[Parte 3 di 8]
In ogni modo, questa propensione alla fuga era stata classificata come una vera è propria patologia del comportamento a cui era stato dato il nome di dromomania o nevrosi da vagabondaggio, che colpiva i bianchi schizofrenici e tutti i neri, come malattia propria del carattere delle persone di colore…
Parte terza.
Veniamo adesso al concetto di cultura.
Prima di esaminarlo in dettaglio, considerata l’importanza che ha un istituzione internazionale come l’UNESCO, vediamo come questa l’ha definita: La cultura nel suo significato più ampio è considerata come l’insieme dei tratti distintivi, spirituali, materiali, intellettuali ed affettivi, che caratterizzano una società, un gruppo sociale o un individuo.
Subordinata alla natura essa ingloba, oltre che l’ambiente, le arti e le lettere, i modi di vita, i diritti fondamentali dell’essere umano, i sistemi di valore, le tradizioni, le credenze e le scienze. (Dichiarazione di Messico City sulle politiche culturali del luglio-agosto 1982.)
In breve si è voluto riconoscere che ogni società umana possiede una propria cultura, che si distingue da tutte le altre.
Questa cultura deve saper ammettere l’esistenza delle altre culture e al limite accoglierle.
In questo ambito, il multiculturalismo appare come l’espressione di una speranza: che le culture siano riconosciute, s’incontrino, si mescolino, si misurino e, soprattutto, si trasformino e si evolvano.
Quello che è invece problematico è che in questa fase della mondializzazione (o, della globalizzazione se si vuole sottolineare l’aspetto economico) nessuno sa ancora dire se questa evoluzione va verso una maggiore diversità, va verso delle nuove diversità o verso una standardizzazione delle diversità più o meno significativa.
Se cerchiamo la voce cultura in un dizionario vediamo che essa ha, in genere, tre significati.
In senso fisico indica l’azione di lavorare la terra per ottenere dei prodotti che non avremmo spontaneamente. infatti, il termine cultura deriva dal latino “colere”, che indicava l’abitare, il coltivare e l’onorare. Un significato che in senso lato che ha conservato fino ad oggi.
In senso intellettuale – la metafora è di Cicerone (Marco Tullio 106 – 43 a.c.) – la cultura indica l’azione del lavoro intellettuale per ottenere dei risultati che non avremmo ottenuto diversamente. Per metonimia, poi, è anche l’insieme dei benefici così ottenuti. Cicerone fu il primo ad avere l’idea di tracciare un’analogia tra la cultura dell’anima, il lavoro della terra è l’insegnamento. La cultura dell’anima che traduce l’espressione greca di païdéia, indica l’azione di estirpare dall’anima i suoi vizi come il contadino estirpa le erbacce dai campi.
In senso antropologico la cultura indica l’insieme delle produzioni materiali e immateriali (come sono i miti, le credenze, ecc…) proprie di un popolo.
In questo senso si impiega in contrapposizione a natura.
Come è facile arguire questo termine ha una lunga storia e un significato polisemico. Nella tradizione classica indicava il processo di formazione della personalità umana e delle sue capacità di progredire. Il suo concetto scientifico, invece, è recente, ha circa un secolo di vita ed è il più funzionale agli scopi delle scienze sociali.
Naturalmente, ogni definizione di cultura riflette gli orientamenti culturali e gli obiettivi di chi la propone, non per caso sono circa un centinaio quelle più conosciute.
In ogni modo, la cultura essendo acquisita e non trasmessa biologicamente, non può essere ricondotta ad una base biologica o psicologica, così come non può essere riportata ad una semplice dimensione sociale e questo perché non è tanto la socialità che contraddistingue l’uomo, ma il fatto culturale in sé o, se si preferisce, la sociabilità, che possiamo definire come l’attitudine a vivere in società.
In questa prospettiva l’acculturazione può anche essere definita un modo specifico dei processi di socializzazione.
In realtà la socializzazione è un fenomeno più complesso. Possiamo dire che rappresenta un processo di apprendimento che permette agli individui di acquisire i modelli culturali della società nella quale vive.
Di per sé, la socializzazione definisce l’insieme dei meccanismi attraverso i quali l’individuo interiorizza le norme e i valori del suo gruppo di appartenenza e costruisce la sua identità sociale. Si può distinguere tra una socializzazione primaria ed una secondaria.
La prima è quella che si elabora all’interno della famiglia, della scuola o con i mezzi di comunicazione.
La seconda è quella che si sviluppa a partire dalle grandi tappe della vita, matrimonio, nascite, lutti, eccetera.
La socializzazione, poi, interferisce in modo notevole con i processi d’interazione sociale e quella che si chiama la riproduzione sociale. La riproduzione sociale, qui, è quel meccanismo sociologico di mantenimento della posizione sociale e dei modi di agire, di pensare e di sentire di una famiglia o di un gruppo chiuso. Un esempio.
I figli delle famiglie medio-basse hanno la tendenza a non intraprendere studi molto lunghi ed articolati. Questo fatto è determinato e favorito dalla ineguale ripartizione del capitale economico, culturale e sociale tra le classi.
Di contro, le famiglie delle classi dominanti cercano di mantenere il loro posto nello spazio sociale, di conseguenza utilizzano la scuola al fine di riprodurre il loro capitale culturale che garantisce loro prestigio e ricchezza.
L’analisi del concetto di cultura, da un punto di vista storiografico, è diventato nel ‘900, tra gli anni ’30 e la fine della seconda guerra mondiale, uno dei dibattiti centrali dell’antropologia di lingua inglese, che ne sviluppò una forte ricerca sul campo.
Uno dei libri più interessanti di questo periodo è Patterns of Culture, edito nel 1934 e scritto da Ruth Benedict, un’antropologa americana, allieva di Franz Boas (1858-1942), un etnologo tedesco che lavorò molto anche negli Stati Uniti, e che, con Edward Burnett Tylor, è considerato uno dei fondatori della moderna antropologia culturale.
A quali risultati arrivò l’antropologia di questo periodo? – che il comportamento culturale è determinato socialmente. – che la natura umana non stabilisce in modo univoco le risposte che l’uomo da ai propri bisogni. – che la cultura è costituita non tanto da comportamenti individuali, quanto da comportamenti di gruppo, per cui è essenziale, per le scienze sociali, analizzare la struttura e il processo di formazione di questi comportamenti.
La matrice di questa impostazione è evidentemente di tipo darwiniano, infatti, anche l’uomo, al pari delle altre specie viventi, deve adattarsi all’ambiente naturale e, tra le risposte a cui questo processo da luogo, si verifica sempre una selezione che induce ogni cultura ad accogliere certi modi di comportamento, così come a respingerne altri.
È in questo contesto che Ruth Benedict nel 1929 definiva la cultura come “la totalità che include tutti gli abiti o i comportamenti acquisiti dall’uomo in quanto membro della società.”
Più semplicemente possiamo dire che la cultura è l’insieme degli stati mentali condivisi da un gruppo sufficientemente grande di individui.
Oppure, sotto un’altra angolazione, la cultura definisce il complesso dei modi di vita ai quali viene attribuito un valore da parte di un gruppo d’individui o di una comunità.
Praticamente, da un’altra angolazione, è come dire che la cultura è un insieme di modelli normativi condivisi dai membri di un gruppo allo scopo di regolarne la condotta. Modelli che sono spesso accompagnati da sanzioni di varia natura.
Affinché la cultura possa svolgere tale funzione è necessario che i modelli di comportamento che la costituiscono abbiano un certo grado non soltanto di compatibilità, ma anche di organizzazione, in pratica devono avere a proprio fondamento un sistema di valori. Per riassumere: La cultura è appresa.
È influenzata dalle componenti ambientali, comportamentali e storiche degli individui.
Possiede una sua strutturata.
Si può tracciare un profilo delle configurazioni che strutturano le forme culturali.
Vediamo le principali. Esse sono: La cultura materiale e le sue forme di organizzazione: tecnologica ed economica. Le istituzioni sociali, quali l’istruzione o le strutture politiche. L’uomo (di per sé) è la mondanità, con il suo sistema di credenze e di controllo del potere. Il dominio estetico, con le arti, il folclore, la musica, il teatro e la danza. Il linguaggio.
Ancora. La cultura ha una dimensione dinamica.
Il suo continuo divenire (che è tutt’altra cosa di crescere!) è una costante della cultura degli uomini. Un divenire che va sempre visto sullo sfondo della stabilità sociale.
Il mutamento delle forme culturali è un tema molto delicato e complesso perché coinvolge non solo le forme e i contenuti che provengono in modo autonomo dall’interno di una comunità, ma anche ciò che gli arriva dall’esterno.
Lo sviluppo interno, in genere, è il risultato della creatività, delle scoperte e delle invenzioni nei vari campi del sapere.
Lo sviluppo esterno, invece, è il risultato di un processo più o meno libero e consapevole di “adozione” di forme e contenuti culturali di altre culture. Questo processo di adozione – nella modernità – è quasi sempre il frutto di pressioni economiche, così come nell’antichità era il risultato dell’occupazione di un territorio a seguito di guerre di espansione.
Apriamo ora una parentesi su alcune distinzioni che possiamo fare all’interno del termine cultura.
La prima è quella che distingue tra cultura dominante, subcultura, controcultura.
Se intendiamo per cultura dominante la cultura egemone in dato momento in una data area, la subcultura è un aggregato tendenzialmente omogeneo di conoscenze, valori, credenze, stili e modelli di vita capaci di contraddistinguere un gruppo sociale.
Fattori come la classe sociale, l’età, la provenienza etnica, la religione, la lingua, il luogo di residenza e perfino l’orientamento ideologico e politico possono, infatti, combinarsi tra di loro e creare identità culturali capaci di differenziarsi significativamente dalla cultura dominante.
Gli studiosi delle subculture hanno notato che i membri di una subcultura usano spesso differenziarsi dal resto della società con uno stile di vita o un modo di vestire che sono simbolici e alternativi a quelli dominanti.
In questo senso lo studio delle subculture consiste nell’analisi dei simbolismi collegati a queste forme di espressione esteriore e di come questi simbolismi vengono percepite dai membri della società dominante.
Di fatto, tanto più una collettività è differenziata tanto più facilmente sarà possibile rintracciare al suo interno delle subculture che producono propri valori.
Siccome la cultura è un fenomeno dinamico più questi valori si sviluppano e si strutturano, più si fa problematico e complesso il fenomeno dell’integrazione sociale, in sostanza, la ricerca di una stabilità e di una convivenza pacifica.
In Europa fino a qualche tempo fa si distinguevano principalmente due modelli d’integrazione sociale, quello francese, fondato sui principi laici dell’illuminismo, e quello inglese, basato sul rispetto formale delle differenze.
Oggi sono entrambi in crisi, come le rivolte delle periferie metropolitana hanno mostrato.
Negli Stati Uniti d’America – dove da tempo si mescolano subculture provenienti dalle più svariate parti del mondo, un risultato dei numerosi processi migratori che hanno interessato questa nazione – si definisce melting pot il fenomeno della convivenza che si è realizzata.
Ma il caso americano fa storia a sé.
Va qui notato che l’uso dell’espressione subcultura non implica necessariamente una situazione conflittuale con la cultura dominante, può infatti costituirne soltanto una variante o un elemento ereditato storicamente.
L’espressione di controcultura è, invece, più recente, indica una radicalizzazione delle diversità, essa va intesa come un rifiuto etico e comportamentale dell’insieme dei valori e delle norme dominanti. Gli anglosassoni dicono del mainstream della società.
Un tempo questa espressione serviva a definire il comportamento pittoresco delle giovani generazioni nate sul mito di sex, drug & rock and roll, oggi qualcuno impiega questo termine per definire la cultura interna dei gruppi terroristici o fortemente caratterizzati dall’etnia.
Un altro modo di dividere le varie componenti della cultura in sociologia è quello di distinguere tra cultura materiale e cultura non-materiale. La cultura materiale, nell’ambito di questo corso, è la cultura delle cose. È composta da oggetti, manufatti, prodotti, servizi, merci, a cui si possono contrapporre i significati, i valori, i simboli, i linguaggi, e tutto ciò che intendiamo come non-materiale.
Di fatto è una distinzione di comodo, perché sia le cose materiali che i valori immateriali hanno senso solo se è noto il significato culturale che viene loro attribuito.
In quest’ambito abbiamo anche un’altra distinzione, quella tra cultura sostitutiva e cultura non sostitutiva.
La cultura sostitutiva è formata da tutti quegli elementi culturali che nel tempo possono diventare obsoleti o perdere di valore e di utilità.
Finire così per essere socialmente dimenticati.
In genere è una conseguenza diretta dall’accumulazione dei saperi, delle tecniche e dell’esperienza.
La cultura non sostitutiva, di contro, è quella che perdura nel tempo ed è ricordata.
Dentro questo schema si formano quattro “rappresentazioni”: – abbiamo degli elementi culturali materiali sostitutivi, come sono oggi, per fare un esempio, i televisori in bianco e nero, oppure le macchine per scrivere a tasti meccanici o la macchina fotografica a pellicola e sviluppo chimico.
– abbiamo degli elementi culturali materiali non-sostitutivi quando ci riferiamo a degli elementi culturali che non subiscono un processo d’invecchiamento e non possono essere messi in disuso, in pratica, che vengono continuamente richiamati come valori che superano il tempo.
Per esempio, il Partenone di Atene, il Colosseo, le ville del Palladio o l’architettura industriale inglese dell’Ottocento, certi paesaggi, le sedie Thonet, eccetera.
Allo stesso modo possiamo avere: – degli elementi culturali non-materiali sostitutivi, come sono, sempre per intenderci con un esempio, certi modelli della fisica o certe concezioni della tecnica che non servono più, oppure, certi cerimoniali o certe convenzioni comunicative, come il caso dell’alfabeto Morse o, più semplicemente, l’abitudine di cambiarsi prima di sedersi a tavola.
– degli elementi culturali non-materiali non-sostitutivi, come la musica di Bach o di Eric Satie, la poesia di Omero o di Thomas Eliot, i romanzi di James Joyce o di Marcel Proust, le canzoni dei Rolling Stones o dei Pink Floyd e, se volete, le sinfonie di Glenn Branca.
Ritorniamo, adesso ad un compito importante che svolge la cultura dal punto di vista della sociologia, che possiamo definire una funzione di mediazione.
Perché le forme espressive che, soprattutto attraverso il linguaggio, si configurano come rappresentazioni della realtà (siano esse rappresentazioni religiose, artistiche, scientifiche, filosofiche, giuridiche, o del comportamento) costituiscono altrettanti modi attraverso i quali l’individuo cosciente di sé riesce a mediare il rapporto con se stesso, gli altri, l’ambiente e le cose.
Per la sociologia la mediazione è il processo con il quale il pensiero generalizza i dati dei sensi ed estrae dalla conoscenza sensoriale – che è una sorta di conoscenza immediata – una conoscenza astratta e intellettuale, che possiamo definire una conoscenza mediata.
In questo senso la cultura ha anche una funzione implicita fondamentale perché la mediazione s’impone agli uomini come il fondamento della prevedibilità sociale.
A questo punto però, dobbiamo fare attenzione a non confondere la cultura con un’altra espressione che nel linguaggio comune le è analoga, quella di civiltà.
Il termine civiltà deriva dal latino civilitas che deriva dall’aggettivo civilis.
Civilis, a sua volta, deriva da civis che significa cittadino.
La nozione di civiltà in sociologia serve ad evocare soprattutto lo stato della tecnica o, se si vuole, il risultato di un processo in virtù del quale gli individui diventano capaci di vivere in società.
Va da sé, questo risultato dipende da molti fattori, ma è indubbio che quello da cui dipendono tutti gl’altri è costituito dalla tecnica.
Noi, a questo proposito, usiamo dire civiltà del bronzo, del ferro, civiltà del petrolio, civiltà atomica, civiltà dell’informazione.
L’espressione di civiltà ( Zivilisation/ civilisation), fino alla fine del ‘700, serviva soprattutto a definire il processo in virtù del quale gli individui divenivano capaci di vivere in società. In questo senso, la civiltà tendeva a confondersi con l’atto di civilizzare.
Di solito si distingue la civiltà dalla cultura in base a due considerazioni. Un’estensione più vasta in termini di territorio.
Una durata molto più lunga in termini di tempo.
In sub-ordine c’è anche il fatto che, in genere, le civiltà inglobano più culture e non si da il contrario. Per esempio, la civiltà europea comprende la cultura italiana, quella francese, quella tedesca e via dicendo.
Per riassumere si può dire che le tecniche costituiscono il corpo di una civiltà, la cultura la sua anima. Dobbiamo sottolineare ancora qualche punto. La cultura è un prodotto sociale che assicura la convivenza degli individui tra loro.
La specie umana è l’unica capace di creare consapevolmente una cultura e di tramandarla socialmente da generazione a generazione.
Ma come si acquisisce la cultura? Gli antropologi sostengono che le forme della cultura si acquisiscono principalmente per imitazione, in sub-ordine, per addestramento e per apprendimento, cioè, principalmente con l’educazione scolastica.
Da questo punto di vista la cultura appare come l’insieme di tutte le attività e di tutti i prodotti della personalità umana che non siano automaticamente riflessi o pulsionali.
O, in modo più semplice, l’insieme delle attività apprese e dei manufatti prodotti a seguito di
questo apprendimento.
Un altro grande lemma che s’intreccia con la nozione di cultura è quello di società. Anche questo è un concetto importante, soprattutto nell’ambito delle scienze sociali, da molti addirittura definite come le scienze della società.
Il punto di partenza è rappresentato dalla domanda, che cosa è la società, o meglio, come possiamo definire l’espressione di società.
Fino a questo punto del nostro corso abbiamo usato questo termine in senso intuitivo.
Le difficoltà nel definire che cos’è la società nascono dal fatto che non ci riferiamo ad un oggetto o ad un fenomeno fisico, ma al risultato di numerosi processi intersoggettivi di interpretazione e di comunicazione, ovvero, a qualcosa che sta essenzialmente nelle rappresentazioni mentali degli individui.
Tali rappresentazioni, per lo più composte da credenze o convinzioni, sono intimamente legate all’esperienza soggettiva e all’agire degli individui. Non per caso nella cultura occidentale la nozione di società ha spesso oscillato tra una connotazione negativa ed una positiva. Nel primo caso la società è contrapposta alla nozione di comunità. Nel secondo caso è associata alla forma di Stato.
Nel 1887, Ferdinand Tönnies (1855-1936), filosofo e sociologo tedesco, pubblico un libro intitolato Gemeinschaft und Gesellschaft (Comunità e società) dove appunto contrapponeva la comunità intesa in senso positivo, alla società considerata un insieme di relazioni di natura essenzialmente economiche e burocratiche.
Per quanto ci riguarda diciamo che là dove c’è un territorio, un insieme d’individui in una relazione di reciprocità, una lingua o, un modo comune d’intendersi, là c’è una “unità sociale” o, meglio, una realtà sociale. Ma come si costituiscono queste realtà? Essenzialmente con la coscienza di farne parte.
Va da sé, questa coscienza di esserne parte o, come dicono i filosofi, questa coscienza dell’esserci, è legata strettamente anche al linguaggio, che consente di articolare delle domande complesse sul senso dell’esperienza e della vita. Il linguaggio, infatti, con le sue forme di rappresentazione di sé, della realtà e dell’esperienza, contiene l’insieme delle forme di mediazione simbolica che in qualche modo costituiscono la cultura. En passant notiamo che la complessità del linguaggio è sempre un segnale della complessità culturale.
La mediazione simbolica rappresenta un’interazione tra quei soggetti intenzionati a raggiungere un accordo o un compromesso su un certo modo di risolvere dei conflitti o delle divisioni che hanno a che fare con il loro stare insieme. In parole povere è l’espressione della capacità di volersi intendere!
Per concludere, la società appare come il risultato dei processi di conoscenza e di autocoscienza che si sviluppano nella comunicazione sociale, verbale e non-verbale.
***
Affrontiamo adesso un altro paradigma del discorso sociologico: il concetto di massa.
Questo concetto nella sua definizione classica è per molti versi desueto, ma le sue nuove formulazioni sono molto importanti nelle moderne analisi del comportamento collettivo.
Ne parleremo tenendo conto anche di un altro tema importante quello delle comunicazioni di massa.
Il termine massa nel Medioevo indicava le persone appartenenti alle corporazioni delle arti e dei mestieri. Nel Settecento indicava le classi più povere in opposizione ai nobili. Nell’Ottocento i pensatori riformisti identificano la massa con la condizione del proletariato. Per la psicologia, la massa è un insieme di persone senza un ruolo e incapaci di agire autonomamente.
Nella modernità l’espressione di massa ha cominciato a riferirsi a vasti insiemi d’individui coinvolti in fenomeni di natura dinamica, quali, l’urbanizzazione, le migrazioni, le comunicazioni, la scolarizzazione, la divisione del lavoro, il tempo libero, eccetera.
Proviamo ad esaminare qualche definizione attraverso gli autori che hanno studiato questo tema intrecciandolo con quello dell’analisi dell’azione collettiva, tutti argomenti complementari allo studio delle cosiddette società di massa.
Con questa espressione s’intendono quelle società moderne in cui le forme di associazione tradizionali come la comunità, la classe, l’etnicità e la religione tendono a svalutarsi e, nelle quali, l’organizzazione sociale è allargata e burocratizzata fino al punto che le relazioni sociali appaiono di fatto impersonali, vuote, usurate.
Per cominciare partiamo dalle riflessioni di Gustave Le Bon (1841-1931), un eclettico studioso del comportamento collettivo che si dedicò a questo argomento dopo essersi dedicato allo studio della fisiologia, dell’antropologia e dell’archeologia. La sua opera più famosa s’intitola La psicologia delle folle, è del 1895.
In breve, Le Bon intuì l’importanza che nella massa rivestono:
– i comportamenti collettivi,
– le eventuali leadership, che in esso si formano,
– soprattutto l’importanza di quel fenomeno che da lì a qualche anno sarà chiamato inconscio.
Per questo autore l’uniformità degli atteggiamenti individuali che si registrano nelle masse non sono tanto il frutto della vicinanza fisica tra gli individui, quanto il risultato di una modificazione del comportamento. Questa modificazione ha leggi proprie e spesso induce al prevalere nei singoli soggetti di pulsioni violente e incontrollabili rispetto al comportamento razionale individuale.
Se si verificano determinate condizioni, osservò Le Bon, gli individui si trasformano in elementi della massa, assumono idee, atteggiamenti e comportamenti nei quali, presi singolarmente, non si riconoscerebbero.
Ci sono delle circostante, insomma, in cui gli uomini appaiono impotenti, annullati nella loro individualità, accecati da una pulsione collettiva in grado di uniformare e in molti casi plagiare i loro comportamenti, demolendo il loro senso critico.
Come è facile constatare questa analisi di Le Bon è una interpretazione negativa dei fenomeni di massa, che qualche decina di anni dopo fu condivisa anche da un altro studioso, spagnolo, José Ortega y Gasset (1883-1955).
Qui, per ragioni di economia, non esamineremo altri autori contemporanei di Le Bon, che hanno dedicato i loro studi al concetto di massa, come il criminologo italiano Scipio Sighele (1843-11913) e lo psicologo sociale francese Gabriel Tarde (1843-1904). Autore, quest’ultimo, riscoperto alla fine degli anni ’90 da Gilles Deleuze che in qualche modo ha rivalutato la sua “legge dell’imitazione”. Una legge che serve a spiegare alcuni fenomeni di devianza.
Veniamo, invece, a Ortega y Gasset e al suo libro, La ribellione delle masse, i cui singoli capitoli uscirono, prima della stampa in volume, su alcune riviste politiche a partire dal 1927. In questo testo e in estrema sintesi si sostiene che le masse sono una delle conseguenze dello sviluppo produttivo e tecnico della modernità.
Questo sviluppo ha dato vita, tra le altre cose, alla nascita di enormi agglomerati sociali. Vale a dire ha concentrato, in modo assolutamente artificiale rispetto alla loro storia, grandi masse di individui, facilitando il formarsi di folle e generando delle condizioni di vita passiva sempre più uniformizzanti e banali.
Ortega y Gasset elabora anche alcune considerazioni che erano sfuggite a Le Bon.
Per esempio, egli notò, come i fenomeni di massificazione possono risultare gratificanti per gl’individui che ne sono coinvolti. Di più, la massificazione consente un elevato soddisfacimento dei bisogni culturali e sociali primitivi, rozzi o d’impulso.
In questo modo, è la tesi di Ortega y Gasset, gl’individui non sono più stimolati a cercare una realizzazione sociale al di là degli standard di vita dominanti e finiscono inevitabilmente per coltivare un atteggiamento socialmente amorfo.
Da questo meccanismo di formazione delle masse, osserva Ortega y Gasset con una certa soddisfazione, si staccano sovente delle minoranze, dei piccoli gruppi sociali che per cultura, moralità, formazione politica, riferimenti ideali non accettano di uniformarsi alle condizioni di appiattimento e di livellamento delle masse e rivendicano per sé un individualismo aristocratico. Un individualismo che, dati i tempi, si trovò spesso a cavallo tra anarchismo di destra e conservatorismo. In ogni modo queste minoranze sono quelle che oggi potremmo chiamare gruppi di opinione o élites.
Costituiscono delle realtà sociali studiate con attenzione dalla pubblicità e dagli istituti di ricerca sui comportamenti del consumatore, perché questi gruppi orientano, con le loro testimonianze, le maggioranze silenziose, invogliandole ai consumi di prestigio o “griffati”, agendo sulle politiche economiche, i meccanismi dell’emulazione sociale, la morale, le forme dell’etica e, in politica, sugli orientamenti di voto.
Completamente diversa, invece, è la teoria delle masse che esce dall’analisi freudiana o, più precisamente, dalla cosiddetta psicologia del profondo.
In Psicologia ed analisi dell’Io, un testo del 1921, Sigmund Freud (1865-1939) nota come la massa costituisca per il singolo un’occasione nella quale può in qualche modo relazionarsi o, meglio, accostarsi o scontrarsi con il suo inconscio, entrare in relazione con esso.
Occorre osservare che per l’analisi freudiana tutta una serie di pulsioni sessuali infantili, allo stato latente nella personalità adulta, derivano dal fenomeno dell’infanzia protratta, cioè, dal lungo periodo di svezzamento che caratterizza la specie umana.
Queste pulsioni, soprattutto quelle che non si sono risolte con la crescita o sono rimaste inibite, tendono a rivelarsi nel comportamento irrazionale delle masse e, di conseguenza, nei meccanismi di suggestione collettiva.
Sono pulsioni che facilitano l’adesione emotiva a certi gruppi di riferimento, l’identificazione con un leader, vale a dire, con la figura sostitutiva del padre. Una figura sublimabile nel concetto di autorità.
Soprattutto l’identificazione con un leader (che per Freud, può essere reale o immaginaria) è in ogni caso gravida di conseguenze importanti.
In buona sostanza, per la psico-analisi l’individuo ricerca nelle masse non solo un capo, ma soprattutto la sublimazione alle sue pulsioni. In questo modo esse finiscono per deviare da quello che dovrebbe o potrebbe essere il loro destino originario.
Si comprende allora come la massa finisca, in molte occasione, per acquisire nei confronti degli individui una funzione liberatoria degli impulsi inconsci.
Una concezione storica più positiva del concetto di massa è certamente quella elaborata dal materialismo storico, o meglio, dai movimenti riformatori e socialisti che si formarono lungo tutto l’800. Questi movimenti consideravano le masse come l’elemento centrale e allo stesso tempo contraddittorio del modo di produzione capitalista di cui le masse erano una conseguenza.
Qui, usiamo la parola massa al plurale. L’espressione massa, al singolare è, da questi movimenti, considerata un’espressione astratta e in qualche modo,come avviene anche nel linguaggio comune, dispregiativa. Il suo plurale, masse, invece, rappresenta in qualche modo un riconoscessimo della loro identità storica e politica.
Questi movimenti erano convinti che fosse possibile agire sull’esperienza emotiva collettiva e sulle condizioni del vissuto individuale in modo tale da far maturare nelle masse una coscienza della loro condizione e della loro forza.
Si riteneva, in sostanza, che le masse, in quanto moltitudini sfruttate, anche se incapaci di mobilitarsi fino in fondo come soggetti politici autonomi, erano comunque le protagoniste della questione sociale e potevano in qualche modo elaborare, sviluppando una coscienza di classe, le ragioni della loro emancipazione.
Tra le due guerre mondiali il tema delle masse fu poi ripreso dalla Scuola di Francoforte, un istituto di ricerca tedesco che si occupava, sia dal punto di vista filosofico che storico, di quelle che allora venivano chiamate le scienze dell’uomo. I loro studi, in particolare, si orientarono su un aspetto moderno e problematico dei fenomeni di massa, vale a dire, sulla loro responsabilità nel creare le condizioni della loro alienazione.
Questa scuola, formata per lo più da filosofi e sociologi di origine ebraica nacque nel 1923 nell’ambito dell’Istituto per la Ricerca Sociale dell’università Wolfgang Goethe di Francoforte sul Meno. All’avvento del nazismo i professori di questa scuola emigrarono a New York dove continuarono la loro attività. Dopo la seconda guerra mondiale alcuni esponenti , tra cui Adorno, Horkheimer e Pollock, tornarono in Germania e fondarono un nuovo istituto per la ricerca sociale. In modo molto sommario potremmo dire che l’obiettivo di questa scuola era la fondazione di una teoria critica della società. I suoi esponenti più importanti sono stati
Theodor Adorno, Max Horkheimer, Friedrich Pollock, Erich Fromm, Jürgen Habermas ed Herbert Marcuse che, nel 1964, publicò un libro, L’uomo ad una dimensione in cui stigmatizzava la società opulenta dei paesi industrializzati caratterizzata dalla razionalità strumentale. Una società, per questo autore, inevitabilmente autoritaria perchè capace di condizionare ogni aspetto della vita corrente.
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