno dappertutto e ricorrendo al gergo anglosassone si può dire che il modello del fenomeno migratorio moderno assomigliano ad n piatto di spaghetti,
Un tempo il modello interpretativo era quello “idraulico”, i fattori di attrazione e di spinta (push and pull) dei processi migratori erano evidenti e avevano fondamenti in qualche modo oggettivi o se si preferisce razionali, dal punto di vista dei bisogni.
In sostanza, nell’ambito dei processi migratori i comportamenti soggettivi dei migranti erano riconducibili a delle motivazioni oggettive.
Oggi, il margine d’imprevedibilità dei comportamenti è di fatto incontrollabile è genera una turbolenza che non si riesce a contenere e che, a sua volta, ne genera altre.
Il fenomeno migratorio, poi, ha oggi un andamento crescente e motivazioni mutevoli, tanto che molti analisti sostengono che siamo ancora nella prima parte della sua evoluzione.
L’organizzazione che si occupa delle migrazioni umane è l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, fondata nel 1951.
L’OIM è oggi la principale organizzazione
intergovernativa in ambito migratorio, può contare su circa 165 Stati membri
e oltre 500 uffici nel mondo.
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Border studies.
Per i border studies attraversare un confine, nell’ambito di un processo migratorio, significa che un’identità viene alterata se non fratturata.
Questa teoria dei border studies è nata negli USA sulla frontiera con il Messico.
Le ricerche sul campo hanno sottolineato la funzione di ibridazione che l’esperienza della frontiera esercita sui chicanos e sui loro confini identitari.
Oggi sono diventate molto comuni espressioni come creolizzazione, meticciamento e ibridazione.
Si tratta di tre termini diversi che rinviano, sostanzialmente, allo stesso concetto.
AI fatto che nel corso del tempo storico le culture si evolvono venendo in contatto fra loro.
È una condizione che porta alla loro contaminazione e quindi a ibridarsi e a assumere nuove configurazioni.
Per creolizzazione culturale o ibridazione s’intende dunque questo processo di contaminazione di aspetti e forme di vita provenienti da culture diverse, a volte anche molto distanti fra loro.
Ricordiamo, per altro, che non esistono culture pure, incontaminate e protette da un isolamento totale.
Per le scienze sociali la creolizzazione culturale più che un problema di contagio e di emulazione, è l’espressione della capacità d’imitazione degli esseri umani.
Vale a dire è un’espressione della curiosità, del desiderio di esplorazione, della capacità di sperimentazione e d’innovazione delle persone, dell’esigenza di conoscere altre realtà culturali, diverse e alternative.
Normalmente si attribuisce a una famosa scrittrice chicana, morta qualche anno fa, e a un suo libro, il merito di aver rifondato i border studies.
Si tratta di Gloria Anzaldùa e il libros’intitola Terre di confine.
Una confine quello tra gli USA e il Messico – che questa scrittrice odiava, luogo di contraddizioni, di rabbia e di sfruttamento.
Scrive la Anzaldùa: Questa è la mia casa, questa sottile linea di filo spinato, il confine tra Stati Uniti e Messico, non es che una ferida abierta, una ferita dove il Terzo Mondo si scontra con il primo e sanguina.
In termini più sociologici diciamo che il concetto di transnazionalismo gioca un ruolo sempre più importante nel mondo globalizzato, perché la tendenza dei movimenti migratori moderni è quella di costruire e moltiplicare degli spazi sociali transnazionali contribuendo a un continuo rimescolamento della carta antropica del pianeta.
Questo transnazionalismo ha due caratteri evidenti.
– È un ripensamento del concetto di cittadinanza, perlomeno nella sua forma stanziale.
– È un grande fenomeno di ri-ontologizzazione delle frontiere, che tendono a mutare in modo irreversibile e a archiviare le ridicole distinzioni ottocentesche di dentro e fuori.
Una conseguenza di tutto ciò è l’imporsi, soprattutto per frenare l’immigrazione clandestina, di un regime di gestione delle frontiere flessibile e a geometria variabile che ha preso il posto del mito della muraglia e della fortezza invalicabili.
I tecnici lo definiscono un sistema di confine ibridizzato a cui non concorrono solo gli Stati Nazionali, ma molte altre organizzazioni internazionali e nuovi attori globali – come L’International Organization for Migration – e, non da ultimo, organizzazioni governative con finalità umanitarie.
In altri termini, come da più parti è oramai riconosciuto, la progressiva deterritorializzazione dei confini esterni e interni della polis europea ha reso discontinuo il suo spazio giuridico che oggi ammette una sovranità condivisa tra attori diversi, sia pubblici che privati.
Per deterritorializzazione si intende, in particolare, lo spostamento di funzioni tipiche del controllo dei confini ben al di là delle linee di confine tradizionali – vedi l’azione della marina italiana nel Mediterraneo – e la disseminazione di molte di queste stesse funzioni all’interno dello spazio che i confini tradizionali perimetrano, per esempio nei Centri di Accoglienza.
Poi, più in generale, il confine prolunga la sua azione all’interno della polis anche da un altro punto di vista, assecondando e favorendo la tendenza alla produzione di una pluralità di posizioni giuridiche differenziate all’interno della cittadinanza.
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(febbraio 2020)