Seconda lezione.
(Premessa)
Il futurismo italiano è la prima vera avanguardia del Novecento. La prima che è stata capace di coagulare i fermenti che agitavano quella stagione di languori decadenti, d’illusioni imperiali e di aspri scontri sociali che in seguito, dopo l’inutile strage della prima guerra mondiale, verrà definita come l’epoca bella, la Belle Epoque.
Il passaggio dall’Ottocento al Novecento fu per l’Europa un trauma violento e inaspettato che ebbe nel mito del progresso e dei riformismi, agitati da pochi entusiasti, e nella nostalgia e nel conservatorismo dei più, sobillati da una borghesia pavida, i suoi due fronti sui quali si schierarono idee, passioni, progetti, risentimenti, paure e sogni.
Se vogliamo spiegarci con i simbolismi ci sono nella modernità due naufragi che descrivono bene la sua nascita e le speranze che l’accompagnarono. Il primo è quello della fregata francese Méduse il 2 luglio 1816, che Théodore Géricault immortalò nel dipinto La zattera della Medusa nel 1819. Questo naufragio portò allo scoperto in modo imprevisto e drammatico le contraddizioni culturali e politiche che piegarono l’Ottocento, lo insanguinarono e non si risolsero mai, anzi si aggravarono.
Il secondo naufragio è quello della nave passeggeri britannica Titanic, che affondò nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912 portandosi appresso le illusioni di grandezza di un’epoca che da lì a un paio d’anni piomberà nella grande notte della guerra e che la sua stessa tecnica popolerà di incubi e di nevrosi.
Il Titanic era stato messo in cantiere una settimana dopo che Filippo Tommaso Marinetti aveva pubblicato sul quotidiano francese Le Figaro – il 20 febbraio 1909 – il “Manifeste du Futurisme”.
Cantava l’amore del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerarietà, il coraggio, l’audacia, la ribellione, caratteri essenziali della sua poesia e della sua visione del mondo.
Stupì l’Europa intera prima ancora dell’Italia, una nazione che non sapeva e non voleva riconoscersi nel suo destino, se mai lo avesse avuto.
Scosse dalle fondamenta il mondo delle idee, della cultura e della politica divenendo il detonatore di mille altre iniziative ed entusiasmi.
È la stagione del futurismo, come rivoluzione assoluta dell’arte e della vita, come poetica che voleva ricostruire il mondo a sua immagine, come opera d’arte totale.
Poi con gli anni si sfalderà fino a diventare la caricatura di se stesso, si adagerà sugli allori e i privilegi economici, gl’inganni morali, le compromissioni di un ideologia politica, il fascismo, che seguirà la sua stessa parabola, da movimento ingenuamente riformatore ad ignobile dittatura reazionaria.
Il manifesto della cucina futurista appartiene alla seconda stagione del futurismo, oramai sodale politico di un regime assolutista, accademico e nostalgico. Nel 1909 voleva uccidere il chiaro di luna, adesso se la prende con la pastasciutta. Voleva cantare le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere, dalla sommossa, voleva esaltare la fabbrica, il furore di vivere, la velocità, si ridusse a cantare i garofani allo spiedo, le uova divorziate e le polibibite a base di liquori nazionali.
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Scrive Filippo Tommaso Marinetti: “Nasce con noi futuristi la prima cucina umana, cioè l’arte di alimentarsi. Come tutte le arti essa esclude il plagio ed esige l’originalità creativa.” Ed aggiunge, più realisticamente: “Non a caso quest’opera” – La cucina Futurista, scritta in collaborazione con Fillìa, pseudonimo di Luigi Colombo – “viene pubblicata nella crisi economica mondiale” – siamo nel 1932 – “di cui appare imprecisabile lo sviluppo, ma precisabile il pericolo panico deprimente. A questo panico noi opponiamo una cucina futurista, cioè: l’ottimismo a tavola.”
Wilhelm Dilthey qualche anno prima aveva definito la nozione di Erlebnis, come un’espressione dell’esperienza vissuta che determina la conoscenza.
Gli atti alimentari possono costituire un carattere di questa esperienza vissuta?
Oggi non lo escludiamo e va riconosciuto a Marinetti, piuttosto che al futurismo, l’averlo presupposto come una possibilità di rottura della tradizione. In questo senso, il ruolo della macchina e della velocità nella poetica del primo futurismo corrisponde al ruolo che la chimica avrebbe dovuto avere nei confronti dell’arte cucinaria.
Come la macchina costituiva un nuovo modello di bellezza, la chimica rappresentava la possibilità di nuove esperienze gustative. Del resto, nella poetica del futurismo le parole in libertà equivalgono ad una cucina del senso con gli occhi bendati. Liberano nuove analogie e nuovi sapori, favoriscono il superamento della tradizione messa a nudo dall’ovvio.
C’è anche un altro aspetto del problema. Marinetti, nel vuoto della metafisica, non vuol vedere le ragioni del pessimismo e del nichilismo, preferisce il vitalismo dell’azione che si fa avventura, il simbolismo della materia, che tanto affascinava Antonio Gramsci.
Prima di entrare nei dettagli ci sono da subito almeno due autori, nel contesto culturale, che vanno ricordati – a parte, naturalmente, Alexandre Dumas padre, autore di un Grande dizionario di Cucina (1873), sono Honoré de Balzac ed Émile Zola.
Alle loro spalle troviamo Anhelme Brillat-Savarin che – nonostante la prima edizione sia uscita anonima – legherà per sempre il suo nome a La fisiologia del gusto (1825) e Charles Fourier.
Quest’ultimo nella Teoria dei quattro movimenti (1808) scrisse: “… la Gastronomia, scienza oggi derisa e apparentemente frivola, diventa in Armonia una scienza di alta politica sociale, in quanto è obbligata a calcolare i suoi allettamenti in modo da provocare per ogni piatto un legame…tra commensali, produttori, preparatori. Essa diventa così Gastrosofia, alta sapienza gastronomica, profonda e sublime teoria d’equilibrio sociale.”
Tra i due è Brillat-Savarin che Marinetti saccheggerà per la sua crociata sulla cucina, soprattutto per l’attenzione che l’autore di La fisiologia del gusto riserva ai sensi, argomento di un altro manifesto futurista, sul tattilismo, del 1921.
In ogni modo questo manifesto sulla cucina ha in Marinetti un prologo nella tragedia satirica Le Roi Bombance che egli pubblicò a Parigi nel 1905.
Il tema di quest’opera è duplice: la fame e l’eterna lotta per il potere. In essa non è difficile scorgere certi argomenti già toccati da Alfred Jarry in Ubu re, il quale, a sua volta, ha un debito con la maestosa opera di François Rabelais, Gargantua e Pantagruele.
In questo Re Baldoria Marinetti ripercorre alcuni temi politici del suo tempo a cominciare dalla dedica che recita: “Ai Grandi Cuochi della Felicità Universale Filippo Turati, Enrico Ferri, Arturo Labriola”.
Sono tre importanti esponenti del movimento socialista, il primo ne capeggia la corrente riformista, il secondo è uno dei più apprezzati studiosi del positivismo applicato alla criminologia, il terzo rappresenta l’ala rivoluzionaria del partito. In particolare Turati è chiamato Béchamel e Labriola, Estomacreux. Il clima di questa satira è ricalcato sul clima politico che aveva accompagnato lo sciopero generale in Francia del settembre del 1904. Uno sciopero che amplificò le paure della borghesia e fece avanzare, nelle successive elezioni, i liberali a spese dei socialisti.
Per Marinetti fu la prova della vittoria dell’individualismo sulle masse, contro “la fallacia del socialismo, la gloria dell’anarchia e la completa ridicolizzazione degli imbonitori, riformisti o altri cuochi del bene universale.”
Va ricordato come nell’Ottocento era molto popolare l’accostamento satirico tra la politica e la cucina a cominciare da Karl Marx che, nella seconda edizione di Il capitale ironizza su quanti gli hanno rimproverato di non aver saputo “prescrivere ricette per l’osteria dell’avvenire”.
Fin dall’inizio il futurismo ha avuto in sé, prorompente, una duplice vocazione, distruggere il passato e ricostruire il mondo dal suo punto di vista ideologico a partire dalla vita eroica vissuta sul filo del pericolo e dal mito estatico della modernità.
Lo stesso sedersi a tavola e i piaceri del palato non potevano, dunque, restare sotto silenzio.
Un primo tentativo iconoclasta di sovvertire le abitudini lo abbiamo nel 1910, con La cena a rovescio, servita al Politeama Rossetti di Trieste, che segue ad una delle loro movimentate serate futuriste a base di sberleffi e schiaffi.
Leggiamo il menu: Caffè, Dolci memorie frappées, Frutta dell’avvenire, Marmellata di gloriosi defunti, Arrosto di mummia con fegatini di professore, Insalata archeologica, Spezzatino di passato con piselli esplosivi in salsa storica, Pesce del Mar Morto, Grumi di sangue in brodo, Antipasto di demolizioni, Vermuth.
L’esperimento, intriso di goliardia, sarà ripetuto qualche anno dopo a Roma, nel 1913, presso la trattoria romana alle Venete, in via Campo Marzio. Questa cena, in particolare, celebrava una tumultuosa serata finita a bastonate che si era tenuta al Teatro Costanzi ed inneggiante alla guerra, rimedio spartano a tutto. Il menu riflette ed esalta, per così dire, il loro eroismo.
Si componeva di: Risotto alla Valentina, Fegatelli, Pesce d’Altomare marinettato, Trafiletti con poemi d’Auro d’Alba (pseudonimo di Umberto Bottone, dannunziano, futurista e poi fascista convinto), Asparagi di Pratella, Contro Carrà di vitello con insalata Russola, Tum-tim Balla alla vaniglia, Frutta, Grandine, Folgore, Panini Soffici, Boccioni di vino.
Va osservato, però, che il primo che nel Novecento osò mescolare l’arte con la cucina fu Guillaume Apollinaire (1888-1918). Nel numero di gennaio del 1913, della rivista parigina Fantasio pubblica un breve saggio intitolato “Le cubisme culinaire”. Si auspica una rivoluzione alimentare che stia alla vecchia cucina come il cubismo sta alla vecchia pittura.
È una stagione di manifesti e di proclami che diventerà presto di equivoci e di squadrismi.
Marinetti è di casa a Parigi, con Apollinaire, nel 1913, firma un manifesto sull’”antitradizione futurista” (serve a riappacificare l’avanguardia parigina offesa da un articolo di Umberto Boccioni pubblicato su Lacerba dove s’insinuava che i futuristi fossero plagiati dai francesi), nel settembre dello stesso anno uno chef, Jules Maincave pubblica, sempre sul Fantasio, un manifesto intitolato “La cuisine futuriste”, si dichiara annoiato dai “metodi tradizionali delle mescolanze, monotoni sino alla stupidità”.
Per superare questo stato di cose Maincave propone di sperimentare accostamenti di alimenti che sono separati, a suo dire, da prevenzioni senza fondamento, come filetto di montone e salsa di crostacei, noce di vitello ed assenzio, banana e groviera.
Così ne scriverà qualche anno dopo Marinetti sulla Fiera letteraria:
“Alla vigilia della guerra vi fu un vivo clamore nella stampa francese pro e contro le teorie culinarie futuriste di un notissimo ed abilissimo cuoco francese, Jules Maincave. Il mio incontro con questo geniale artista del palato doveva essere seguito dal lanciamento del suo manifesto della cucina futurista…(ma) arruolatosi e divenuto cuoco del 90° reggimento di fanteria in linea nelle Argonne non poté più occuparsi di propaganda…”
Con orgoglio Marinetti ci racconta che durante l’ispezione del reggimento da parte del generale Gourand, Maincave gli offrì delle vivande futuriste che furono apprezzate, ma ai complimenti questo cuoco rispose con fierezza: “Ciò mi fa più piacere che la mia croce di guerra! Ho cucinato questo pranzo, come sempre, con il fuoco stesso del nemico”. Conclude Marinetti: “Quel fuoco glorioso uccise Maincave”.
Ritrovato tra le sue carte il manifesto fu poi pubblicato come allegato a questo articolo. Era il maggio del 1927. Con il senno di poi si può dire che anche tale documento porta sottotraccia l’impronta del fondatore del futurismo.
In ogni modo afferma Maincave: “…un centinaio di individui ignobili quanto ignari, fregiati del pomposo titolo di chef e infatuati delle loro funzioni, si accaniscono ad annullare nell’uomo la sensazione gustativa e a corrodere la tattilità della bocca, che non è più che un apparato masticatorio invece di essere – ciò che è il fine della sua creazione – il centro dei più intensi godimenti.”… Occorre dunque muovere alla conquista delle “due formidabili Bastiglie della cucina moderna: le misture e gli aromi.”
Come abbiamo detto, questa esperienza francese fu interrotta dalla guerra, ma c’è ancora un’altra iniziative da segnalare prima di arrivare al “manifesto” pubblicato nell’agosto del 1930 su La Gazzetta del Popolo di Torino. È un proclama intitolato Culinaria futurista, firmato da una sedicente “Irba futurista”, fu pubblicato su la rivista Roma Futurista nel maggio del 1920.
Irba chiede un rinnovamento gastronomico che aiuti a rompere con il “noiosissimo e passatista ordinamento” nella successione delle vivande, con i servizi di “porcellana bianca con la riga bleu e d’oro, tanto cari ai borghesi” e con le “vivande che sembrano annoiarsi sull’uniformità dei piatti pedantescamente uguali”, facendo ridere di gioia la tavola con ”la diversità dei rosso-verdi-giallo-azzurro dei piatti grandi-piccoli-ovaliquadri-tondi”.
Chi è Irba? Forse è una donna, “irba”, ad ogni buon conto, è la parola francese “abri” letta al contrario che significa riparo, rifugio. Nella sostanza questo manifesto sottolinea più che altro l’importanza del colore e della forma dei piatti rispetto al colore e al sapore degli alimenti. Un principio, non va dimenticato, che da secoli sottolinea lo stile della cucina in Oriente.
Questo della ceramica e del suo design è un altro tema caro ai futuristi che frequentavano le botteghe artigiane di ceramisti di Albissola Marina e corre parallelo all’interesse per l’architettura d’interni, sia delle abitazioni che dei cabaret, dei ristoranti e dei teatri.
Veniamo ora al manifesto della cucina. C’è negli anni Trenta, sull’euforia di un nuovo quanto apparente benessere economico, un notevole interesse per la cucina e il cibo, è un modo pruriginoso di non vedere ciò che stava accadendo in politica. Paul Morand, grande e tragico chroniqueur di quest’epoca, la definirà la “decade dell’illusione”.
Nel 1931 esce il primo numero della Guida gastronomica d’Italia edita dal Touring Club. L’Editoriale Domus pubblica Il Quattrova illustrato, ovvero la cucina elegante, visto retrospettivamente è un importante documento culturale della cucina italiane del primo Novecento curato da Tomaso Buzzi e Giò Ponti.
Dal 1929 si pubblicava a Milano La Cucina Italiana, un mensile fondato da Umberto Notari con la collaborazione della moglie e di un comitato di degustazione che comprendeva tra gli altri, Massimo Bontempelli, Carlo Carrà e lo stesso Marinetti, amico di lunga data di Notari.
Non per caso il manifesto della cucina futurista, pubblicato su La Gazzetta del Popolo di Torino nel 1930 fu riproposto l’anno successivo da La Cucina Italiana, provocando la reazione di Bontempelli che difendeva, e non era il solo, il cosiddetto novecentismo a tavola. Nello stesso anno fu pubblicato anche dalla rivista Comoedia, una pubblicazione teatrale che si fonderà qualche anno dopo con Scenario.
In ogni modo la polemica tra futuristi ed opinione pubblica si sviluppò soprattutto banchettando e sulle riviste satiriche. Lo stesso Antonio Gramsci, dal carcere, sottolinea come il proverbio reso famoso da Feuerbach, “l’uomo è ciò che mangia” sia tornato di attualità con Marinetti che lotta, dice Gramsci, “contro la tradizione della pastasciutta”.
Il riferimento a Feuerbach si può cogliere in questo passaggio del “manifesto”: “…si pensa, si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia.” In realtà verso la fine dell’Ottocento era molto diffusa la convinzione positivista che l’alimentazione in qualche modo influisse sull’umore e la morale degli individui.
Si può dire che tutto inizia nel 1850, con la pubblicazione di un libro da parte di un fisiologo olandese, Jacob Moleschott, oggi dimenticato, ieri famoso se non altro per le polemiche che lo circondavano, intitolato, Dottrina dell’alimentazione per il popolo. Un libro che sarebbe passato inosservato se non fosse che questo medico era uno dei protagonisti di quello che allora si chiamava materialismo scientistico, il cui obiettivo, anche se giudicato con sospetto da Friedrich Engels, era di dissolvere le tesi della Naturphilosophie hegeliana.
La pubblicazione del documento programmatico della cucina futurista era stata anticipata nel novembre del 1930 durante una serata al ristorante Penna d’oca di Milano, ritrovo dei più noti giornalisti lombardi del tempo, dove Marinetti aveva reso nota la sfida contro la pastasciutta, definita con espressioni enfatiche e dispregiative quale “assurda religione gastronomica”, “alimento amidaceo… che si ingozza e non si mastica”, “palla e rudere che gli italiani portano nello stomaco come ergastolani e archeologi”, “vivanda passatista perché appesantisce, abbruttisce, illude sulla sua capacità nutritiva, rende scettici, lenti e pessimisti”.
Oltre all’eliminazione delle tagliatelle e dei maccheroni, cibi antivirili e antiguerrieri, Filippo Tommaso Marinetti predicò l’abolizione della forchetta e del coltello a favore della riscoperta del piacere tattile prelabiale, auspicò la creazione di bocconi simultanei e cangianti, incoraggiò l’accostamento ai piatti di musiche, poesie e profumi. Invitò al consumo di riso, carne e verdure.
Ciò che suscitò maggior interesse del suo manifesto fu la crociata contro gli spaghetti, a cui venne dato ampio spazio sulla stampa anche dei quotidiani, dove si fronteggiarono pareri contrari e favorevoli.
La stessa La Cucina Italiana aprì un’inchiesta accogliendo interventi di esponenti della cultura e di illustri medici del tempo, altri giudizi trovarono una tribuna su molti quotidiani italiani e, persino, sul New York Times e sul Chicago Tribune.
Come è facile constatare anche in altri manifesti di questa avanguardia, la furia iconoclasta dei futuristi è stata spesso profetica. Mangiare con le mani – fingers food, street food – è ora una moda che, partita come necessità da più parti del terzo mondo, ha conquistato le capitali dell’Occidente interagendo con i nuovi stili di vita urbani. Questa nuova ristorazione ha de-sincronizzato i tempi sociali degli atti alimentari. Essa non è solo la ristorazione delle fiere, dei mercati, delle grandi esposizioni, ma anche dei mutamenti organizzativi, delle nuove esigenze di studio, del movimento serale e notturno.
Insomma il cibo adesso è a-cronico, grazie al suo packaging si può consumare in ogni momento, in ogni luogo, in ogni occasione e segna la fine del del cibo abbondante che riempie, ora stuzzica e diverte, s’intreccia con le miserabili felicità della vita corrente, esprime una sorta di etica del desiderio. Mangiare con le mani o con posateria ad-hoc semplice e a perdere esprime questi riti del piacere rapido che non tollera ostacoli. Si potrebbe definire uno zapping culinario, un modo per assaporare mini porzioni da prendere con le dita immersi in un caleidoscopio di colori e di sapori.
Naturalmente l’antica paura di morire di fame si è metamorfizzata in una nuova paura, quella dell’obesità. Che Marinetti avesse ragione?
Le polemiche infiammarono anche gli stessi sodali del gruppo. Non tutti erano d’accordo nel mettere al bando un piatto per cui l’Italia poteva menar vanto nel mondo. Farfa per esempio, definì i ravioli lettere d’amore in una busta color rosa, mentre i futuristi liguri scrissero sulla rivista Oggi e Domani una lettera-supplica a Filippo Tommaso Marinetti affinché risparmiasse nella sua crociata contro la pasta “lunga” almeno le trenette al pesto.
In questo clima di rivolta la sera dell’8 marzo del 1931 aprì a Torino la Taverna del Santopalato, un locale di proprietà di Angelo Gioachino, che aveva “lo scopo preciso di passare dalla teoria alla pratica nella polemica futurista” attraverso un programma tecnico e di rinnovamento del gusto e delle abitudini alimentari degli italiani, da realizzare con l’invenzione di nuove vivande. Il banchetto inaugurale vide l’aeropittore Fillia e il critico d’arte futurista Paolo Alcide Saladin in gara con i cuochi Piccinelli e Borghese nella preparazione del complicato e barocco menù della serata, in cui vennero serviti piatti dai nomi curiosi, come l’Antipasto intuitivo, il Brodo solare, il Carneplastico, il Mare d’Italia e il Pollofiat.
Tra il febbraio del 1931 e il marzo del 1932, il movimento futurista portò dunque avanti la propria crociata contro la pastasciutta, con una serie di conferenze in parecchie città italiane e straniere come Savona, Cuneo, Trieste, Brescia, Budapest, Sofia e Tunisi e con una serie di banchetti dimostrativi che toccarono le città di Parigi, Novara, Chiavari e Bologna, intorno ai quali fiorirono numerosi aneddoti.
Stando a quanto racconta lo stesso Marinetti, ne La cucina futurista, le donne aquilane uscirono dalla loro usuale apatia per firmare una solenne lettera-supplica a favore della pasta.
A Napoli si fecero cortei popolari in difesa dei vermicelli, il piatto più amato da Pulcinella, e su molti giornali scandalistici comparvero dei fotomontaggi ironici in cui era immortalato il padre del Futurismo intento a ingozzarsi di spaghetti.
En passant, va detto per correttezza che Marinetti oltre ad essere astemio non amava stare a tavola, adorava il caffè e le sigarette fino al punto che si era meritato il soprannome di “caffeina”, inoltre, dietro i pressanti aspetti politici legati al tema dell’autosufficienza alimentare della nazione, che lo compromettevano con il regime, ciò che gli interessavano erano gli aspetti estetici che legavono l’edonismo della gola all’arte in una sota di pansensualismo.
Siccome l’entusiasmo eccessivo rende sospettosi, la campagna contro la pastasciutta in nome della velocità e della poesia ci suggerisce che certi valori dietetici stavano cambiando, ma anche che in questa campagna c’era, ed è provato, lo zampino dell’Ente Nazionale Risi che contribuì al suo finanziamento.
La storia di questi due anni di cucina avanguardista, all’insegna della sorpresa e della teatralità, venne pubblicata, come abbiamo visto, nel 1932 dalle edizioni Treves (l’attuale Sonzogno), con un ricco corredo di lettere, di articoli, notizie sui grandi pranzi futuristi completi di menù e di ricette, nonché di un formulario futurista per ristoranti e bar, ribattezzati da Filippo Tommaso Marinetti e da Fillìa – autori del volume – quisibeve, oltre che di un piccolo dizionario, in cui i termini relativi alla ristorazione erano stati riscritti in modo da abolire ogni parola straniera: il dessert era diventato il peralzarsi, il cocktail era chiamato la polibibita. Il pic-nic, il prestoalsole. Il menù, la listavivande e il sandwich, il traidue.
Se guardiamo oltre la provocazione, la sostanza di questo manifesto sulla cucina è sostanzialmente libresca e a tratti antiquata, grossolana e a-storica,, come nel caso del recupero del dolce mescolato con il salato, tipico della tradizione medioevale.
In pratica le ricette, anzi le formule come sono pomposamente chiamate, da un punto di vista cucinario sono ancora delle semplici variazioni di preparazioni tradizionali, l’innovazione sta interamente nella forma e nel modo di presentarle in tavola. Le uniche che in qualche modo si riscattano, sul piano poetico, sono quelle prive di ogni logica e volutamente in-commestibili. Sono formule che analogia ricordano la tecnica surrealista dei “cadavre exquis” destinate alla polemica e allo sberleffo.
L’esperienza futurista non segnò, dunque, la svolta gastronomica desiderata dai suoi ideatori: La Taverna del Santopalato ebbe vita breve, gli aerobanchetti si consumarono nell’indifferenza generale e le ricette antipassatiste non fecero presa sulle massaie preoccupate dalla bilancia della spesa, essendo più un’espressione artistica e un appagamento intellettuale che non una soddisfazione del gusto.
Figlia del proprio tempo nell’esaltazione del nazionalismo e della guerra (lo documentano gli echi bellici o patriottici di pietanze come il Pollo d’acciaio e il Golfo di Trieste), ma anche di un passato cucinario glorioso che ha le proprie radici nella Roma Imperiale e nel Rinascimento dove si usava condire i piatti con petali di rosa, mosto o miele, la cucina di Marinetti è stata inopinatamente riscoperta solo in anni recenti, con l’avvento della nouvelle cuisine, come dimostrano, oggi, il reiterato ricorso ad alimenti esotici (carne di cammello, formaggio d’Olanda, noccioline, datteri, ananas, tamarindo, frutta candita, miele e zabaione), l’uso di accostare sapori tra loro distanti (datteri e acciughe o carne e banana), soprattutto, l’attenzione per l’aspetto pittorico e scultoreo delle portate, in modo che, si augurava Marinetti, finalmente tutte le persone “abbiano la sensazione di mangiare, oltre che dei buoni cibi, anche delle opere d’arte”.
Che cosa invece resta di questo manifesto dal punto di vista dell’arte moderna?
Sostanzialmente un’idea che ritroviamo in quasi tutti i manifesti futuristi minori, quelli che alla distanza si sono dimostrati i più geniali e lungimiranti. Una sincera volontà di equiparare l’esperienza cucinaria all’esperienza artistica, senza porre nessun limite, e questa alla vita corrente.
Manifesto della Cucina Futurista
Il Futurismo italiano, padre di numerosi futurismi e avanguardisti esteri, non rimane prigioniero delle vittorie mondiali ottenute “in venti anni di grandi battaglie artistiche politiche spesso consacrate col sangue” come le chiamò Benito Mussolini. Il Futurismo italiano affronta ancora l’impopolarità con un programma di rinnovamento totale della cucina.
Fra tutti i movimenti artistici letterari è il solo che abbia per essenza l’audacia temeraria. Il novecentismo pittorico e il novecentismo letterario sono in realtà due futurismi di destra moderatissimi e pratici. Attaccati alla tradizione, essi tentano prudentamente il nuovo per trarre dall’una e dall’altro il massimo vantaggio.
Contro la pastasciutta
Il Futurismo è stato definito dai filosofi “misticismo dell’azione”, da Benedetto Croce “antistoricismo”, da Graça Aranha “liberazione dal terrore estetico”, da noi “orgoglio italiano novatore”, formula di “arte-vita originale”, “religione della velocità”, “massimo sforzo dell’umanità verso la sintesi”, “igiene spirituale”, “metodo d’immancabile creazione”, “splendore geometrico veloce”, “estetica della macchina”.
Antipraticamente quindi, noi futuristi trascuriamo l’esempio e il mònito della tradizione per inventare ad ogni costo un nuovo giudicato da tutti pazzesco.
Pur riconoscendo che uomini nutriti male o grossolanamente hanno realizzato cose grandi nel passato, noi affermiamo questa verità: si pensa si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia.
Consultiamo in proposito le nostre labbra, la nostra lingua, il nostro palato, le nostre papille gustative, le nostre secrezioni glandolari ed entriamo genialmente nella chimica gastrica.
Noi futuristi sentiamo che per il maschio la voluttà dell’amare è scavatrice abissale dall’alto al basso, mentre per la femmina è orizzontale a ventaglio. La voluttà del palato è invece per il maschio e per la femmina sempre ascensionale dal basso all’alto del corpo umano. Sentiamo inoltre la necessità di impedire che l’Italiano diventi cubico massiccio impiombato da una compattezza opaca e cieca. Si armonizzi invece sempre più coll’italiana, snella trasparenza spiralica di passione, tenerezza, luce, volontà, slancio, tenacia eroica. Prepariamo una agilità di corpi italiani adatti ai leggerissimi treni di alluminio che sostituiranno gli attuali pesanti di ferro legno acciaio.
Convinti che nella probabile conflagrazione futura vincerà il popolo più agile, più scattante, noi futuristi dopo avere agilizzato la letteratura mondiale con le parole in libertà e lo stile simultaneo, svuotato il teatro della noia mediante sintesi alogiche a sorpresa e drammi di oggetti inanimati, immensificato la plastica con l’antirealismo, creato lo splendore geometrico architettonico senza decorativismo, la cinematografia e la fotografia astratte, stabiliamo ora il nutrimento adatto ad una vita sempre più aerea e veloce.
Crediamo anzitutto necessaria:
a) L’abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana.
Forse gioveranno agli inglesi lo stoccafisso,il roast-beef e il budino, agli olandesi la carne cotta col formaggio, ai tedeschi il sauer-kraut, il lardone affumicato e il cotechino; ma agli italiani la pastasciutta non giova. Per esempio, contrasta collo spirito vivace e coll’anima appassionata generosa intuitiva dei napoletani. Questi sono stati combattenti eroici, artisti ispirati, oratori travolgenti, avvocati arguti, agricoltori tenaci a dispetto della voluminosa pastasciutta quotidiana. Nel mangiarla essi sviluppano il tipico scetticismo ironico e sentimentale che tronca spesso il loro entusiasmo.
Un intelligentissimo professore napoletano, il dott. Signorelli, scrive: “A differenza del pane e del riso la pastasciutta è un alimento che si ingozza, non si mastica. Questo alimento amidaceo viene in gran parte digerito in bocca dalla saliva e il lavoro di trasformazione è disimpegnato dal pancreas e dal fegato. Ciò porta ad uno squilibrio con disturbi di questi organi. Ne derivano: fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo”.
Invito alla chimica.
La pastasciutta, nutritivamente inferiore del quaranta per cento alla carne, al pesce, ai legumi, lega coi suoi grovigli gli italiani di oggi ai lenti telai di Penelope e ai sonnolenti velieri, in cerca di vento. Perchè opporre ancora il suo blocco pesante all’immensa rete di onde corte lunghe che il genio italiano ha lanciato sopra oceani e continenti, e ai paesaggi di colore forma rumore che la radiotelevisione fa navigare intorno alla terra? I difensori della pastasciutta ne portano la palla o il rudero nello stomaco, come ergastolani o archeologi. Ricordatevi poi che l’abolizione della pastasciutta libererà l’Italia dal costoso grano straniero e favorirà l’industria italiana del riso.
b) L’abolizione del volume e del peso nel modo di concepire e valutare il nutrimento.
c) L’abolizione delle tradizionali miscele per l’esperimento di tutte le nuove miscele apparentemente assurde, secondo il consiglio di Jarro Maincave e altri cuochi futuristi.
d) L’abolizione del quotidianismo mediocrista nei piaceri del palato.
Invitiamo la chimica al dovere di dare presto al corpo le calorie necessarie mediante equivalenti nutritivi gratuiti di Stato, in polvere o pillole, composti albuminoidei, grassi sintetici e vitamine. Si giungerà così ad un reale ribasso del prezzo della vita e dei salari con relativa riduzione delle ore di lavoro. Oggi per duemila kilowatt occorre soltanto un operaio. Le macchine costituiranno presto un obbediente proletariato di ferro acciaio alluminio al servizio degli uomini quasi totalmente alleggeriti dal lavoro manuale. Questo, essendo ridotto a due o tre ore, permette di perfezionare e nobilitare le altre ore col pensiero le arti e la pregustazione di pranzi perfetti.
In tutti i ceti i pranzi saranno distanziati ma perfetti nel quotidianismo degli equivalenti nutritivi.
Il pranzo perfetto esige:
1. Un’armonia originale della tavola (cristalleria vasellame addobbo) coi sapori e colori delle vivande.
2. L’originalità assoluta delle vivande.
Il “Carneplastico”
Esempio: per preparare il Salmone dell’Alaska ai raggi del sole con salsa Marte, si prende un bel salmone dell’Alaska, lo si trancia e passa alla griglia con pepe e sale e olio buono finché è bene dorato. Si aggiungono pomodori tagliati a metà preventivamente cotti sulla griglia con prezzemolo e aglio.
Al momento di servirlo si posano sopra alle trancie dei filetti di acciuga intrecciati a dama. Su ogni trancia una rotellina di limone con capperi. La salsa sarà composta di acciughe, tuorli d’uova sode, basilico, olio d’oliva, un bicchierino di liquore italiano Aurum, e passati al setaccio. (Formula di Bulgheroni, primo cuoco della Penna d’Oca.)
Esempio: Per preparare la Beccaccia al Monterosa salsa Venere, prendete una bella beccaccia, pulitela, copritene lo stomaco con delle fette di prosciutto e lardo, mettetela in casseruola con burro, sale, pepe, ginepro, cuocetela in un forno molto caldo per quindici minuti innaffiandola di cognac. Appena tolta dalla casseruola posatela sopra un crostone di pane quadrato inzuppato di rhum e copritela con una pasta sfogliata. Rimettetela poi nel forno finchè la pasta è ben cotta. Servitela con questa salsa: un mezzo bicchiere di marsala e vino bianco, quattro cucchiai di mirtilli, della buccia di arancio tagliuzzata, il tutto bollito per 10 minuti. Ponete la salsa nella salsiera e servitela molto calda. (Formula di Bulgheroni, primo cuoco della Penna d’Oca).
3. L’invenzione di complessi plastici saporiti, la cui armonia originale di forma e colore nutra gli occhi ed ecciti la fantasia prima di tentare le labbra.
Esempio: Il Carneplastico creato dal pittore furista Fillìa, interpretazione sintetica dei paesaggi italiani, è composto di una grande polpetta cilindrica di carne di vitello arrostita ripiena di undici qualità diverse di verdure cotte. Questo cilindro disposto verticalmente nel centro del piatto, è coronato da uno spessore di miele e sostenuto alla base da un anello di salsiccia che poggia su tre sfere dorate di carne di pollo.
“Equatore + Polo Nord.”
Esempio: Il complesso plastico mangiabile Equatore + Polo Nord creato dal pittore furista Enrico Prampolini è composto da un mare equatoriale di tuorli rossi d’uova all’ostrica con pepe sale limone. Nel centro emerge un cono di chiaro d’uovo montato e solidificato pieno di spicchi d’arancio come succose sezioni di sole. La cima del cono sarà tempestata di pezzi di tartufo nero tagliati in forma di aeroplani negri alla conquista zenit.
Questi complessi plastici saporiti colorati profumati e tattili formeranno perfetti pranzi simultanei.
4. L’abolizione della forchetta e del coltello per i complessi plastici che possono dare un piacere tattile prelabiale.
5. L’uso dell’arte dei profumi per favorire la degustazione.
Ogni vivanda deve essere preceduta da un profumo che verrà cancellato dalla tavola mediante ventilatori.
6. L’uso della musica limitato negli intervalli tra vivanda e vivanda perchè non distragga la sensibilità della lingua e del palato e serva ad annientare il sapore goduto ristabilendo una verginità degustativa.
7. L’abolizione dell’eloquenza e della politica a tavola.
8. L’uso dosato della poesia e della musica come ingredienti improvvisi per accendere con la loro intensità sensuale i sapori di una data vivanda.
9. La presentazione rapida tra vivanda e vivanda, sotto le nari e gli occhi dei convitati, di alcune vivande che essi mangeranno e di altre che essi non mangeranno, per favorire la curiosità, la sorpresa e la fantasia.
10. La creazione dei bocconi simultanei e cangianti che contengano dieci, venti sapori da gustare in pochi attimi. Questi bocconi avranno nella cucina futurista la funzione analogica immensificante che le immagini hanno nella letteratura. Un dato boccone potrà riassumere una intera zona di vita, lo svolgersi di una passione amorosa o un intero viaggio nell’Estremo Oriente.
11. Una dotazione di strumenti scientifici in cucina: ozonizzatori che diano il profumo dell’ozono a liquidi e a vivande, lampade per emissione di raggi ultravioletti (poiché molte sostanze alimentari irradiate con raggi ultravioletti acquistano proprietà attive, diventano più assimilabili, impediscono il rachitismo nei bimbi, ecc.) elettrolizzatori per scomporre succhi estratti ecc. in modo da ottenere da un prodotto noto un nuovo prodotto con nuove proprietà, mulini colloidali per rendere possibile la polverizzazione di farine, frutta secca, droghe eccetera; apparecchi di distillazione a pressione ordinaria e nel vuoto, autoclavi centrifughe, dializzatori. L’uso di questi apparecchi dovrà essere scientifico, evitando p.es. l’errore di far cuocere le vivande in pentole a pressione di vapore, il che provoca la distruzione di sostanze attive (vitamine, ecc.) a causa delle alte temperature. Gli indicatori chimici renderanno conto dell’acidità e della basicità degli intingoli e serviranno a correggere eventuali errori: manca di sale, troppo aceto, troppo pepe, troppo dolce.