IED – Materiali del corso V (2011-12)

[Parte 5 di 8]

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Passiamo ad un altro paradigma chiave del discorso sociologico: i gruppi.  

Da qualche tempo a questa parte i gruppi sono studiati da una specifica disciplina chiamata analisi  gruppale.  Il riconoscimento dell’importanza dello studio dei gruppi lo dobbiamo soprattutto ad uno psicanalista inglese, Wilfred Ruprecht Bion (1897-1979), che a sua volta lo riprese dagli studi di Maxwell Jones (1907-1990) sulle piccole comunità terapeutiche.    

Come abbiamo osservato per le masse, un gruppo non si riduce alla somma delle coscienze e delle volontà individuali che lo compongono, anzi, è più facile il contrario, che il gruppo trasformi l’individuo che ne fa parte. 

In sociologia si definisce un gruppo sociale come un insieme di persone che entrano in qualche modo in rapporto reciproco, sulla base di valori o interessi comuni

Oppure, in una forma più articolata: Un gruppo è un insieme d’individui che interagiscono fra loro influenzandosi reciprocamente e che condividono tra di essi, più o meno consapevolmente, interessi, scopi, caratteristiche e norme comportamentali. 

Che cosa distingue un gruppo da una folla o da una comunità di persone?  Il fatto che nella folla, nella comunità o, più in generale, in un’aggregazione di persone, come è, per esempio, un grande ufficio, una scuola, un quartiere, non esiste un’interazione diretta tra tutti gli individui, o, più semplicemente, questi individui non costituiscono un insieme organizzato

Prima di procedere con i gruppi distinguiamoli subito da un’altra figura della topografia sociologica, le categorie sociali.   Le categorie sociali rappresentano dei gruppi impropri o degli pseudogruppi.  Esse sono, in genere, il risultato di una costruzione teorica deliberata mediante la quale gli studi sociali raggruppano idealmente o teoricamente in una stessa unità individui con caratteristiche comuni, al fine di poterli monitorare.  

Quanto agli aggregati, essi costituisco dei semplici gruppi casuali

Rispetto ai gruppi veri e propri gli aggregati mancano di una struttura, sono limitati nel tempo e soprattutto mancano delle relazioni interpersonali che costituiscono l’essenza dei gruppi. 

Vediamo le tre caratteristiche che distinguono un gruppo: – I membri del gruppo interagiscono tra di loro in modo strutturato secondo le norme o i ruoli che il gruppo si è dato.  – I membri del gruppo hanno la coscienza di essere un gruppo o, meglio, maturano un sentimento di appartenenza al gruppo che funzionaprincipalmente da barriera nei confronti degli estranei.  – Il gruppo è percepito come un gruppo da parte di chi non ne fa parte.  Vale a dire il gruppo si costruisce un’identità esplicita e assolutamente percepibile dall’esterno. 

Quanto ai gruppi in sé possiamo distinguerli in molti modi.  La classificazione più importante è quella tra gruppi primari e gruppi secondari.  I gruppi primari sono anche detti piccoli gruppi.  Il loro carattere principale è la forte integrazione, tipica, per fare un esempio, delle famiglie o delle bande.  Per definizione i gruppi primari sono costituiti da pochi individui.  Di per sé l’espressione è vaga e si presta a diverse interpretazioni.  In ogni modo, il numero minimo di individui di un gruppo primario è tre, perché le relazioni di coppia hanno altre dinamiche. Diciamo che la coppia, proprio per la complessità e l’unicità delle relazioni interpersonali, non può essere considerata un gruppo, perlomeno in un ambito sociologico.  Il numero massimo, invece, è in funzione delle finalità che il gruppo si è dato costituendosi. 

I gruppi secondari o grandi gruppi sono gruppi composti da un numero elevato di membri.  Sono gruppi nei quali le relazioni interpersonali appaiono neutre e, spesso, il rapporto tra il singolo e gli altri membri è di natura strumentale, cioè, funzionale ad uno scopo. 

L’esempio classico di gruppo secondario sono le organizzazioni, cioè, le aziende, i club, gli apparati militari, le scuole, eccetera…

L’esperienza sul campo ha dimostrato che appena il numero dei membri di un gruppo supera la mezza dozzina c’è una tendenza, che si può definire spontanea, alla formazione di sottogruppi, dove le affinità sono più forti e evidenti. 

Quando, poi, il numero dei membri di un gruppo supera la dozzina è molto probabile che all’interno del gruppo si formi un portavoce o che un membro lo coordini.  A questo proposito si è constatato che in qualsiasi gruppo, prima o poi, emerge la figura di un leader.  La velocità con cui questa figura si forma è proporzionale alla grandezza del gruppo. Più un gruppo e grande e prima si costituisce una leadership.  

Nella leadership si possono distinguono tre stili di conduzione del gruppo: Quello autoritario, quello democratico e quello improntato al “laissez-faire”. 

Nel primo caso la struttura è molto gerarchica e si caratterizza per la direzione degli ordini che influenza il comportamento del gruppo, sempre dall’alto verso il basso.  Questi ordini, in genere, non sono mai messi in discussione, cioè, si subiscono.    

La struttura dei gruppi che possiamo definire democratici è caratterizzata dal consenso della maggioranza, vale a dire da un’accettazione consensuale dei programmi del gruppo. 

La leadership dei gruppi improntata al laissezfaire si caratterizza dalla mancanza di una vera dirigenza.  In questi gruppi la leadership si limita, in pratica, a far emergere e a gestire le iniziative dei sottogruppi. 

Ricordiamo qui anche una particolare forma di gruppo, i gruppi di riferimento.   

Sono quei gruppi che s’ispirano all’opera di altri gruppi. In questo senso possono essere gruppi di riferimento positivi o negativi.  Quelli positivi si possono definire ed appaiono dall’esterno come una specie di gruppi idealiQuelli negativi, invece, sono gruppi di riferimento nei quali e con i quali prima o poi emergono delle tensioni che possono anche alimentare delle situazioni di conflitto. 

Anche se è raro i gruppi negativi possono anch’essi avere dei riferimenti non reali o tra virgolette, ideali.  

In genere tendono a diventare gruppi di riferimento negativi quei gruppi che si formano per reazione contro l’ambiente in cui vivono e per i motivi più diversi, sia materiali che ideologici, come nel caso delle sette sataniche, delle bande di tifosi o nelle organizzazioni criminali.

Nella democrazia rappresentativa, come dovrebbero essere le democrazie moderne, una forma di gruppo di una certa importanza è il gruppo di pressione.   

Questi gruppi sono anche detti gruppi d’interesse.  Sono gruppi strutturati nella forma del collettivo che si mobilita per difendere specifici tornaconti, anche ideali, come sono per esempio i gruppi ambientalisti.     

Quando i gruppi di pressione sono organizzati e la loro azione è diretta in modo specifico ad agire sui centri di potere con lo scopo di influenzare pubblicamente determinate scelte politiche, economiche o etiche, si definiscono lobby

Questi gruppi sono tipici dei paesi di lingua inglese, in cui la corruzione (sotterranea) è severamente sanzionata e le lobby rappresentano istituzioni formali accettate, se non altro come un male minore che si vede e che si può contenere. 

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Passiamo, ora, alle nozioni di stratificazione sociale e di classe.      

In generale il concetto di stratificazione sociale serve a descrivere le disuguaglianze che sono presenti all’interno di una società o di una collettività.   In questo senso la stratificazione sociale può anche essere definita come una disuguaglianza strutturata fra raggruppamenti sociali differenti.      Come gli studi hanno messo in luce le differenze sociali, non importa di quale natura, economica, di potere o di prestigio, tendono nelle società moderne a distribuirsi gerarchicamente.    Per immaginarle si ricorre spesso ad una metafora geologica, perché esse appaiono come depositate l’una sull’altra, al pari di strati di rocce di diversa natura. 

Da un punto teorico si possono distinguere tre sistemi fondamentali di stratificazione: la casta, il ceto e la classe

Qui, non abbiamo il tempo per approfondire i motivi, oltre a quelli economici, per i quali  nelle società si formano le gerarchie, anche perché questo è più un argomento di antropologia e di politica che di sociologia generale.  Alla sociologia compete di più lo studio della posizione sociale di un individuo o di un gruppo all’interno di un sistema di relazioni che formano la struttura sociale di una società.

Questa posizione si definisce status.   All’origine questa espressione apparteneva al linguaggio giuridico.  Oggi, negli studi sociologici è connessa al concetto di ruolo.  Il ruolo esprime l’aspetto dinamico (o esecutivo) dello status.  Il termine di status, oggi s’impiega per lo più per indicare il prestigio assegnato a ciascuna posizione nell’ambito della stratificazione sociale. 

Gli status, poi, possono essere ascritti o acquisiti dalla persona.  Quelli ascritti sono quelli presenti al momento della nascita.  Quelli acquisiti sono gli status ottenuti nel corso della vita, in genere, si ritiene, per meriti specifici, dunque, sono spesso, nell’ambito delle società moderne, più importanti di quelli ascritti.     

Per quando riguarda i modelli della stratificazione sociale diciamo che le due configurazioni più importanti sono i modelli chiusi  e i modelli aperti.  In un sistema sociale chiuso i confini tra status e status sono chiari e definiti, appaiono, da un punto di vista storico, come se fossero congelati. In quelli aperti, invece, il confine tra gli status può variare con il successo personale, la fortuna, il caso, l’iniziativa o l’intraprendenza personale. 

Nella società occidentale va anche costatato, a partire dalla seconda metà dell’800, una costante trasformazione dei ceti in classi.  Questa metamorfosi costituisce uno degli effetti della rivoluzione industriale e delle forme di democrazia che in essa si sono sviluppate.  La rivoluzione industriale, come spiega la storia sociale, contribuì a ridurre ogni differenza sociale ai soli fattori economici e all’effettivo controllo della ricchezza.  

I suoi esiti sono visibili all’interno delle due classi che si affermarono come le due sole classi protagoniste della storia della modernità, la borghesia e il proletariato

Va però notato come, da alcuni decenni a questa parte, nei paesi dell’area temperata del pianeta, le classi si stanno disfacendo nella loro forma storica per ridisegnarsi su altri valori, come quelli della conoscenza e dell’accesso all’informazione e all’educazione. 

Tutto ciò da e darà vita ad altre forme di conflitto tra le quali, di una certa importanza, saranno quelle di natura generazionale, quelle tra i localismi, o quelle legate all’equa redistribuzione delle risorse naturali.

Ricordiamo che i paesi della fascia temperata del pianeta terra costituiscono un terzo della popolazione mondiale e consumano i due terzi dell’energia totale prodotta. 

In un rapporto del 2006 delle Nazioni Unite sulla distribuzione del benessere economico si afferma che l’uno per cento della popolazione mondiale detiene il quaranta per cento del patrimonio finanziario e immobiliare mondiale, pari a 125mila miliardi di dollari, mentre il cinquanta per cento della popolazione mondiale accede solo all’uno per cento della ricchezza planetaria.   

È indubbio che, in questo scenario, uno degli obiettivi delle scienze sociali dovrebbe essere quello di contribuire a rielaborare degli stili di vita che consentano di riequilibrare questo stato di cose prima che sia troppo tardi. 

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TOMO SECONDO.

Parte prima.

Le ragioni del discorso sociologico, che abbiamo a grandi linee illustrato fin qui, possono essere riassunte dalla necessità di comprendere la complessità sociale, una condizione essenziale che presiede ad ogni idea di progetto come ad ogni impresa creativa.

In particolare, a cosa serve questa comprensione nell’ambito di questo contesto scolastico?

Diciamo arrivare a dare un senso all’agire tecnico nel suo significato più alto, quello pensato dalla filosofia greca, di “arte”.

A consentirci di “com.prendere” il mondo invece di subirlo.

A valutare con la ragione, la conoscenza e l’aiuto dell’esperienza le forme del suo divenire.

Da tempo siamo consapevoli che la mera esperienza e l’abilità tecnica, soprattutto nel contesto di queste ultime due decadi, prese di per sé, possono in molti casi sviluppare l’ambito nozionale, ma non possono assolutamente sviluppare le forme del sapere.

Tecnica, come abbiamo già visto, deriva dal greco téchne, "arte" nel senso di "perizia", "saper fare", "saper operare". La tecnica si differenzia in tal modo anche dal metodo e dalla strategia. Il termine metodo, dal greco μέθοδος, méthodos (inseguire, andare dietro), è l’insieme dei procedimenti messi in atto per ottenere uno scopo o determinati risultati. Il termine greco è composto dalle particelle metà (oltre) e hodòs (cammino) e fu introdotto da Platone nel Sofista con l’accezione di tattica e strategia.

La strategia è la descrizione di un piano d’azione sul lungo periodo usato per impostare e successivamente coordinare le azioni tese a raggiungere uno scopo predeterminato. La strategia si applica a tutti i campi in cui per raggiungere l’obiettivo sono necessarie una serie di operazioni separate, la cui scelta non è unica e/o il cui esito è incerto. La parola strategia deriva dal termine con cui nel greco antico si indicavano i generali, cioè, gli strateghi.

Studiare i processi e le forme della comunicazione in sociologia, significa, dunque, cercare di approfondire i modi, i motivi e i modelli che concorrono alla formazione del comportamento individuale e collettivo.

Questi modelli si possono definire anche come il risultato dell’accumulo e dell’elaborazione delle informazioni ricevute e scambiate, dell’esperienza condivisa e della sedimentazione dei saperi nel corso della vita.

Nel campo della comunicazione il problema di fondo, da un punto di vista metodologico, non è solo che cosa studiare, ma anche come farlo, cioè, come scegliere l’approccio teorico più efficace e come integrarlo con le altre discipline che sono in essa coinvolte, dalla semiotica, all’economia, dalla psicologia alla storia.

C’è poi da considerare che lo studio della comunicazione in sociologia tende spesso a sovrapporsi e a confondersi con le riflessioni sullo studio dei media, in pratica, degli strumenti operativi.

Questa confusione nasce dall’importanza che hanno acquisito i mass-media nella modernità.

In breve, possiamo dire che essi sono diventati:

– Una fonte di potere, vale a dire uno strumento d’influenza, di controllo e di innovazione della società. Inoltre, costituiscono il mezzo primario di trasmissione e la fonte d’informazione indispensabile al funzionamento delle istituzioni sociali.

– L’arena nella quale si svolgono molti fatti della vita pubblica nazionale ed internazionale.

– Una fonte importante di definizione e di trasmissione della realtà sociale e, di conseguenza, il luogo dove si costruiscono, si conservano e si manifestano i cambiamenti culturali e i valori sociali.

– Una sorgente di significati che fornisce i criteri per definire ciò che è normale sotto l’aspetto empirico e dei valori.

Il termine comunicare è in qualche modo collegato alla parola comune che deriva dal verbo latino communicare, cioè,condividere, rendere comune.

Comunicare, dunque, significa incrementare la nostra conoscenza condivisa, condizione essenziale per ogni società.

Per cominciare osserviamo che da diversi anni, anche in sociologia, si distinguono nettamente i processi comunicativi face to face da quelli informatici o numerici. 

Nei primi sono determinanti le relazioni di tipo psico-fisico degli individui, quelle che investono gli aspetti emozionali della persona – sul tipo di quelli che abbiamo messo in luce quando abbiamo trattato del “self“, cioè, dell’identità soggettiva.    I secondi sono caratterizzati dal solo transito, tra gl’individui e i gruppi, di messaggi mediati dall’attività razionalizzatrice della mente

Da un punto di vista funzionale la prima differenza di una certa importanza tra le modalità attraverso cui si esprime la comunicazione umana è quella tra messaggi analogici e messaggi numerici.   

Vediamo di comprendere bene il significato di queste due espressioni. 

La parola analogia deriva dalla lingua latina che, a sua volta, la deriva da un’espressione greca  (analogizomai) che possiamo tradurre con, calcolare proporzionalmente.   Il significato di analogia, nel linguaggio comune, è in qualche modo intuitivo e indica la rassomiglianza

Precisamente, l’analogia serva ad indicare la messa in relazione di fenomeni appartenenti a campi o a realtà diverse allo scopo di trovare una corrispondenza tra questi campi o queste realtà. 

L’analogia, dunque, ha come obiettivo principale quello di portare la nostra conoscenza a comprendere un certo grado di somiglianza tra i fatti o gli oggetti che stiamo esaminando o a confrontare dei caratteri che non conosciamo con altri caratteri di cui abbiamo conoscenza.   

Il ragionamento analogico è una delle tre forme principali di ragionamento, le altre, come abbiamo già visto, sono la deduzione, l’induzione e, in sub-ordine, abduzione.  In generale, il ragionamento analogico viene abitualmente utilizzato nelle scienze per l’elaborazione delle teorie, ma è molto usato anche nelle arti, in architettura e nel design, perché la somiglianza con una cosa nota avvicina l’atto creativo al sentire comune e alla comprensione, di più, la sua componente ignota è anche una continua e suggestiva fonte di ispirazione per le strategie di progetto. 

Uno degli esempi tipici di analogia nei processi progettuali è quella biologica, tra organismi manufatti e organismi viventi.  Le nervature di certi edifici o le ali degli aeromobili, per esempio, sono spesso progettate in analogia con le ossa di certi animali, come gli uccelli. 

In sintesi, il procedimento analogico è quel ragionamento per cui, poste due cose o due situazioni che si ritengono simili tra di loro, per alcuni caratteri o aspetti, si deduce (dalla presenza di altri caratteri ed aspetti in una di esse) la presenza di questi stessi caratteri ed aspetti anche nell’altra.  

Nell’ambito del linguaggio l’analogia funziona così.  Se io dico che la mia compagna ha un carattere dolce, faccio leva sull’esperienza della dolcezza, che in qualche modo posso presumere che tutti conoscono, per farvi intendere un tratto di un carattere di una persona che voi non avete mai visto. 

Nella vita quotidiana, dunque, l’analogia serve soprattutto ad esprimere il contenuto astratto di certi comportamenti concreti.   

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Nelle scienze, in opposizione a digitale o numerico, si chiamano analogici gli apparecchi o i dispositivi che trattano delle grandezze con altre grandezze legate alle prime da una relazione di analogia.  Per esempio, negli orologi con le lancette, il trascorrere del tempo è indicato dal muoversi delle lancette sul quadrante.  Se disegnate due orologi con le lancette sulle ore dodici e cinque e sulle ore dodici e quindici la distanza che la lancetta ha percorso indica il passare di una certa quantità di tempo, nell’esempio, dieci minuti.  

Vediamo, adesso, ai messaggi in cui è coinvolta la sola razionalità.

In elettronica e in informatica s’intendono per digitali gli apparecchi o i dispositivi che rappresentano delle grandezze sotto forma numerica.  

Sono grandezze rappresentate da cifre contenute in un apposito sistema di numerazione, come quello decimale o quello binario, per citare i due più usati. 

Per usare ancora l’esempio dell’orologio, quelli a cristalli liquidi visualizzano l’ora e le frazioni di ora con successivi scatti di cifra. 

Come abbiamo visto in sociologia con il termine analogico si fa riferimento a quel tipo di segnali che contengono una qualche rappresentazione o immagine del significato a cui si riferiscono.  Che cosa ne possiamo dedurre in particolare? Che i comportamenti rappresentano, in genere, dei messaggi analogici.                                                                                                       

I messaggi numerici, invece, possono essere definiti simbolici nel senso che rimandano ad un sistema simbolico codificato e formalizzato di segni, la cui relazione con il significato, è importante non dimenticarlo, è del tutto convenzionale, come succede nelle espressioni linguistiche

Per riassumere possiamo dire che gli esseri umani sono in grado di comunicare con i propri simili sia attraverso dei segnali analogici, sia attraverso un linguaggio simbolico, sia mescolandoli. 

Da un punto di vista antropologico, la comunicazione analogica è molto antica, perché essa si è sviluppata ai primordi dell’evoluzione e riguarda praticamente tutti gli esseri viventi, animali compresi che, com’è dimostrato, sanno sviluppare e trasmettere il loro comportamento con l’emulazione. 

Di contro, il linguaggio simbolico è un prodotto relativamente recente e molto più complesso e riguarda solo l’uomo.  

Prima di procedere dobbiamo sottolineare anche questo.  L’atto del comunicare costituisce nella sostanza un comportamento.  Siccome non è pensabile che un qualunque essere vivente non esprima – vivendo – un comportamento di azione e reazione con il suo mondo (o, habitat) ne consegue il principio secondo il quale non è possibile (per questo essere) non comunicare, anche se questo non significa che sia compreso il significato della comunicazione.       

Oggi, quando si affronta il tema della comunicazione si fa riferimento quasi esclusivamente a quella veicolata dai mass media, per il semplice fatto che sono questi mezzi a promuoverla fornendo agli individui quella visione del mondo che consente loro di vivere concretamente e quotidianamente all’interno del loro gruppo sociale. 

In pratica, sono i contenuti mediali che fanno dell’uomo moderno un uomo informato, ne configurano lo stile di vita e lo distinguono nella sua identità, così come, sono questi stessi contenuti che in qualche modo lo plasmano a loro immagine ed interesse.    Va osservato a questo proposito che i nuovi sistemi di comunicazione hanno radicalmente modificato sia i processi di alfabetizzazione che l’analfabetismo che per secoli è stato sinonimo d’ignoranza, così come molte forme di controllo sociale, divenute più soft e spesso più efficaci.

Come dicono i critici della modernità è più facile convincere (legare a sé) con i mass-media che farlo con le baionette. 

Generalmente l’analisi della comunicazione mediale parte dalla formula di Harold Dwight Lasswell (1902-1979), un sociologo della politica o, se si preferisce, uno dei primi politologi americani, che la elaborò nel 1948

WHO   (says)   WHAT   (to)   WHOM   (in)   WHAT CHANNEL   (with)   WHAT EFFECTS

È la formula detta delle 5W.  Si può tradurre in questo modo: 

Chi / che cosa dice / a chi / con che mezzo (o, attraverso quale canale) / con quale effetto.

– Il chi rappresenta la fonte che emette il messaggio. 

Questa fonte, cioè, il mittente, può essere il singolo individuo come un network o un canale televisivo.  

– Il qualcosa esprime sostanzialmente l’analisi del contenuto del medium e dei relativi codici utilizzati per esprimerlo. 

– Il qualcuno identifica e analizza il soggetto che riceve la comunicazione che può essere il singolo individuo, un gruppo, una collettività, un network.  L’analisi di chi è questo “qualcuno” è di grande importanza per chi comunica perché gli consente di valutare se la comunicazione ha raggiunto il suo bersaglio e con quale effetto..  Al riguardo sono state sviluppate diverse metodologie d’indagine basate sulle rilevazioni statistiche casuali e su determinati modelli matematici. Per esempio, l’Auditel è stato per molto tempo un modo per calcolare questi effetti, oggi lo si ritiene superato e sono nati strumenti di analisi più complessi o più specifici, come l’Audiblog per la rilevazione del pubblico dei blog.

– L’analisi del mezzo indaga il tipo di media usato (televisione, radio, giornali, manifesti, ecc…) sotto i suoi diversi aspetti, economico, politico, tecnologico. 

– L’espressione con quale effetto studia l’impatto del prodotto mediale.  Cioè, come si modificano o si condizionano le conoscenze e gli atteggiamenti del pubblico preso in considerazione a seguito del messaggio ricevuto. 

Nella pratica, gli effetti dei media sono valutati o a lungo termine, per esaminare come essi trasformano la percezione dei grandi temi sociali, come sono la giustizia, la violenza, l’uso delle droghe, la solidarietà, i problemi razziali, gli orientamenti politici, ecc…  O sono valutati a breve termine, per misurare il gradimento e la comprensione del messaggio, sia sotto l’aspetto del contenuto che delle forme.  Come si comprende un tema che interessa in modo particolare il mercato della pubblicità.         

Ma perché le comunicazioni di massa sono importanti?  Perché questo è il secolo dell’informazione, come il Novecento è stato il secolo dell’energia e l’Ottocento il secolo delle materie Comunicare del resto significa sostanzialmente connettereLa connessione, infatti, è una delle conseguenze dell’interazione sociale, perché, la forma e la sviluppa. 

I due modi di connessione più antichi ed elementari sono il gesto e la voce. 

Successivamente la specie umana ha elaborato un linguaggio, dapprima orale poi scritto ed oggi digitale (o, elettrico, come diceva McLuhan), vedremo più avanti come. 

La natura sociale dell’uomo, la sua necessità di vivere in comunità, di migliorare la qualità della vita ha poi fatto poi in modo che, per così dire, la comunicazione si sia impadronita degli individui fino a svilupparsi come una peculiarità della specie

Noi comunichiamo in continuazione, sia in modo cosciente, che incosciente e, in questo contesto, il linguaggio orale è oggi solo uno dei molti mezzi che usiamo. 

Da un punto di vista morfologico possiamo anche affermare che la comunicazione è l’artificio che sorregge il mondo o meglio, il senso del mondo, vale a dire è l’espediente che ci consente di sottrarlo alla sua incomprensibilità. 

Tutto ciò, va da sé, è un problema specificatamente umano, visto che gli animali non hanno bisogno di sviluppare una visione del mondo, così come sono indifferenti al suo significato, in pratica, come dicono i filosofi non hanno bisogno di una coscienza dell’esserci (Dasein), cioè, di riflettere sulla loro esistenza. 

Proviamo a riassumere.

Nella comunicazione diretta gl’individui si trovano in un rapporto face to face. Essi sono coinvolti, nel processo comunicativo, nella loro totalità “psicofisica”, cioè, con la mente e il corpo.

Gli esseri umani sono l’unica specie che riesce a comunicare con i propri simili sia attraverso segnali o messaggi analogici sia tramite un linguaggio simbolico o, meglio, simbolico-numerico.

In particolare. I segnali analogici contengono delle immagini o delle rappresentazioni del significato a cui si riferiscono. I segnali numerici o simbolici rimandano necessariamente ad un sistema codificato e formalizzato di segni.

In genere quando due o più persone comunicano direttamente fra loro (comunicazione face to face) utilizzano sempre sia il linguaggio simbolico-numerico sia quello analogico.

Sul piano della relazione tra persone attraverso i segnali analogici transitano anche dei significati relazionali.   Come, per esperienza diretta, tutti sanno, talvolta alcuni gesti o espressioni del volto possono essere più esplicativi e immediati, cioè, densi di significato, di lunghi discorsi. 

Più semplicemente, con lo sguardo si può comunicare un invito, un’allusione, una promessa o un rifiuto.

I segnali paralinguistici sono costituiti da tutte quelle componenti della produzione vocale che di fatto danno un’impronta al nostro modo di comunicare.  Sono il tono della voce, il ritmo, l’uso delle pause e dell’iterazione.  In pratica, della ripetizione attraverso l’uso di figure retoriche.

Si definiscono emozioni fondamentali quelle da cui discendono tutte le altre.  Esse sono, la gioia, la sorpresa, la rabbia, il disgusto, l’interesse e la vergogna.

Comunicare è, in linea di principio, un comportamento. Dato che è impossibile non assumere un comportamento ne consegue il principio secondo il quale non è possibile non comunicare.

Con il termine di prossemica si intende quell’insieme di regole e strategie di comportamento in base alle quali gli individui agiscono e gestiscono lo spazio del loro self, cioè, lo spazio che li circonda quando si trovano in presenza dei propri simili.

Come dice Erving Goffman la comunicazione interpersonale avviene sia attraverso le espressioni assunte intenzionalmente sia per mezzo di quelle che lasciamo trasparire involontariamente.

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Parte seconda.

Percorriamo, ora, velocemente le tappe più significative delle forme di comunicazione.  Tra gli uomini si valuta che una comunicazione vocale di una certa complessità semantica ebbe inizio circa 300mila anni fa.  Dovettero però passare circa 250mila anni perché cominciassero a diffondersi segni, o immagini più o meno stilizzate, incisi su ossa o pareti di caverne, cioè, su dei supporti durevoli arrivati fino a noi.  Qual era la funzione o gli scopi di queste prime scritture? 

Si ritiene che essi fossero legati alla necessità di realizzare dei calcoli o apporre dei segnali, sulla falsariga di quello che fanno gli animali quando marcano il territorio con l’orina.    Intorno all’anno 5000 prima dell’era comune cominciarono a diffondersi dei documenti che indicano la capacità dell’uomo di articolare delle catene di pensiero.

In breve, di elaborare dei ragionamenti articolati e sensati e, in qualche modo, anche ricchi di contenuti astratti.  Ma è solo a partire dall’ottavo secolo prima di cristo che abbiamo l’evoluzione delle tecniche sillabiche in alfabeto. 

Un avvenimento che rese la scrittura più precisa, efficace e facile da usare. 

E la stampa?  Il metodo più rudimentale di stampa, la xilografia ( un’espressione composta dalle parole greche legno e segno) appare in Europa, proveniente dalla Cina, solo intorno al XIII secolo dopo cristo. 

Bisognerà però attendere il 1450 – il merito è attribuito a Johann Gutenberg (1400-1468), anche se stamperie analoghe a quella di Gutenberg esistevano in Svizzera, in Olanda, in Spagna – per avere la stampa a caratteri mobili

Tra il 1840 e il 1850 viene messa a punto la fotografia.  Sotto l’aspetto metodologico questo è il primo procedimento con il quale si generano immagini senza un intervento diretto dell’uomo. 

Negli stessi anni comparve anche il telegrafo che è (…o meglio, era, visto che è praticamente scomparso) un sistema di comunicazione a distanza a mezzo di corrente elettrica e di un alfabeto convenzionale basato su un codice binario, punto e linea, chiamato dal nome del suo inventore Samuel Morse, 1791-1872, un americano, “alfabeto Morse”.  Con questo strumento, per la prima volta le informazioni viaggiavano da sole, sganciate dalla necessità di un supporto mobile che le portasse con sé. 

Infine, con la diffusione capillare sul territorio delle reti elettriche, intorno all’ultimo quarto del XIX secolo, un complesso grappolo di nuovi congegni entra nell’uso quotidiano.  Sono congegni il cui funzionamento prescinde dall’azione umana, a parte le funzioni di avviamento, controllo e spegnimento, che, sia sul piano qualitativo che quantitativo, ampliano in misura eccezionale il raggio spazio-temporale del pensiero umano e delle sue azioni. 

Sono anche gli anni in cui si cominciano a riprodurre i suoni e le immagini in movimento.  In particolare i suoni, sfruttando le onde herziane, cominciano ad essere trasmessi sulle lunghe distanze e, è importante notarlo, senza una scarto temporale apprezzabile tra produzione e consumo. 

Molti dei congegni di cui stiamo parlando, con il gergo tecnico di oggi, potrebbero essere definiti, sul piano formale, interattivi, come è il caso del telegrafo o del telefono. 

Da ultimo, infine, arriveranno quelle scoperte che tutti oggi conoscono bene, televisione, Internet, telefonia senza fili e con immagini, eccetera…

Quale è la prima osservazione che s’impone?   Che i mezzi per connettersi e comunicare hanno registrato una progressiva accelerazione di tale portata che se ci sono voluti 250mila anni per arrivare a tracciare un segno significante sulla parete di una caverna è bastato appena più di un secolo per arrivare a dove siamo oggi, una volta messa in rete l’energia elettrica. 

Va anche notato che tutti gli eventi o gruppi di eventi, legati all’invenzione dei congegni per comunicare, hanno una caratteristica: sono caratterizzati da un notevole passaggio incrementale sia sul piano della loro potenza che del loro campo di estensione.   

In altri termini, rappresentano un significativo e concatenato potenziamento delle capacità operativa legate a quelle infrastrutture che assicurano la trasmissione del pensiero. 

Questi passaggi corrono paralleli al formarsi di nuove competenze, di nuovi principi operativi e di nuove metodologie d’uso, in una, determinano un incremento generale della complessità operativa delle infrastrutture.  

Poi, con ogni miglioramento della capacità operativa di una infrastruttura comunicativa, questa infrastruttura diventa più potente e tendenzialmente più costosa e più efficace così come tende a facilitare un accesso ad essa sempre più rapido, in modi che sono sempre più semplificati, ma anche più specialistici.  Questo significa che i linguaggi tecnici diventando sempre più autoreferenziali riducendo le opportunità di molti di potervi accedere.  

La rapidità nello sviluppo delle capacità operative è un tema sociologico rilevante perché questa rapidità può essere così elevata da produrre, come effetto collaterale, delle forme di nuovo analfabetismo, più in generale diventare una causa di forte disagio sociale tra la popolazione anziana, gli emarginati, gli abitanti dei paesi non-industrializzati e di tutti coloro i cui programmi scolastici non si sono rinnovati o sono divenuti insufficienti. 

Anche dal punto di vista della psicologia sociale le trasformazioni operate dalla nuove tecniche di comunicazione sono importanti.  Lungo tutta la storia dell’umanità, dal primo alfabeto alle grandi macchine che si interconnettono su scala mondiale, l’isolamento, la separazione e la segregazione di un individuo o di un gruppo, sono sempre stati vissuti come un indebolimento delle capacità di sopravvivenza o, per usare un’espressione più vicina ad discorso dell’antropologia culturale, come una riduzione delle opportunità per dominare o indirizzare gli aspetti contingenti dell’ambiente.  

Di fatto la diffusione dei mezzi di comunicazione, considerati sul piano funzionale, comporta:  – La possibilità di sincronizzare le energie, le azioni e i comportamenti.   – Di controllare l’imprevedibilità delle azioni degli uomini o contribuire a ridurle.     – Di ampliare il raggio degli interventi possibili, nello spazio, nel tempo e della loro potenza. 

In sintesi, la diffusione dei mezzi di comunicazione si rivela una condizione essenziale al

dominio materiale che la specie umana esercita sull’ecosistema.  

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Una delle prime definizioni moderne di massa la si deve al sociologo americano Herbert Blumer (1900-1987) che la elaborò in contrapposizione ad altre forme di aggregazione come sono il gruppo, la folla, il pubblico e la usò soprattutto per studiare le masse che si creano a seguito degli strumenti di comunicazione di massa, come la radio, il cinema, o a seguito di certi fenomeni di mercato.

Abbiamo ricordato Herbert Blumer perché ci consente d’introdurre un altro tema del discorso sociologico, l’interazionismo simbolico.

L’interazionismo simbolico è un approccio teorico sviluppatosi negli Stati Uniti d’America. Rappresenta una prosecuzione, nel campo delle scienze sociali, delle tesi di filosofia pragmatica di William James.

Questo approccio pone l’accento sulla creazione dei significati nella vita e nelle azioni umane e lo fa sottolineando la natura pluralistica della società, il relativismo culturale e sociale delle norme e delle regole etiche, la visione del “sé” come socialmente strutturato.

In breve l’interazionismo si occupa soprattutto dell’interazione sociale che ha il suo centro nella vita quotidiana, in questo senso possiamo definirla come una teoria microsociologica.

Il pensiero interazionista è stato influenzato da Max Weber, Edmund Husserl e Alfred Schutz, ed esso rappresenta l’approccio teorico dominante nelle ricerche della Scuola di Chicago.

In particolare l’espressione interazionismo simbolico fu coniata da Blumer nel 1937 e si fonda su tre principi:

– gli esseri umani agiscono nei confronti delle "cose" (oggetti fisici, esseri umani, istituzioni) in base al significato che attribuiscono ad esse.

– il significato attribuito a tali oggetti nasce dalla loro interazione con gli individui ed è quindi condiviso da questi. In tale prospettiva il significato delle cose è un prodotto sociale.

– tali significati sono costruiti e ricostruiti attraverso un processo interpretativo messo in atto dalla persona nell’affrontare le cose in cui si imbatte.

Proseguiamo.  Un tempo, per il senso comune così come per le ideologie politiche, la cultura di massa era assimilata alla nozione di cultura per le masse.  Una forma di cultura che appariva ricca di significati, positivi per le sinistre e negativi per le destre. anche se entrambe queste posizioni concordavano sul fatto che le masse, volenti o nolenti, costituivano la base e lo strumento, sia pure rozzo e per molti versi incontrollabile, di tutti i cambiamenti sociali

In questo senso, cultura di massa significava soprattutto cultura per il popolo

Nel linguaggio corrente questa espressione è ritenuta offensiva perché sta ad indicare un mix di fattori che descrive le preferenze culturali delle persone semplici e grossolane.  

Da qualche tempo, in ogni modo, l’espressione cultura per il popolo è stata rivalutata ed è impiegata per definire il carattere diretto, semplice e genuino delle culture popolari e contadine, come delle società tradizionali, non inquinate dalle logiche di mercato e dalla pubblicità. 

Ma qui si nasconde un equivoco, perché in questa accezione la cultura per il popolo diventa cultura popolare e finisce per identificarsi con il folclore e/o le tradizioni localistiche.       Agli occhi dei suoi detrattori il difetto principale della cultura di massa sta nel fatto che, per risultare accessibile alle masse più o meno incolte, è costretta a mettere l’accento sulle emozioni e i sentimenti meno nobili e più diffusi.   Di conseguenza questa cultura appare come una cultura superficiale e sentimentale farcita di luoghi comuni.   Un concetto che, un tempo, veniva riassunto così:  La cultura di massa esprime i pensieri più profondi degli individui più superficiali. 

Per coloro che invece rifiutano di assimilare la cultura popolare alla cultura di massa l’accento è posto sull’autonomia della cultura popolare.

Un’autonomia costantemente minacciata dalla produzione e dalla distribuzione della cultura ridotta a merce delle élite capitalistiche. 

Vediamo, adesso, come le diverse concezioni della cultura di massa si sono trasformate nel tempo. 

Nell’Ottocento la cultura popolare si esprimeva soprattutto nell’abbigliamento, nel canto collettivo, nella danza, nelle abitudini alimentari, nelle piccole cose di artigianato

Era una cultura che, sia pure involontariamente, aveva esercitato un grande fascino sul romanticismo, cioè su quel movimento artistico e letterario che rappresentò, per almeno un paio di generazioni, lo spirito più vivo della cultura europea dell’Ottocento.    Molti protagonisti di questa corrente letteraria, che il successo fece diventare anche una moda e uno stile di vita, si prodigarono per salvare la cultura popolare nella sua originale genuinità attraverso la promozione, soprattutto nella mitteleuropea, delle scuole di arti e mestieri

Sono scuole che, in molti casi, finirono per alimentare una vera è propria ideologia del passato, in contrapposizione alla nascente industrializzazione, snaturando le premesse che avevano portato alla loro istituzione.   

In sostanza, la cultura popolare nell’Ottocento, a differenza di quella di massa, nasceva ancora in modo spontaneo, avvalendosi soprattutto di materiali e mezzi espressivi tradizionali.       

L’odierna cultura di massa, invece, tende a sfruttare il patrimonio delle culture popolari per farne dei prodotti di massa, da veicolare attraverso i mass-media e da vendere attraverso la grande distribuzione.  Prodotti che sono stati prelevati un po’ dappertutto, nelle tradizioni contadine come nelle periferie urbane – vedi il caso di molte forme di musica giovanile – così come nelle etnie emigrate o emergenti.  Sono prodotti sui quali il mercato opera quello che i professionisti del marketing chiamano oggi restyling, prodotti che paradossalmente finiscono per essere venduti soprattutto a chi abita le aree urbane delle grandi metropoli. 

Ciò avviene perché il concetto di cultura di massa è strettamente associato alla società dei consumi e, nella modernità, una parte rilevante dei rapporti che intercorrono tra le persone sono di natura economica e i consumi sono diventati dei veri e propri fenomeni sociali primari. 

In questo senso la cultura di massa ha finito per istituzionalizzare e “conformare” la nostra vita su scala planetaria.  Questa cultura coinvolge le forme della conoscenza artistica e letteraria, l’educazione, gli stili di comportamento, i modi di pensare, le proposte della politica traducendoli in atti di consumo e, di riflesso, in codici di riconoscimento sociale. 

Proviamo ad entrare di più nei dettagli. Una delle principali caratteristiche della cultura di massa è di strutturale, razionalizzandoli, i rapporti tra le persone attorno alla sfera economica.  A questo proposito i critici della società di massa osservano come essa abbia finito per rattrappire il tempo libero sul tempo commerciale e di dominare con i media anche gli aspetti più privati ed emotivi della vita. 

Se consideriamo la cultura di massa dal punto di vista dei media possiamo dire che essa è nata in Europa tra la metà e l’ultima decade dell’Ottocento con il diffondersi della carta stampata e dell’alfabetizzazione primaria.  Si è poi rafforzata dopo la fine della prima guerra mondiale con l’avvento della radio e del cinema.  Ed è diventata quello che è oggi soprattutto a partire da quel fenomeno di costume e di modelli di consumo che è stata l’american way of life

Se esaminiamo questo fenomeno della cultura di massa in filigrana con il tema della cultura popolare, vediamo che essa ha integrato l’ambiente operaio, soprattutto delle periferie urbane, con il mondo contadino e, tutti e due, con alcuni stili di vita della borghesia. 

Un fenomeno che viene definito come una popolarizzazione dei valori della borghesia o, meglio, una sorta di scivolamento di questi valori verso le classi inferiori a cui non sono estranei l’economia, la divulgazione dei paradigmi delle scienze della comunicazione e i media. 

Alla luce di queste osservazioni è indubbio che la cultura popolare, concepita per un pubblico di massa, appare come un utensile facile da usare, a buon mercato, producibile in serie, destinato soprattutto ad un pubblico giovanile perché seducente e niente affatto complicato.

  L’esempio che gli esperti fanno a questo proposito è quello della musica pop che domina gli schermi televisivi di tutto il mondo il cui contenuto estetico ed artistico viene preso come rappresentativo della società orientata al consumo di massa.   

C’è un altro punto da segnalare.  La teoria sociologica ritiene che si corre un grosso rischio nella trasformazione delle culture in prodotti di massa. 

Queste culture, infatti, quando sono manipolate, inevitabilmente si svalutano e si degradano ad un punto tale che la loro alterazione produce inevitabilmente dei deficit culturali che sono in continua e costante evoluzione.  In altre parole, queste operazioni di trasformazione danneggiano irreparabilmente ciò che c’è di genuino in tutto ciò che nasce spontaneamente dal basso.   

***

Passiamo ad esaminare altri due lemmi fondamentali del discorso sociologico.  Il primo, che vedremo in sintesi, è quello delle strutture sociali.    L’altro lemma è quello dell’interazione sociale, che ha numerose implicazioni e sottotemi di grande interesse.

L’importanza dell’analisi delle strutture sociali, in sociologia, deriva dalla considerazione che non è mai possibile isolare una dimensione pura ed autonoma della soggettività, come se fosse un’identità sociale, perché gli attori sociali (individuali e collettivi) rappresentano, allo stesso tempo il motore e il prodotto che in qualche modo determinano queste strutture. 

Nel loro significato sociologico il termine fu coniato da Herbert Spencer nel 1858. 

Questo filosofo inglese di matrice positivista tentò di elaborare una teoria generale del progresso umano o meglio, si rese conto che la filosofia positiva aveva ancora un compito da realizzare: di unificare i risultati delle scienze per farli progredire verso obiettivi più alti.  

In particolare, per Spencer il processo evolutivo consentiva un progresso perché permetteva di passare: 

dall’incoerente al coerente. 

dall’omogeneo all’eterogeneo. 

dall’indefinito al definito.  

Egli mise in luce il fatto che, in una struttura sociale, le parti che la compongono s’identificano con le relazioni fra le persone, e come, l’insieme organizzato delle parti che la compongono può essere inteso una rappresentazione della società nel suo complesso. 

Spencer, poi, identificò nel perdurare nel tempo (nella durata) una delle caratteristiche più importanti di una struttura sociale.  Vale a dire, tutte le strutture sociali hanno una vita più o meno lunga e, in genere, la loro durata depone a favore della loro importanza.

 

Per Spencer c’era poi un altro problema fondamentale.  Le strutture sociali si basano sul consenso o sulla coercizione

Da convinto funzionalista la società era per lui un organismo vivente nel quale tutte le parti contribuiscono a mantenerlo in vita.  In questo senso le strutture sociali non avrebbero dovuto produrre conflitti e non avrebbero dovuto fondarsi sulla coercizione. 

D’avviso diverso, tra i suoi contemporanei, erano i movimenti politici d’ispirazione socialista, per i quali, invece, la società è l’esito di un perenne conflitto tra le classi. 

In ogni modo, oggi, non si discute più di questo perché è più importante un altro aspetto del problema, vale a dire: 

In che modo le strutture sociali sono in grado di favorire il mutamento sociale?

Una società che non muta, infatti, è una società che non cresce o cresce male finendo per ripiegarsi su se stessa o addirittura implodere. 

In questa analisi dobbiamo anche considerare la circostanza che le società sono condizionate dall’ambiente naturale e dalle forme di sociabilità che riescono a sviluppare.  Così come le loro strutture sociali sono condizionate anche dalla storia sociale dei loro attori, siano essi gli individui o i collettivi. 

Ne consegue che, le strutture organizzative e istituzionali nel loro evolversi normativo, nel loro essere legislatrici, sono il prodotto diretto dell’agire storico sociale, come delle rappresentazioni e delle credenze degli attori sociali.

Spostiamo l’angolazione del tema. Dell’importanza dell’ambiente naturale per lo sviluppo della società se ne sono occupati, in passato e a diverso titolo, molti autori, tra i quali Emile Durkheim, Max Weber e Georg Simmel

Oggi, le scienze sociali definiscono l’ambiente naturale come il complesso delle possibilità nei confronti delle quali si sviluppa l’azione degli attori sociali, intesi sia come individui che intesi come gruppi agenti o comunità. 

In altri termini, non c’è nulla di pre-definito offerto dalla natura all’uomo, o, più generale, d’imposto.  C’è semplicemente la capacità dell’uomo all’adattamento naturale e alle sue capacità di agire su di esso.    In breve, non si può non tener conto del fatto che le strutture pubbliche e politiche che contribuisco a disegnare le forme urbane e a tracciare le loro vie di comunicazione hanno influito e influiscono in maniera rilevante nel condizionare lo spazio sociale della persona e delle comunità, la loro libertà di scelta e di movimento e il loro grado d’interazione sociale. 

Per completare questo punto, dobbiamo ricordare come in questi ultimi anni si è diffusa una nuova sensibilità per i problemi dell’equilibrio tra l’uomo e il mondo.  Sensibilità che ha mostrato la grande rilevanza dell’azione umana sia nella conservazione che nella distruzione dell’ambiente.  Da qui la constatazione che l’adattamento non può essere all’insegna del mero sfruttamento della natura, ma deve tener conto del fatto che gl’interessi dell’uomo non possono infliggere all’ambiente dei danni irreparabili o superiori ai vantaggi Da un punto di vista storico le contraddizioni tra le strutture ambientali artificiali costruite dall’uomo e la natura sono state messe in evidenza, per la prima volta, da un fortunato libro di Georg Simmel, pubblicato nel 1903, intitolato, La metropoli e la vita dello spirito.

In Italia, per chi volesse leggerlo è stato pubblicato per la prima volta integralmente nel 1995 ed è ancora in commercio. 

Vediamo adesso qualcosa su un altro importante elemento che ci lega alla natura: il tempo.  Rappresenta una delle dimensioni della realtà che abitiamo o, se si preferisce, dello spazio sociale.  Di conseguenza, la temporalità, che definiamo come ciò che è iscritto nel tempo, deve essere considerata come un carattere fondativo delle relazioni sociali. 

Il tempo, in pratica, è un’infrastruttura strategica dell’azione e dell’interazione sociale, rappresenta e rende visibile il carattere processuale e storico di ogni attività umana, spesso drammatizzandola, perché la natura del tempo è di essere irreversibile.   

In sociologia, il primo a parlare di tempo sociale è stato Durkheim nel 1912.  Questa espressione esprime la dipendenza del tempo individuale da quello più ampio del gruppo o della comunità che funzionalmente lo comprende. 

Ma, qual è, in breve, la funzione del tempo sociale?  Attraverso la sua periodizzazione gli uomini organizzano e ritmano la loro vita privata e collettiva, di più, questa periodizzazione ne assicura il suo coordinamento e la sua sincronizzazione. 

Nella ricerca empirica sul tempo una delle tecniche più utilizzate in sociologia è quella indicata con l’espressione di time-budget (bilancio del tempo).  Storicamente, questa tecnica fu inizialmente elaborata dalla sociologia russa per studiare le problematiche della vita quotidiana della classe operaia. Oggi, invece, è adoperata per delineare i modi e gli stili di vita, per disegnare le cosiddette mappe dei comportamenti abituali

Attraverso il tempo o, meglio, attraverso l’esperienza del tempo, noi stabiliamo una continuità narrativa tra passato, presente e futuro e, come ha notato Alfred Schütz, un sociologo tedesco sul quale ritorneremo, il tempo è un fattore essenziale per la comprensione dell’agire umano. 

Il tempo, dunque, è una risorsa sociale, la cui disponibilità è diversa da individuo ad individuo e tra comunità e comunità.  Che cosa significa?  Che il tempo degli operai non è quello dei signori.  Che il tempo di una comunità di monaci non è quello di un collegio universitario o di una squadra di calcio.  Eccetera.    Nella modernità il tempo come risorsa, è soprattutto una risorsa economica, diversamente valutabile e valutata.

Karl Marx nei suoi studi di economia definisce il tempo come qualcosa che possiede un valore e lo considera da un punto di vista macroscopico, una variabile economica dei processi di produzione.  Di conseguenza, esso costituisce un importante fattore nei processi di razionalizzazione della modernità. 

Ricordiamo a questo proposito che è proprio dalla distinzione marxiana tra tempo di lavoro, o tempo produttivo, e tempo extra-lavorativo che hanno preso l’avvio gli studi sociologici sul tempo libero inteso come la quota di tempo che nella vita quotidiana un individuo ha a sua disposizione per dedicarlo ad attività – anche passive, come dormire – scelte liberamente in base ai suoi interessi e alle condizioni psicofisiche del momento.  

Vediamo altri due temi sensibili intorno alla relazione ambiente, individuo, natura.

Uno di questi temi, che compare sempre più spesso nel capitolo dedicato alle condizioni dell’ambiente naturale, è la nozione di corpo.

Oggi la sociologia del corpo è una disciplina indirizzata sia allo studio sistematico che alla costruzione di modelli esplicativi relativi al rapporto di reciproca determinazione o restrizione tra la società (ovvero i processi sociali) e il corpo inteso come un’unità psicosomatica.

I primi due autori che si sono occupati in modo specifico del corpo sono Georg Simmel e Marcel Mauss.

Lo hanno fatto in una prospettica culturalista creando i presupposto di una vera e propria sociologia del corpo o delle culture corporee successivamente elaborata anche da una grande antropologa inglese Mary Douglas (1921-2007).

Successivamente il corpo, come realtà fenomenologia, ha ricevuto una particolare attenzione nei lavori di Erving Goffman, Gregory Bateson e David Le Breton.

L’approccio in questi autori è essenzialmente di tipo strutturalista ed esso si è spinto fino a lambire il campo delle scienze bio-mediche.

Viceversa l’analisi della relazione tra il vissuto e la corporeità con i processi socio-culturali è centrale negli studi di due sociologi di origine austriaca, Thomas Lukmann (il cui libro più famoso è La realtà come costruzione sociale del 1966) e Alfred Schütz, che vedremo meglio più avanti per le sue ricerche sulla vita corrente è quello che la fenomenologia chiama Lebenswelt, cioè, mondi di vita.

Sempre sul tema del corpo e di ciò che rappresenta sia come elemento del mondo sensibile che espressione dell’individualità ricordiamo almeno due filosofi francesi Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty oltre che lo psichiatra inglese Roland Laing.

Infine, da un punto di vista gnoseologico di grande importanza sono le riflessioni di altri due grandi pensatori francesi, George Bataille e Michel Foucault a cui dobbiamo la nozione di biopolitica.

Il corpo in molti di questi studi viene indicato soprattutto come una macchina comunicativa, inteso sia come corpo vestito che corpo nudo.

Una macchina che si può costruire con l’attività fisica, si può modificare con una divisa, si può trasformare in un messaggio con un tatuaggio.

Il discorso sociologico, poi, si espande anche alle cosiddette pratiche che hanno per oggetto il corpo, perché servono a delineare, da una parte, gli stili di vita e, dall’altra, hanno un grosso risvolto economico, come sono le pratiche legate alla cosmesi, alla chirurgia plastica, alle diete, all’abbigliamento (…che fa il monaco!), eccetera.

Sempre a proposito di ambiente un altro tema divenuto sensibile, che noi non tratteremo per ragioni di tempo, è costituito da quelle che sono chiamate le riserve materiali del pianeta.

Questo perché se ieri avevano una grande importanza nell’espansione dell’influenza umana sul territorio, oggi hanno, di contro, notevoli implicazioni industriali (basti pensare alle guerre in corso sul pianeta e alla questione delle fonti di energia non rinnovabili come il petrolio) e il loro sfruttamento concorre al deterioramento dell’ambiente.

In particolare, ci sono due nuove discipline che si occupano di questo, sono l’ecologia e la geopolitica.

***

Passiamo adesso ad un rapido esame delle istituzioni e delle organizzazioni formali che, in breve, possiamo definire come, dei sistemi relativamente stabili di relazioni retti da norme specifiche che assolvono o dovrebbero assolvere a funzioni e interessi della vita sociale.  

In altre parole le istituzioni sono organizzazioni o strutture sociali che amministrano e governano il comportamento degli individui. 

Esse, allo stesso tempo, materializzano, cioè, danno visibilità, ai principi giuridici fondamentali della forma di Stato, identificandosi con gli organismi politico-costituzionali che ne sono l’espressione.  

Per esempio, sono istituzioni formali i parlamenti, le forze armate, i ministeri, le fondazioni, i tribunali, eccetera. 

Le organizzazione formali, invece, hanno una natura più privatistica, come sono un’azienda, una squadra di calcio, un club, un’associazione di volontariato, un partito politico… 

Delle istituzioni e delle organizzazioni formali quello che più le contraddistingue è il carattere della stabilitàSono stabili nella misura in cui vengono codificate dagli usi, dal costume dalle norme. 

Poi, a misura in cui sono stabili tendono a caricarsi di valori immateriali, quali il prestigio o l’affidabilità, valori che consentono loro una certa autonomia, ponendole al di sopra delle parti e degli interessi di parte. 

La loro stabilità e la loro autonomia, infatti, hanno il potere di agire con autorevolezza sugli attori sociali condizionandoli, educandoli, indirizzandoli nella loro vita sociale.  Al limite, sanzionandoli.   

Va da sé, le istituzioni e le organizzazioni formali sono profondamente intrecciate al meccanismo dell’interazione sociale.  Per definire l’interazione sociale conviene partire dall’esperienza che ognuno di noi ha della società. 

Non è difficile constatare che questa esperienza consiste nell’insieme dei rapporti che intratteniamo a diverso titolo all’interno del nostro habitat socialeSi tratta di un insieme di azioni e di reazioni alle azioni  – da cui il termine interazione – mediante le quali gli individui entrano tra loro in contatto, comunicano, collaborano, giudicano.  

Definiamo allora come interazione sociale la sequenza dinamica e mutevole di atti sociali fra individui o gruppi di individui che modificano le proprie azioni e reazioni a seconda delle azioni dei soggetti con cui interagiscono.  Occorre sottolineare che l’interazione sociale non si esprime solo nelle situazioni di tipo ripetitivo, che riguardano la vita quotidiana, ma anche nelle situazioni che definiamo eccezionali o uniche. 

L’interazione, in sintesi, può essere allora definita come il luogo primario in cui si forma, si ratifica, si trasforma il legame sociale. 

Da qui ne deriva che l’interazione sociale determina l’ordine sociale. 

Un ordine che non si manterrebbe in equilibrio senza una costante e spesso lunga e silenziosa rinegoziazione dei suoi valori, delle sue norme, dei suoi saperi o delle sue credenze

Perché l’interazione sociale è così importante?  Perché essa rappresenta il nodo intorno al quale si sviluppano gli studi del comportamento sia collettivo che individuale.  Questi studi, che confluiscono in quelle che oggi si chiamano le microsociologie, hanno come tema principale i cosiddetti rapporti face to face, nella definizione della sociologia anglosassone    

Diciamo che la microsociologie studiano i legami sociali elementari. 

Il primo a rendersi conto dell’importanza di questi studi fu Georg Simmel che rifletté sull’importanza di certi fenomeni apparentemente minori della vita corrente, come sono i segreti, l’amicizia, l’ubbidienza, la lealtà, la fiducia, eccetera. 

Oggi le microsociologie hanno come campo d’interesse i comportamenti, i ruoli, le interazioni sociali, i conflitti, le identità e il modo di formarsi dei processi decisionali. 

Tra gli studiosi di queste microsociologie va ricordato anche George Gurvitch (1894-1965), un sociologo russo, naturalizzato francese che studiò anche il diritto sociale e la funzione del fattore tempo nelle scienze sociali. 

Uno dei primi ricercatori che si pose il problema di indagare le relazioni tra gli individui, nell’ambito della vita quotidiana, fu un filosofo delle scienze sociali di formazione fenomenologica – la fenomenologia è stata una delle correnti filosofiche più importante del ventesimo secolo – Alfred Schütz (1899-1959). 

Schütz era austriaco, dovette emigrare in America a seguito delle leggi razziali e lì, anche per motivi personali, si dedicò allo studio del comportamento collettivo che illustrò in moltissimi saggi critici.  L’opera a cui faremo riferimento uscì nel 1932, s’intitola La fenomenologia del mondo sociale, è uno studio nel quale, partendo dalle ricerche di Max Weber, Schütz sviluppò le problematiche dell’agire sociale. 

Egli definì la vita quotidiana, come l’insieme di azioni, di rapporti, di conoscenze e di credenze familiari all’interno dei quali, per così dire, scorre l’esistenza materiale degli individui, un’esistenza che è segnata dall’esperienza e la produce.

   Si tratta di quel insieme di microrelazioni che in genere si danno o passano per scontate, come salutare un conoscente, prendere un appuntamento, uscire in compagnia per una cena, telefonare per informarsi sulla salute di un parente ammalato, avvertire casa per un improvviso contrattempo, mettersi d’accordo con qualcuno per andare ad un concerto, eccetera…    

Alfred Schütz con i suoi studi dimostrò che questi rapporti costituiscono il cemento dell’esperienza sociale degli individui.   

Esaminiamo allora, sotto questa luce, alcuni caratteri della vita quotidiana.   

Il primo di essi è la routine. Costituisce il carattere più evidente della vita quotidiana e, per molti versi, anche il più sorprendente quando lo andiamo a focalizzare.  È un carattere che esprime la ripetitività e la prevedibilità delle azioni, dei comportamenti e dei pensieri

La prevedibilità, in particolare, agisce sul comportamento degli individui abbassando il livello d’interesse dell’osservatore e/o dell’attore sociale e così agendo favorisce un risparmio di energie. Ma c’è anche un risvolto negativo.     

La ripetizione e la prevedibilità dei comportamenti possono finire per stimolare risposte automatiche o stereotipate, che abbassano il nostro grado di comprensione di ciò che ci circonda.   

Perché ripetizione e prevedibilità sono così importanti per la sociologia?  Perché quando ripetitività e prevedibilità tendono ad occupare quasi per intero il tempo della vita quotidiana si può affermare di essere in presenza di vissuti che tendono a deteriorarsi

Come dicono i filosofi sociali, siamo davanti ad una alterazione del quiora che induce ad una sorta di smarrimento sociale e, spesso, nei casi più gravi, a forme di angoscia e di disagio psichico.    

I processi interattivi generano anche un altro fenomeno, le tipizzazioni.   

La tipizzazione, in buona sostanza, agisce come uno strumento di previsione del comportamento.  Vuol dire, capovolgendo un proverbio popolare che l’abito, a dispetto del nostro senso critico, fa spesso il monaco.  Le tipizzazioni possono essere involontarie, ma il più delle volte sono il risultato di una scelta consapevole tra i vari modelli di comportamento che l’esperienza sociale ci fornisce. 

Perché è importante il tema della consapevolezza?  Perché ciascuno sa bene che ad ogni passo della nostra giornata come della nostra vita sociale siamo costantemente osservati, e in qualche modo interpretati e giudicati.  Perché ciascuno di noi si rende conto che gli altri reagiscono nei nostri confronti secondo il loro modo di essere che si esprime attraverso il loro modo di interpretare e vivere le situazioni sociali.      

Un altro aspetto importante dell’interazione e quello che la lega ai processi della rappresentazione sociale.  Gli individui che vivono i processi d’interazione sociale, non solo sono coscienti delle azioni e delle reazioni che questi processi comportano, ma, in genere, sono consapevoli anche dei loro effetti.

       

Secondo Erving Goffman (1922-1982) a causa della consapevolezza che gli individui hanno di influenzare con le proprie azioni l’opinione che gli altri si fanno della situazione alla quale essi stanno partecipando, questi individui finiscono (inevitabilmente) per comportarsi come se recitassero una parte, come se fossero attori su un palcoscenico.   Come se vivessero dentro una rappresentazione teatrale o in uno spettacolo.   

Goffman è un sociologo di origine canadese, ma è vissuto negli Usa ed ha studiato a Chicago.  Lo ricordiamo perché a Chicago ha operato una delle scuole di sociologia urbana più prestigiose degli Stati Uniti.  

Uno degli scritti più importanti di questo studioso, pubblicato nel 1956, s’intitola, La vita quotidiana come rappresentazione.  Con questo scritto Goffman, introduce nella sociologia il concetto di prospettiva drammaturgica

Il suo campo di ricerche principali furono gli aspetti trascurati della vita quotidiana, quelli che appaiono banali, ma che possiedono, in sé, una forte carica recitativa.  Aspetti che, nelle società complesse, come sono quelle del mondo Occidentale, sono divenuti spesso oscuri ed equivoci e che, sempre di più, vengono usati o manipolati per offrire agli altri un’immagine in qualche modo valorizzata di noi stessi.  

I sociologi americani definiscono queste situazioni come face to faceperché sono costruita essenzialmente sulle piccole situazioni della vita di tutti i giorni. 

Per analizzarle Goffman immaginò la vita quotidiana come un gioco di rappresentazioni.    Un gioco nel quale l’identità dell’individuo – che nella lingua inglese è definita con l’espressione di selfcoincide di volta in volta con le maschere che costui indossa sul palcoscenico della vita corrente

In questo quadro la vita di tutti i giorni è di fatto analizzata come una scena sulla quale si recita, una scena con i suoi attori, il suo pubblico, le sue quinte, dove spesso gli attori contraddicono quello che hanno detto o fatto davanti ai riflettori.  Su questa scena gli attori si mettono in gioco, si riconoscono, si alleano, si scontrano s’ingannano, mostrano la loro capacità d’impersonare un ruolo, s’immergono o prendono le distanze dalle situazioni che li coinvolgono 

Occorre persi una domanda:

Gli individui sono coscienti di recitare una parte sociale? 

Per Goffman lo sono sempre, anche se non sempre ne sono fino in fondo consapevoli.  

In certe occasioni questa recitazione è assolutamente partecipata in altre, come una parte recitata mille volte, diventa quasi automatica, in altre ancora è recitata di malavoglia.  

C’è poi da considerare un fatto relazionale:Come l’Altro o gli altri giudicano chi sta recitando. 

Questo perché in base a come chi sta osservando valuta la spontaneità o, se si vuole, l’abilità oppure la qualità della recitazione dell’altro o degli altri suoi interlocutori ne tira delle conclusioni che influenzeranno il suo modo di comportarsi.  Come in una partita a ping-pong, ogni tiro provoca una reazione di tiro, che a sua volta provoca una reazione…e così via….  

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In ogni modo, questa propensione alla fuga era stata classificata come una vera è propria patologia del comportamento a cui era stato dato il nome di dromomania o nevrosi da vagabondaggio, che colpiva i bianchi schizofrenici e tutti i neri, come malattia propria del carattere delle persone di colore… 

 

Parte terza.

Veniamo adesso al concetto di cultura

Prima di esaminarlo in dettaglio, considerata l’importanza che ha un istituzione internazionale come l’UNESCO, vediamo come questa l’ha definita:  La cultura nel suo significato più ampio è considerata come l’insieme dei tratti distintivi, spirituali, materiali, intellettuali ed affettivi, che caratterizzano una società, un gruppo sociale o un individuo. 

Subordinata alla natura essa ingloba, oltre che l’ambiente, le arti e le lettere, i modi di vita, i diritti fondamentali dell’essere umano, i sistemi di valore, le tradizioni, le credenze e le scienze. (Dichiarazione di Messico City sulle politiche culturali del luglio-agosto 1982.) 

In breve si è voluto riconoscere che ogni società umana possiede una propria cultura, che si distingue da tutte le altre. 

Questa cultura deve saper ammettere l’esistenza delle altre culture e al limite accoglierle. 

In questo ambito, il multiculturalismo appare come l’espressione di una speranza: che le culture siano riconosciute, s’incontrino, si mescolino, si misurino e, soprattutto, si trasformino e si evolvano. 

Quello che è invece problematico è che in questa fase della mondializzazione (o, della globalizzazione se si vuole sottolineare l’aspetto economico) nessuno sa ancora dire se questa evoluzione va verso una maggiore diversità, va verso delle nuove diversità o verso una standardizzazione delle diversità più o meno significativa.

Se cerchiamo la voce cultura in un dizionario vediamo che essa ha, in genere, tre significati. 

In senso fisico indica l’azione di lavorare la terra per ottenere dei prodotti che non avremmo spontaneamente.  infatti, il termine cultura deriva dal latino “colere”,  che indicava l’abitare, il coltivare e l’onorare.  Un significato che in senso lato che ha conservato fino ad oggi. 

In senso intellettuale – la metafora è di Cicerone (Marco Tullio 106 – 43 a.c.) – la cultura indica l’azione del lavoro intellettuale per ottenere dei risultati che non avremmo ottenuto diversamente.  Per metonimia, poi, è anche l’insieme dei benefici così ottenuti. Cicerone fu il primo ad avere l’idea di tracciare un’analogia tra la cultura dell’anima, il lavoro della terra è l’insegnamento.  La cultura dell’anima che traduce l’espressione greca di païdéia, indica l’azione di estirpare dall’anima i suoi vizi come il contadino estirpa le erbacce dai campi. 

In senso antropologico la cultura indica l’insieme delle produzioni materiali e immateriali (come sono i miti, le credenze, ecc…) proprie di un popolo. 

In questo senso si impiega in contrapposizione a natura. 

Come è facile arguire questo termine ha una lunga storia e un significato polisemico.  Nella tradizione classica indicava il processo di formazione della personalità umana e delle sue capacità di progredireIl suo concetto scientifico, invece, è recente, ha circa un secolo di vita ed è il più funzionale agli scopi delle scienze sociali. 

Naturalmente, ogni definizione di cultura riflette gli orientamenti culturali e gli obiettivi di chi la propone, non per caso sono circa un centinaio quelle più conosciute.   

In ogni modo, la cultura essendo acquisita e non trasmessa biologicamente, non può essere ricondotta ad una base biologica o psicologica, così come non può essere riportata ad una semplice dimensione sociale e questo perché non è tanto la socialità che contraddistingue l’uomo, ma il fatto culturale in sé o, se si preferisce, la sociabilità, che possiamo definire come l’attitudine a vivere in società.   

In questa prospettiva l’acculturazione può anche essere definita un modo specifico dei processi di socializzazione.

In realtà la socializzazione è un fenomeno più complesso.  Possiamo dire che rappresenta un processo di apprendimento che permette agli individui di acquisire i modelli culturali della società nella quale vive. 

Di per sé, la socializzazione definisce l’insieme dei meccanismi attraverso i quali l’individuo interiorizza le norme e i valori del suo gruppo di appartenenza e costruisce la sua identità sociale.  Si può distinguere tra una socializzazione primaria ed una secondaria.

La prima è quella che si elabora all’interno della famiglia, della scuola o con i mezzi di comunicazione. 

La seconda è quella che si sviluppa a partire dalle grandi tappe della vita, matrimonio, nascite, lutti, eccetera. 

La socializzazione, poi, interferisce in modo notevole con i processi d’interazione sociale e quella che si chiama la riproduzione sociale.  La riproduzione sociale, qui, è quel meccanismo sociologico di mantenimento della posizione sociale e dei modi di agire, di pensare e di sentire di una famiglia o di un gruppo chiuso.  Un esempio. 

I figli delle famiglie medio-basse hanno la tendenza a non intraprendere studi molto lunghi ed articolati.  Questo fatto è determinato e favorito dalla ineguale ripartizione del capitale economico, culturale e sociale tra le classi. 

Di contro, le famiglie delle classi dominanti cercano di mantenere il loro posto nello spazio sociale, di conseguenza utilizzano la scuola al fine di riprodurre il loro capitale culturale che garantisce loro prestigio e ricchezza. 

L’analisi del concetto di cultura, da un punto di vista storiografico, è diventato nel ‘900, tra gli anni ’30 e la fine della seconda guerra mondiale, uno dei dibattiti centrali dell’antropologia di lingua inglese, che ne sviluppò una forte ricerca sul campo.   

Uno dei libri più interessanti di questo periodo è Patterns of Culture, edito nel 1934 e scritto da Ruth Benedict, un’antropologa americana, allieva di Franz Boas (1858-1942), un etnologo tedesco che lavorò molto anche negli Stati Uniti, e che, con Edward Burnett Tylor, è considerato uno dei fondatori della moderna antropologia culturale. 

A quali risultati arrivò l’antropologia di questo periodo?  – che il comportamento culturale è determinato socialmente.    – che la natura umana non stabilisce in modo univoco le risposte che l’uomo da ai propri bisogni.  – che la cultura è costituita non tanto da comportamenti individuali, quanto da comportamenti di gruppo, per cui è essenziale, per le scienze sociali, analizzare la struttura e il processo di formazione di questi comportamenti. 

La matrice di questa impostazione è evidentemente di tipo darwiniano, infatti, anche l’uomo, al pari delle altre specie viventi, deve adattarsi all’ambiente naturale e, tra le risposte a cui questo processo da luogo, si verifica sempre una selezione che induce ogni cultura ad accogliere certi modi di comportamento, così come a respingerne altri. 

È in questo contesto che Ruth Benedict nel 1929 definiva la cultura come “la totalità che include tutti gli abiti o i comportamenti acquisiti dall’uomo in quanto membro della società.” 

Più semplicemente possiamo dire che la cultura è l’insieme degli stati mentali condivisi da un gruppo sufficientemente grande di individui. 

Oppure, sotto un’altra angolazione, la cultura definisce il complesso dei modi di vita ai quali viene attribuito un valore da parte di un gruppo d’individui o di una comunità

Praticamente, da un’altra angolazione, è come dire che la cultura è un insieme di modelli normativi condivisi dai membri di un gruppo allo scopo di regolarne la condotta.  Modelli che sono spesso accompagnati da sanzioni di varia natura. 

Affinché la cultura possa svolgere tale funzione è necessario che i modelli di comportamento che la costituiscono abbiano un certo grado non soltanto di compatibilità, ma anche di organizzazione, in pratica devono avere a proprio fondamento un sistema di valori.          Per riassumere: La cultura è appresa.

È influenzata dalle componenti ambientali, comportamentali e storiche degli individui.  

Possiede una sua strutturata.   

Si può tracciare un profilo delle configurazioni che strutturano le forme culturali. 

Vediamo le principali.  Esse sono:  La cultura materiale e le sue forme di organizzazione: tecnologica ed economica. Le istituzioni sociali, quali l’istruzione o le strutture politiche. L’uomo (di per sé) è la mondanità, con il suo sistema di credenze e di controllo del potere. Il dominio estetico, con le arti, il folclore, la musica, il teatro e la danza. Il linguaggio.

Ancora. La cultura ha una dimensione dinamica.

Il suo continuo divenire (che è tutt’altra cosa di crescere!) è una costante della cultura degli uomini.  Un divenire che va sempre visto sullo sfondo della stabilità sociale.

Il mutamento delle forme culturali è un tema molto delicato e complesso perché coinvolge non solo le forme e i contenuti che provengono in modo autonomo dall’interno di una comunità, ma anche ciò che gli arriva dall’esterno. 

Lo sviluppo interno, in genere, è il risultato della creatività, delle scoperte e delle invenzioni nei vari campi del sapere. 

Lo sviluppo esterno, invece, è il risultato di un processo più o meno libero e consapevole di “adozione” di forme e contenuti culturali di altre culture. Questo processo di adozione – nella modernità – è quasi sempre il frutto di pressioni economiche, così come nell’antichità era il risultato dell’occupazione di un territorio a seguito di guerre di espansione.

 

Apriamo ora una parentesi su alcune distinzioni che possiamo fare all’interno del termine cultura.    

La prima è quella che distingue tra cultura dominante, subcultura, controcultura

Se intendiamo per cultura dominante la cultura egemone in dato momento in una data area, la subcultura è un aggregato tendenzialmente omogeneo di conoscenze, valori, credenze, stili e modelli di vita capaci di contraddistinguere un gruppo sociale. 

Fattori come la classe sociale, l’età, la provenienza etnica, la religione, la lingua, il luogo di residenza e perfino l’orientamento ideologico e politico possono, infatti, combinarsi tra di loro e creare identità culturali capaci di differenziarsi significativamente dalla cultura dominante. 

Gli studiosi delle subculture hanno notato che i membri di una subcultura usano spesso differenziarsi dal resto della società con uno stile di vita o un modo di vestire che sono simbolici e alternativi a quelli dominanti. 

In questo senso lo studio delle subculture consiste nell’analisi dei simbolismi collegati a queste forme di espressione esteriore e di come questi simbolismi vengono percepite dai membri della società dominante. 

Di fatto, tanto più una collettività è differenziata tanto più facilmente sarà possibile rintracciare al suo interno delle subculture che producono propri valori. 

Siccome la cultura è un fenomeno dinamico più questi valori si sviluppano e si strutturano, più si fa problematico e complesso il fenomeno dell’integrazione sociale, in sostanza, la ricerca di una stabilità e di una convivenza pacifica. 

In Europa fino a qualche tempo fa si distinguevano principalmente due modelli d’integrazione sociale, quello francese, fondato sui principi laici dell’illuminismo, e quello inglese, basato sul rispetto formale delle differenze.  

Oggi sono entrambi in crisi, come le rivolte delle periferie metropolitana hanno mostrato.

Negli Stati Uniti d’America – dove da tempo si mescolano subculture provenienti dalle più svariate parti del mondo, un risultato dei numerosi processi migratori che hanno interessato questa nazione – si definisce melting pot il fenomeno della convivenza che si è realizzata.

Ma il caso americano fa storia a sé.       

Va qui notato che l’uso dell’espressione subcultura non implica necessariamente una situazione conflittuale con la cultura dominante, può infatti costituirne soltanto una variante o un elemento ereditato storicamente. 

L’espressione di controcultura è, invece, più recente, indica una radicalizzazione delle diversità, essa va intesa come un rifiuto etico e comportamentale dell’insieme dei valori e delle norme dominanti.  Gli anglosassoni dicono del mainstream della società.

Un tempo questa espressione serviva a definire il comportamento pittoresco delle giovani generazioni nate sul mito di sex, drug & rock and roll, oggi qualcuno impiega questo termine per definire la cultura interna dei gruppi terroristici o fortemente caratterizzati dall’etnia.

Un altro modo di dividere le varie componenti della cultura in sociologia è quello di distinguere tra cultura materiale e cultura non-materiale.    La cultura materiale, nell’ambito di questo corso, è la cultura delle cose.  È composta da oggetti, manufatti, prodotti, servizi, merci, a cui si possono contrapporre i significati, i valori, i simboli, i linguaggi, e tutto ciò che intendiamo come non-materiale.

 

Di fatto è una distinzione di comodo, perché sia le cose materiali che i valori immateriali hanno senso solo se è noto il significato culturale che viene loro attribuito. 

In quest’ambito abbiamo anche un’altra distinzione, quella tra cultura sostitutiva e cultura non sostitutiva.  

La cultura sostitutiva è formata da tutti quegli elementi culturali che nel tempo possono diventare obsoleti o perdere di valore e di utilità. 

Finire così per essere socialmente dimenticati.

In genere è una conseguenza diretta dall’accumulazione dei saperi, delle tecniche e dell’esperienza. 

La cultura non sostitutiva, di contro, è quella che perdura nel tempo ed è ricordata. 

Dentro questo schema si formano quattro “rappresentazioni”: – abbiamo degli elementi culturali materiali sostitutivi, come sono oggi, per fare un esempio, i televisori in bianco e nero, oppure le macchine per scrivere a tasti meccanici o la macchina fotografica a pellicola e sviluppo chimico. 

– abbiamo degli elementi culturali materiali non-sostitutivi quando ci riferiamo a degli elementi culturali che non subiscono un processo d’invecchiamento e non possono essere messi in disuso, in pratica, che vengono continuamente richiamati come valori che superano il tempo. 

Per esempio, il Partenone di Atene, il Colosseo, le ville del Palladio o l’architettura industriale inglese dell’Ottocento, certi paesaggi, le sedie Thonet, eccetera. 

Allo stesso modo possiamo avere: – degli elementi culturali non-materiali sostitutivi, come sono, sempre per intenderci con un esempio, certi modelli della fisica o certe concezioni della tecnica che non servono più, oppure, certi cerimoniali o certe convenzioni comunicative, come il caso dell’alfabeto Morse o, più semplicemente, l’abitudine di cambiarsi prima di sedersi a tavola. 

– degli elementi culturali non-materiali non-sostitutivi, come la musica di Bach o di Eric Satie, la poesia di Omero o di Thomas Eliot, i romanzi di James Joyce o di Marcel Proust, le canzoni dei Rolling Stones o dei Pink Floyd e, se volete, le sinfonie di Glenn Branca. 

Ritorniamo, adesso ad un compito importante che svolge la cultura dal punto di vista della sociologia, che possiamo definire una funzione di mediazione

Perché le forme espressive che, soprattutto attraverso il linguaggio, si configurano come rappresentazioni della realtà (siano esse rappresentazioni religiose, artistiche, scientifiche, filosofiche, giuridiche, o del comportamento) costituiscono altrettanti modi attraverso i quali l’individuo cosciente di sé riesce a mediare il rapporto con se stesso, gli altri, l’ambiente e le cose. 

Per la sociologia la mediazione è il processo con il quale il pensiero generalizza i dati dei sensi ed estrae dalla conoscenza sensoriale – che è una sorta di conoscenza immediata – una conoscenza astratta e intellettuale, che possiamo definire una conoscenza mediata. 

In questo senso la cultura ha anche una funzione implicita fondamentale perché la mediazione s’impone agli uomini come il fondamento della prevedibilità sociale  

A questo punto però, dobbiamo fare attenzione a non confondere la cultura con un’altra espressione che nel linguaggio comune le è analoga, quella di civiltà.    

Il termine civiltà deriva dal latino civilitas che deriva dall’aggettivo civilis.

Civilis, a sua volta, deriva da civis che significa cittadino.

La nozione di civiltà in sociologia serve ad evocare soprattutto lo stato della tecnica o, se si vuole, il risultato di un processo in virtù del quale gli individui diventano capaci di vivere in società.

Va da sé, questo risultato dipende da molti fattori, ma è indubbio che quello da cui dipendono tutti gl’altri è costituito dalla tecnica. 

Noi, a questo proposito, usiamo dire civiltà del bronzo, del ferro, civiltà del petrolio, civiltà atomica, civiltà dell’informazione. 

L’espressione di civiltà ( Zivilisation/ civilisation), fino alla fine del ‘700, serviva soprattutto a definire il processo in virtù del quale gli individui divenivano capaci di vivere in società.  In questo senso, la civiltà tendeva a confondersi con l’atto di civilizzare

Di solito si distingue la civiltà dalla cultura in base a due considerazioni.  Un’estensione più vasta in termini di territorio.

Una durata molto più lunga in termini di tempo.  

In sub-ordine c’è anche il fatto che, in genere, le civiltà inglobano più culture e non si da il contrario.  Per esempio, la civiltà europea comprende la cultura italiana, quella francese, quella tedesca e via dicendo. 

Per riassumere si può dire che le tecniche costituiscono il corpo di una civiltà, la cultura la sua anima.      Dobbiamo sottolineare ancora qualche punto.   La cultura è un prodotto sociale che assicura la convivenza degli individui tra loro

La specie umana è l’unica capace di creare consapevolmente una cultura e di tramandarla socialmente da generazione a generazione. 

Ma come si acquisisce la cultura?  Gli antropologi sostengono che le forme della cultura si acquisiscono principalmente per imitazione, in sub-ordine, per addestramento e per apprendimento, cioè, principalmente con l’educazione scolastica.  

Da questo punto di vista la cultura appare come l’insieme di tutte le attività e di tutti i prodotti della personalità umana che non siano automaticamente riflessi o pulsionali

O, in modo più semplice, l’insieme delle attività apprese e dei manufatti prodotti a seguito di

questo apprendimento. 

Un altro grande lemma che s’intreccia con la nozione di cultura è quello di società. Anche questo è un concetto importante, soprattutto nell’ambito delle scienze sociali, da molti addirittura definite come le scienze della società

Il punto di partenza è rappresentato dalla domanda, che cosa è la società, o meglio, come possiamo definire l’espressione di società.  

Fino a questo punto del nostro corso abbiamo usato questo termine in senso intuitivo.

Le difficoltà nel definire che cos’è la società nascono dal fatto che non ci riferiamo ad un oggetto o ad un fenomeno fisico, ma al risultato di numerosi processi intersoggettivi di interpretazione e di comunicazione, ovvero, a qualcosa che sta essenzialmente nelle rappresentazioni mentali degli individui. 

Tali rappresentazioni, per lo più composte da credenze o convinzioni, sono intimamente legate all’esperienza soggettiva e all’agire degli individui.      Non per caso nella cultura occidentale la nozione di società ha spesso oscillato tra una connotazione negativa ed una positiva.   Nel primo caso la società è contrapposta alla nozione di comunità.  Nel secondo caso è associata alla forma di Stato

Nel 1887, Ferdinand Tönnies (1855-1936), filosofo e sociologo tedesco, pubblico un libro intitolato Gemeinschaft und Gesellschaft (Comunità e società) dove appunto contrapponeva la comunità intesa in senso positivo, alla società considerata un insieme di relazioni di natura essenzialmente economiche e burocratiche. 

Per quanto ci riguarda diciamo che là dove c’è un territorio, un insieme d’individui in una relazione di reciprocità, una lingua o, un modo comune d’intendersi, là c’è una “unità sociale” o, meglio, una realtà sociale.  Ma come si costituiscono queste realtà?  Essenzialmente con la coscienza di farne parte. 

Va da sé, questa coscienza di esserne parte o, come dicono i filosofi, questa coscienza dell’esserci, è legata strettamente anche al linguaggio, che consente di articolare delle domande complesse sul senso dell’esperienza e della vita.  Il linguaggio, infatti, con le sue forme di rappresentazione di sé, della realtà e dell’esperienza, contiene l’insieme delle forme di mediazione simbolica che in qualche modo costituiscono la cultura.    En passant notiamo che la complessità del linguaggio è sempre un segnale della complessità culturale. 

La mediazione simbolica rappresenta un’interazione tra quei soggetti intenzionati a raggiungere un accordo o un compromesso su un certo modo di risolvere dei conflitti o delle divisioni che hanno a che fare con il loro stare insieme.  In parole povere è l’espressione della capacità di volersi intendere!

Per concludere, la società appare come il risultato dei processi di conoscenza e di autocoscienza che si sviluppano nella comunicazione sociale, verbale e non-verbale.

***

Affrontiamo adesso un altro paradigma del discorso sociologico: il concetto di massa

Questo concetto nella sua definizione classica è per molti versi desueto, ma le sue nuove formulazioni sono molto importanti nelle moderne analisi del comportamento collettivo.

Ne parleremo tenendo conto anche di un altro tema importante quello delle comunicazioni di massa.

    

Il termine massa nel Medioevo indicava le persone appartenenti alle corporazioni delle arti e dei mestieri.  Nel Settecento indicava le classi più povere in opposizione ai nobili. Nell’Ottocento i pensatori riformisti identificano la massa con la condizione del proletariato.  Per la psicologia, la massa è un insieme di persone senza un ruolo e incapaci di agire autonomamente. 

Nella modernità l’espressione di massa ha cominciato a riferirsi a vasti insiemi d’individui coinvolti in fenomeni di natura dinamica, quali, l’urbanizzazione, le migrazioni, le comunicazioni, la scolarizzazione, la divisione del lavoro, il tempo libero, eccetera. 

Proviamo ad esaminare qualche definizione attraverso gli autori che hanno studiato questo tema intrecciandolo con quello dell’analisi dell’azione collettiva, tutti argomenti complementari allo studio delle cosiddette società di massa

Con questa espressione s’intendono quelle società moderne in cui le forme di associazione tradizionali come la comunità, la classe, l’etnicità e la religione tendono a svalutarsi e, nelle quali, l’organizzazione sociale è allargata e burocratizzata fino al punto che le relazioni sociali appaiono di fatto impersonali, vuote, usurate. 

Per cominciare partiamo dalle riflessioni di Gustave Le Bon (1841-1931), un eclettico studioso del comportamento collettivo che si dedicò a questo argomento dopo essersi dedicato allo studio della fisiologia, dell’antropologia e dell’archeologia.  La sua opera più famosa s’intitola La psicologia delle folle, è del 1895. 

In breve, Le Bon intuì l’importanza che nella massa rivestono:

– i comportamenti collettivi,

– le eventuali leadership, che in esso si formano,

– soprattutto l’importanza di quel fenomeno che da lì a qualche anno sarà chiamato inconscio

Per questo autore l’uniformità degli atteggiamenti individuali che si registrano nelle masse non sono tanto il frutto della vicinanza fisica tra gli individui, quanto il risultato di una modificazione del comportamento.  Questa modificazione ha leggi proprie e spesso induce al prevalere nei singoli soggetti di pulsioni violente e incontrollabili rispetto al comportamento razionale individuale

Se si verificano determinate condizioni, osservò Le Bon, gli individui si trasformano in elementi della massa, assumono idee, atteggiamenti e comportamenti nei quali, presi singolarmente, non si riconoscerebbero. 

Ci sono delle circostante, insomma, in cui gli uomini appaiono impotenti, annullati nella loro individualità, accecati da una pulsione collettiva in grado di uniformare e in molti casi plagiare i loro comportamenti, demolendo il loro senso critico

Come è facile constatare questa analisi di Le Bon è una interpretazione negativa dei fenomeni di massa, che qualche decina di anni dopo fu condivisa anche da un altro studioso, spagnolo, José Ortega y Gasset (1883-1955). 

Qui, per ragioni di economia, non esamineremo altri autori contemporanei di Le Bon, che hanno dedicato i loro studi al concetto di massa, come il criminologo italiano Scipio Sighele (1843-11913) e lo psicologo sociale francese Gabriel Tarde (1843-1904).  Autore, quest’ultimo, riscoperto alla fine degli anni ’90 da Gilles Deleuze che in qualche modo ha rivalutato la sua “legge dell’imitazione”. Una legge che serve a spiegare alcuni fenomeni di devianza. 

Veniamo, invece, a Ortega y Gasset e al suo libro, La ribellione delle masse, i cui singoli capitoli uscirono, prima della stampa in volume, su alcune riviste politiche a partire dal 1927.  In questo testo e in estrema sintesi si sostiene che le masse sono una delle conseguenze dello sviluppo produttivo e tecnico della modernità.  

Questo sviluppo ha dato vita, tra le altre cose, alla nascita di enormi agglomerati sociali. Vale a dire ha concentrato, in modo assolutamente artificiale rispetto alla loro storia, grandi masse di individui, facilitando il formarsi di folle e generando delle condizioni di vita passiva sempre più uniformizzanti e banali. 

Ortega y Gasset elabora anche alcune considerazioni che erano sfuggite a Le Bon

Per esempio, egli notò, come i fenomeni di massificazione possono risultare gratificanti per gl’individui che ne sono coinvolti.  Di più, la massificazione consente un elevato soddisfacimento dei bisogni culturali e sociali primitivi, rozzi o d’impulso. 

In questo modo, è la tesi di Ortega y Gasset, gl’individui non sono più stimolati a cercare una realizzazione sociale al di là degli standard di vita dominanti e finiscono inevitabilmente per coltivare un atteggiamento socialmente amorfo.  

Da questo meccanismo di formazione delle masse, osserva Ortega y Gasset con una certa soddisfazione, si staccano sovente delle minoranze, dei piccoli gruppi sociali che per cultura, moralità, formazione politica, riferimenti ideali non accettano di uniformarsi alle condizioni di appiattimento e di livellamento delle masse e rivendicano per sé un individualismo aristocratico.  Un individualismo che, dati i tempi, si trovò spesso a cavallo tra anarchismo di destra e conservatorismo.      In ogni modo queste minoranze sono quelle che oggi potremmo chiamare gruppi di opinione o élites. 

Costituiscono delle realtà sociali studiate con attenzione dalla pubblicità e dagli istituti di ricerca sui comportamenti del consumatore, perché questi gruppi orientano, con le loro testimonianze, le maggioranze silenziose, invogliandole ai consumi di prestigio o “griffati”, agendo sulle politiche economiche, i meccanismi dell’emulazione sociale, la morale, le forme dell’etica e, in politica, sugli orientamenti di voto. 

Completamente diversa, invece, è la teoria delle masse che esce dall’analisi freudiana o, più precisamente, dalla cosiddetta psicologia del profondo

In Psicologia ed analisi dell’Io, un testo del 1921, Sigmund Freud (1865-1939) nota come la massa costituisca per il singolo un’occasione nella quale può in qualche modo relazionarsi o, meglio, accostarsi o scontrarsi con il suo inconscio, entrare in relazione con esso. 

Occorre osservare che per l’analisi freudiana tutta una serie di pulsioni sessuali infantili, allo stato latente nella personalità adulta, derivano dal fenomeno dell’infanzia protratta, cioè, dal lungo periodo di svezzamento che caratterizza la specie umana. 

Queste pulsioni, soprattutto quelle che non si sono risolte con la crescita o sono rimaste inibite, tendono a rivelarsi nel comportamento irrazionale delle masse e, di conseguenza, nei meccanismi di suggestione collettiva.

Sono pulsioni che facilitano l’adesione emotiva a certi gruppi di riferimento, l’identificazione con un leader, vale a dire, con la figura sostitutiva del padre. Una figura sublimabile nel concetto di autorità. 

Soprattutto l’identificazione con un leader (che per Freud, può essere reale o immaginaria) è in ogni caso gravida di conseguenze importanti. 

In buona sostanza, per la psico-analisi l’individuo ricerca nelle masse non solo un capo, ma soprattutto la sublimazione alle sue pulsioni.    In questo modo esse finiscono per deviare da quello che dovrebbe o potrebbe essere il loro destino originario

Si comprende allora come la massa finisca, in molte occasione, per acquisire nei confronti degli individui una funzione liberatoria degli impulsi inconsci.

 

Una concezione storica più positiva del concetto di massa è certamente quella elaborata dal materialismo storico, o meglio, dai movimenti riformatori e socialisti che si formarono lungo tutto l’800.  Questi movimenti consideravano le masse come l’elemento centrale e allo stesso tempo contraddittorio del modo di produzione capitalista di cui le masse erano una conseguenza. 

Qui, usiamo la parola massa al plurale.  L’espressione massa, al singolare è, da questi movimenti, considerata un’espressione astratta e in qualche modo,come avviene anche nel linguaggio comune, dispregiativa Il suo plurale, masse, invece, rappresenta in qualche modo un riconoscessimo della loro identità storica e politica.      

Questi movimenti erano convinti che fosse possibile agire sull’esperienza emotiva collettiva e sulle condizioni del vissuto individuale in modo tale da far maturare nelle masse una coscienza della loro condizione e della loro forza

Si riteneva, in sostanza, che le masse, in quanto moltitudini sfruttate, anche se incapaci di mobilitarsi fino in fondo come soggetti politici autonomi, erano comunque le protagoniste della questione sociale e potevano in qualche modo elaborare, sviluppando una coscienza di classe, le ragioni della loro emancipazione. 

Tra le due guerre mondiali il tema delle masse fu poi ripreso dalla Scuola di Francoforte, un istituto di ricerca tedesco che si occupava, sia dal punto di vista filosofico che storico, di quelle che allora venivano chiamate le scienze dell’uomo.  I loro studi, in particolare, si orientarono su un aspetto moderno e problematico dei fenomeni di massa, vale a dire, sulla loro responsabilità nel creare le condizioni della loro alienazione.  

Questa scuola, formata per lo più da filosofi e sociologi di origine ebraica nacque nel 1923 nell’ambito dell’Istituto per la Ricerca Sociale dell’università Wolfgang Goethe di Francoforte sul Meno.  All’avvento del nazismo i professori di questa scuola emigrarono a New York dove continuarono la loro attività.  Dopo la seconda guerra mondiale alcuni esponenti , tra cui Adorno, Horkheimer e Pollock, tornarono in Germania e fondarono un nuovo istituto per la ricerca sociale.   In modo molto sommario potremmo dire che l’obiettivo di questa scuola era la fondazione di una teoria critica della società.  I suoi esponenti più importanti sono stati

Theodor Adorno, Max Horkheimer, Friedrich Pollock, Erich Fromm, Jürgen Habermas ed Herbert Marcuse che, nel 1964, publicò un libro, L’uomo ad una dimensione in cui stigmatizzava la società opulenta dei paesi industrializzati caratterizzata dalla razionalità strumentale. Una società, per questo autore, inevitabilmente autoritaria perchè capace di condizionare ogni aspetto della vita corrente.

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