Esercitazione 8 – 2008-09

IED – Sociologia – Anno accademico 2008-2009. 

Tema della nona esercitazione.
“Véhigadta lé-vinkha…”
(Esodo, XIII, 8)
Celebrando il “Cicer arietinum.”
Il cece è una pianta erbacea annuale della famiglia delle Fabaceae, ha il fusto peloso, le foglie dentate, i fiori bianchi, rosei o rossi.  Le radici, che penetrano in profondità nel terreno, fanno in modo che la sua cultura richieda poca acqua.  I baccelli che contengono fino a quattro “semi” sono di color paglierino, i semi sono di forma tondeggiante e consistenza dura.  L’espressione di “arietinum” deriva dalla forma del seme che assomiglia alla testa di un ariete.
I semi o ceci, hanno un alto tenore di glucidi e una buona percentuale di proteine vegetali, oltre che sostanze azotate, lipidi, ossido di ferro e vitamine.  I ceci sono originari di quella zona compresa tra il sud-est della Turchia, la Siria e l’Iraq, cioè di quell’area detta della “mezzaluna fertile”.  Oggi si sono acclimatati in tutto il mondo, in particolare nel bacino del Mediterraneo, in Afghanistan, in India e in Pakistan.
Il loro antico nome è hallaru, costituiva una delle principali risorse alimentari della Mesopotania, in arabo è hullar.  Il nome latino deriva dal greco Kickere, la cui radice si trova anche nel berbero ikiker.  Un aneddoto.  Cicerone deve il suo nome ad una grossa verruca a forma di cece che aveva sul volto.  Lo stesso soprannome ricevette il faraone Ptolémée IX, chiamato Lathyros.  Nell’antica Roma, tostato, era un rimedio contro l’impotenza sessuale maschile.  Nel Medioevo era apprezzato come antidiarroico e, in polvere, come farmaco contro le infezioni.
La produzione mondiale di ceci si stima intorno a nove milioni di tonnellate.  Rappresenta, per volume di produzione, la terza leguminose prodotta nel mondo, dopo la soia e il fagiolo.  I ceci sono mangiati, una volta cotti, interi, caldi o freddi, da soli o mescolati alle zuppe e ai couscous.  Molto comune è anche l’uso sotto forma di farina, sia per preparazioni salate che dolci.
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Non c’è paese che si bagni nel Mediterraneo che non abbia almeno una dozzina di piatti a base di ceci o di farina di ceci.  Alcuni di questi piatti sono molto popolari, si va dall’Hummus o hamos al sesamo, alla panisse del sud-est della Francia.  Dai falafel, arabo-israeliani, alla farinata del genovese, a fainâ de çeixai.  Dalla torta di ceci del livornese, al laban ma’hummus palestinese.  Dal kudshiya giordano, al humus masabacha dei sabra.  (Sabra, indica una persona nata in Israele, deriva da tzabar, che è il nome del fico d’India, le cui “pale”, spellate e tagliate a dadini servono a preparare un’antica “ratatuglia” con i ceci, la cipolla, il cumino, l’olio e il succo di limone.)  La farinata ligure diventa socca a Mentone.  Fainé in Sardegna.  Panelle in Sicilia.  Cecina sulla costa tirrenica della Toscana.  Calentica in Algeria.  Calentita a Gibilterra.  I falafel si chiamano keftedes in Grecia e si accompagnano alla purea di melanzane o al riso.  I ceci sostituiscono la carne nella moussaka.  Diventano croquetas in Spagna, popolari come il cuscús con i garbanzos.  Alla fine i ceci finiscono nelle zuppe, nelle minestre, nella mesciua, nelle creme, sostituiscono la farina nelle paste e nei dolci dei celiaci.
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Il Mediterraneo è ancora una volta attraversato dai venti di guerra.  Brucia il Libano, si combatte in Palestina, a Gaza, si affoga con barchi e barchini di fortuna cercando di penetrare la Fortezza Europa, la diffidenza cova sotto le volte delle moschee, delle sinagoghe, delle chiese.
Possiamo elaborare, a partire da ciò che rappresenta questa antica e modesta leguminosa nell’alimentazione, un simbolo che comunichi la fratellanza per le donne e gli uomini del Libro che si affacciano sul Mediterraneo?
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Nei sette giorni si mangeranno azzimi e non ci sarà per te lievito.  E tu lo racconterai ai tuoi figli… (Esodo)
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Ogni gruppo può elaborare l’immagine di questa esercitazione con il mezzo espressivo che meglio ritiene opportuno, disegno, foto, fumetto, collage, rappresentazione elaborata per via elettronica.
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L’elaborato dovrà essere presentato stampato su carta e in dischetto, accompagnato da una breve relazione esplicativa.  Non sono accettati altri supporti. 
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Celebrando il Cicer arietinum

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Celebrando il Cicer arietinum

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Celebrando il Cicer arietinum

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Esercitazione 7 – 2008-09

IED – Sociologia – Anno accademico 2008-2009.

Tema dell’ottava esercitazione.
LA CITTÁ E LA FLÂNERIE.
Con che occhi la guardiamo, con quali orecchie l’ascoltiamo, con quale cuore l’amiamo.
(Dal cartello stradale che l’annuncia alla saponetta sulla mensola del bagno di una camera d’albergo.)
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Traccia per l’esercitazione.

“Non sapersi orientare in una città non vuol dire molto. Ma smarrirsi in essa, come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare.
(Walter Benjamin, Infanzia Berlinese.)

Ci sono due modi per scoprire ciò che crediamo di conoscere di una città. Di vederla improvvisamente con altri occhi. Il primo lo dobbiamo a Charles Baudelaire e alla sua figura del “flâneur”, di colui che passeggia senza uno scopo, che non sia quello di gustarne l’umore, le tensioni, le ombre, la bellezza. Il secondo è quello che Walter Benjamin elaborò a partire da Baudelaire, di usare l’osservazione come strumento di analisi del fenomeno urbano, come rivelatore della dinamica degli stili di vita che l’attraversano disegnandola nell’immaginario collettivo. Un punto di vista che non è assolutamente quello del turista o del viaggiatore, distratto dai suoi scopi, ma di colui che, per parafrasare il titolo di un libro di Alberto Savinio, ascolta della città il cuore, per coglierne le sue inquietudini, le sue passioni, le tensioni culturali e sociali, il loro acquietamento civile, la sua identità estetica.

L’essere “qui” non basta ad orientarsi, smarrirsi è un processo che in molte culture è carico di significato.
Orientarsi è conoscere. Perdersi per orientarsi è il sentiero che porta all’ambientarsi. Per arrivare “in centro” ci sono margini e soglie da oltrepassare, cul-de-sac da evitare, direzioni da definire.
In genere i cittadini possono perdersi in due modi. Perché sono in un ambiente urbano che non conoscono, perché lo conoscono troppo bene. Per questo occorre saper interrogare le strade e le piazze, ascoltare quello che dicono gli edifici sull’identità e i sogni degli uomini che li abitano.
Nei luoghi che ci sono sconosciuti occorre per prima cosa, orientarsi. Annodare trame, leggere mappe, consultare bussole, adattarsi al sistema di coordinate preesistenti, soprattutto, è necessario avere una meta.
Lo straniero in una città è costretto ad apprendere a sue spese quali sono le sue relazioni spaziali, le direzioni, i percorsi, i movimenti concepiti, il linguaggio del qui, del giù, del su, dell’avanti, del dietro, di a destra, a sinistra, del nord, del sud, dell’est, dell’ovest.
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Scopo dell’esercitazione è di descrivere, per conoscerla, una città, prima vista da lontano, appena le cime dei suoi edifici più alti la fanno intravvedere e un cartello stradale l’annuncia, per penetrare in essa fino alla sua traccia più segreta, quella che scopriamo sulla mensola davanti allo specchio del bagno in una camere d’albergo.

Questa esercitazione può essere realizzata o con una serie di fotografie in bianco e nero, o con un filmato o con una colonna sonora o, infine, intrecciando queste tecniche in un video.
In via del tutto eccezionale ci saranno due modalità di giudizio per l’aggiudicazione dei tre punti. La prima prenderà in considerazione l’abilità tecnica e la complessità con la quale l’esercitazione è stata realizzata.
La seconda prenderà in considerazione l’abilità espressiva, la forza dei rilievi creativi, le capacità evocative.

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La citta e la flanerie

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Esercitazione 6 – 2008-09 (5 – parte II)

IED – Sociologia – Anno accademico 2008-2009. 

Tema della settima esercitazione.
IL LABIRINTO NELLA MODERNITÁ, COMPLESSITÁ E CAOS.  (parte seconda) 
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Traccia per l’esercitazione.
“Noi preferiamo le vie tortuose per arrivare alla verità”, lo scrive Friedrich Nietzsche in Ecce homo, evocando gli eroismi della ragione.
Il labirinto con la modernità perde la sua aurea mitologica e religiosa per rivelarsi una metafora dell’erranza senza direzioni, un’espressione della complessità e del caos creativo.  Un riflesso di quella perdita di centro che coinvolge, a partire dai linguaggi, tutta l’episteme contemporanea.
Nelle arti appare come il crinale sul quale ritroviamo le avanguardie storiche, futurismo, astrattismo, dada, surrealismo con le loro poetiche disarticolate e asintattiche.  Su di esso l’artista – come Teseo – sembra essere il solo a possedere l’arguzia e la tecnica necessaria per attraversare e sfidare tutti i percorsi del sapere e, nello stesso tempo, inverare nell’opera l’irrazionalità della ragione, l’ombra che mette a nudo la verità delle cose.
In Giacomo Balla il labirinto è una sintesi dinamica di luce, colore, velocità, compenetrazione di iridescenze.  Per Paul Klee è un archetipo della sostanza invisibile, percorso estetico tra i “microrganismi” che popolano l’inconscio, strada secondaria e sicura per raggiungere città immaginarie.  Per il teosofo Piet Mondrian è un riflesso della realtà pura che parte da un albero e corre verso un centro che è mera astrazione.  In Marcel Duchamp il labirinto è un gioco della metis, un inganno, come nei ready made. Una trappola per gli scapoli che insidiano la sposa.  Jean Mirò mette in luce l’aspetto letterario del mito del labirinto e lo trasforma in un modello e in un motivo poetico che ricorda anche l’opera di un altro artista surrealista, René Magritte, in cui il motivo poetico corrode il significato degli oggetti privandoli del nome.  L’enigma che sta dietro i labirinti ritorna con la pittura metafisica, con le piazze italiane di Giorgio De Chirico e i meandri del mito di Alberto Savinio.  Per venire più vicino a noi, il labirinto è l’essenza delle ossessioni nevrotiche di Giuseppe Capogrossi, è la “cifra” stilistica di Jackson Pollock che vuole celebrare nel gesto la libertà della fantasia e incidere con il segno la linea sottile che divide l’immaginario dal simbolico.  Ancora, il labirinto guida la geometria delle strutture primarie in Robert Morris, come nel suo Philadelphia labyrinth del 1974, il confabulamento naturalistico di Mario Merz, l’elegia del segno contratto in Jannin Kounellis, come nel suo Atto unico del 2002, le giravolte di Vettor Pisani sui battifredi rosacrociani, il lavoro di Claudio Parmiggiani sulla metafora come di una scialuppa per il solido terreno dei sogni.
Infine, non possiamo non ricordare i “labirinti elettronici” dentro cui, oggi, confluiscono le tematiche dei videogiochi narrativi, in cui prova, enigma iniziazione e soluzione agiscono come parole chiave degli universi del fantastico.

Obiettivo dell’esercitazione.  Scegliere un artista tra quelli citati e…falsificarlo, vale a dire, imitare il suo stile e la sua poetica per realizzare una “sua” opera sul tema del labirinto. 

Ogni gruppo può elaborare l’immagine di questa esercitazione con il mezzo espressivo che meglio ritiene opportuno, disegno, foto, fumetto, collage, rappresentazione elaborata per via elettronica.
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L’elaborato dovrà essere presentato stampato su carta e in dischetto, accompagnato da una breve relazione esplicativa.  Non sono accettati altri supporti. 

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Il labirinto

Il labirinto

Il labirinto

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Il labirinto

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