Da Dunbar a Milgram e i sei gradi di separazione

Lezioni monografiche:

Da Dunbar a Milgram e i sei gradi di separazione.

(Traccia)

Il numero di Dunbar.

Robin Ian McDonald Dunbar è un antropologo inglese e uno specialista del comportamento dei primati. Insegna ad Oxford. A lui si deve la formulazione di questa legge empirica che va sotto il nome di Numero di Dunbar.

Che cosa rappresenta questo numero?

Il limite teorico di persone con le quali un qualsiasi soggetto può mantenere e coltivare stabili rapporti sociali.

Oltre questo limite per mantenere stabile una comunità di rapporti occorre che i soggetti siano coinvolti, per esempio, in disposizioni normative di natura restrittiva, come avviene in un esercito.

L’oscillazione di questo numero può sembrare grande perché va da cento a duecentotrenta persone, ma intorno a centocinquanta si ha la frequenza maggiore dei casi.

Dunbar, successivamente, ha ipotizzato che questo numero è direttamente legato alle dimensioni della neocorteccia o, meglio, alla capacità di elaborazione neocorticale dei soggetti.

Se immaginiamo questo numero come un’area vedremo che al centro ci sono le relazioni che abbiamo in questo momento e alla periferia persone che abbiamo perso di vista crescendo o cambiando il nostro modo di vivere.

Come ha fatto Dunbar ad elaborare questa legge empirica?

Osservando il comportamento degli scimpanzé e la loro attività sociale principale, il grooming.

Questo termine inglese indica l’attività per mantenersi puliti, cioè lo spulciarsi reciproco degli scimpanzé.


Costituisce una pratica collettiva che si esegue seguendo precise norme di comportamento condiviso, perché oltre a mantenere il corpo libero dai parassiti rafforza le strutture sociali, facilita la sessualità e concorre alla soluzione delle dispute.

Studiando una colonia di scimpanzé Dunbar s’avvide che all’interno di essa c’erano diversi gruppi che praticavano tra di loro il grooming, ma un fatto lo incuriosì, i membri di ogni gruppo potevano anche cambiare, ma non il loro numero che si manteneva stabile.

Decise di verificare se anche per gli uomini si verificasse qualcosa di simile. Per farlo studiò lo sviluppo della società umana dal neolitico ai nostri giorni e il modo di formarsi delle comunità sociali, soprattutto dal punto di vista della loro grandezza. Ne dedusse che a prescindere dalla circostanze c’era una tendenza in esse ad oscillare intorno ai centocinquanta individui e abbozzò anche una similitudine tra il grooming degli scimpanzé e il linguaggio del gruppo inteso come uno strumento di pulizia sociale. Cioè, come un mezzo per mantenere coesa la comunità riducendo al minimo la necessità di un’intimità fisica e sociale. Un fatto che tra l’altro favorisce lo sviluppo dell’individualità non conflittuale.

In altre parole, il limite di centocinquanta rappresenta la soglia numerica entro la quale è possibile dare spazio e porre in essere rapporti interpersonali e conoscitivi che consentono di conoscere chi è ogni persona e come interagisce socialmente verso ogni altra persona della comunità.

Come ogni legge empirica la si può verificare. Partite da un individuo e dalla sua famiglia, sommate il cerchio dei parenti diretti e indiretti, degli amici, dei conoscenti. Aggiungeteci le persone che incontra con una certa frequenza, il portinaio, il panettiere, il giornalaio, il medico, poi la sfera delle conoscenze passate che sono rimaste vive nella sua memoria ed avrete il suo numero di Dunbar. L’eventuale scarto per arrivare a centocinquanta esprime il numero delle conoscenze con le quali il soggetto svilupperebbe nuovi rapporti di interazione o collaborazione se ne avesse l’occasione. Se il numero è superiore a centocinquanta il soggetto in questione, stante così le cose, difficilmente allargherà le sue conoscenze.

Questo numero sarebbe rimasto confinato nei libri universitari se non fosse che attirò l’attenzione dei programmatori di software sociali che incominciarono a tenerlo presente per valutare la dimensione delle reti sociali. Con quale scopo è facile intuirlo, mantenere e migliorare l’unità del gruppo, la sua coesione e il suo morale. Oggi, per esempio, è tenuto da conto in campo militare, nelle aziende, negli organismi pubblici e nelle università. Viene regolarmente usato nello studio della comunità di Internet, di Facebook e di MySpace.

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Appendice: La prossemica. La prossemica è una disciplina che studia lo spazio e le distanze all’interno di una comunicazione sia verbale che non verbale. Li studia al fine di gestirli.

Questo spazio può essere reale o immaginario, soggettivo o oggettivo, mentre le distanze possono essere fisiche, psicologiche, sociali, funzionali, culturali. L’espressione di prossemica (in inglese, prossemics) per molti è formata da due parole greche, pros presso e sema segno, che rinvia al controllo dello spazio. In questo senso è anche definita una semiologia degli spazi. Definizione che più si adatta ad un’altra versione sull’etimologia del termine, che la fa derivare da prox(imity), prossimità.

In ogni modo il termine fu coniato nel 1963 dall’antropologo americano Edward T. Hall ( 1914-2009) che lo usò nel suo libro La dimensione nascosta. La traduzione italiana è del 1968. Hall è stato per molti versi uno dei protagonisti degli studi culturali.

In breve Edward Hall notò che la distanza tra le persone è sempre correlata alla distanza fisica.

Partendo da questa osservazione definì quattro zone interpersonali.

– La distanza intima che resta confinata entro i cinquanta centimetri.

– La distanza personale compresa tra i cinquanta centimetri e il metro e trenta. È la distanza che sviluppa l’interazione tra gli amici.

– La distanza sociale per la comunicazione tra conoscenti che va da un metro e mezzo ai tre metri e mezzo.

– La distanza pubblica che si estende oltre i tre quattro metri e è quella delle pubbliche relazioni.

Naturalmente non sono misure tassative, ma dipendono da molti fattori culturali, sociali, ambientali.

È ovvio che la distanza alla quale ci sentiamo a nostro agio cambia a seconda se siamo italiani, svedesi o giapponesi.

Qualche curiosità. Gl’arabi tendono a stare molto vicini, quasi gomito a gomito. Gli orientali si sentono più a loro agio se sono oltre l’estensione del braccio. In India il sistema delle caste ha un complicato codice delle distanze che va fino all’intoccabilità. In ogni modo i paria devono stare ad almeno trentanove metri dai bramini. Anche il sesso determina la posizione. Gli uomini tendono a stare uno di fianco all’altro, le donne una di fronte all’altra.

Quando gli europei salgono in un ascensore collettivo si dispongono appoggiandosi alle pareti, gli americani, invece, si mettono uno accanto all’altro con il viso rivolto alla porta.

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La teoria dei sei gradi di separazione. Ovvero, volete conoscere Angelina Jolie o Brad Pitt?

Da alcuni anni a questa parte è la legge empirica che ha sollevato in rete le polemiche più aspre e i dibattiti più strampalati. C’è chi la considera assolutamente attendibile e chi le nega ogni attendibilità, soprattutto ha colpito l’immaginario di matematici, psicologi, scrittori e cineasti a cominciare dal film Six degrees of separation, del 1993, con la regia di Fred Schepisi e la partecipazione di Donald Sutherland. Tratto da una commedia teatrale di John Guare.

Andiamo con ordine.

È stato lo psicologo americano Stanley Milgram (1933-1984) ad elaborare nel 1967 questa teoria detta dei sei gradi di separazione, secondo la quale sulla terra ogni essere umano è separato da un altro essere umano da un massimo di sei passaggi di conoscenza diretta.

In teoria, dunque, conoscere Angelina Jolie, Brad Pitt o Barack Obama è più facile di quanto uno non immagini. Secondo questa teoria se tu conosci qualcuno, che conosce qualcuno, che conosce qualcuno…entro sei contatti arrivi a conoscere chi vuoi. Naturalmente Milgram non si è limitato ad enunciarla, l’ha dimostrata più volte sperimentalmente, anche se molti in passato hanno messo in dubbio i suoi risultati. Le ragioni non sono sempre scientifiche considerato che questo psicologo ebreo in tutta la sua carriera accademica ha sempre cercato di dimostrare le radici oscure e gli intrecci tra ogni forma di potere e di ubbidienza.

In ogni modo, il primo esperimento dimostrò come un gruppo di studenti del Nebraska fosse in grado di venire in contatto con degli sconosciuti, nello stato del Massachusetts, scelti a caso.

Tutto parte da due fatti.

Una tesi elaborata a livello letterario nel 1929 dallo scrittore ungherese Frigyes Karinthy e contenuta nel suo racconto “Catene”. Una ricerca di alcuni ricercatori del MIT degli anni ’50 del secolo scorso tesa ad elaborare una risposta a questa domanda a cavallo tra le scienze sociali e le ricerche di mercato. Dato un insieme di persone qual è la probabilità che ognuna di queste persone sia connessa ad un’altra attraverso un certo numero di collegamenti?

In quegl’anni furono formulate molte ipotesi, ma nessuna soddisfacente.

Nel 1967 Stanley Milgram, che si era interessato a molte ricerche intorno all’interazione sociale, trovò un sistema per verificare una sua teoria che definì “teoria del mondo piccolo”.

Milgram selezionò a caso un gruppo di abitanti del Midwest e chiese a ciascuno di loro di mandare un pacchetto ad un estraneo che abitava nel Massachusetts, a diverse migliaia di chilometri di distanza. Ognuno di costoro conosceva il nome del destinatario, la sua occupazione, e la zona in cui risiedeva, ma non l’indirizzo preciso. In pratica fu spiegato a ciascuno dei partecipanti all’esperimento di spedire il proprio pacchetto a una persona da loro conosciuta, che a loro giudizio avesse il maggior numero di possibilità di conoscere il destinatario finale. Quella persona avrebbe poi fatto lo stesso con un’altra persona di sua conoscenza e così via fino a che il pacchetto non venisse personalmente consegnato al destinatario finale.

Tutti si aspettavano che la catena includesse decine di intermediari, invece ci vollero in media solo tra i cinque e i sette passaggi per far arrivare il pacchetto al destinatario finale.

Questo esperimento di Milgram fu poi pubblicato in Psycology today e da qui nacque l’espressione sei gradi di separazione.

In termini matematici questa teoria non è difficile da spiegare. Se supponete di conoscere diciamo un centinaio di persone che a loro volta ne conoscono un centinaio, e questi un altro centinaio, eccetera, voi vedete che cento alla sesta è un numero molto vicino al numero degli abitanti della terra. Con il diffondersi dell’informatica è divenuta sempre più famosa ed ha trovato numerose applicazioni.

Ma perché questa teoria è importante a parte il riuscire a conoscere Angelina Jolie?

Perché, tralasciando il numero dei passaggi che è puramente convenzionale, questa teoria ci consente di studiare le relazioni tra le persone come se fossero una rete e, dunque, di costruire degli importanti modelli, per esempio nell’ambito delle ricerche epidemiologiche, in particolare nella diffusione delle malattie infettive, così come in campi più frivoli com’è lo studio sulla diffusione dei messaggi pubblicitari.

Una curiosità.

Negli anni scorsi la teoria dei sei gradi di separazione l’abbiamo applicata anche qui allo IED per delle esercitazioni sul giro del mondo in sei contatti ed altre ricerche e i risultati sono stati più che buoni – vedi su questo sito le esercitazioni.

Nel 2003 la Columbia University realizzò il più grande esperimento in rete con la teoria dei sei gradi di separazione. Questo esperimento, condotto dal sociologo Duncan Watts, coinvolse più di sessantamila persone in 166 paesi del mondo. L’obiettivo era rintracciare diciotto persone sconosciute di tredici paesi diversi sorteggiati dagli elenchi telefonici. (Che tipo di persone? Un archivista in Estonia, un veterinario in Norvegia, un consulente informatico in India, un poliziotto in Australia…ecc.). La ricerca dimostrò che sono sufficienti da cinque a sette passaggi in rete per giungere a destinazione con il solo aiuto di amici e conoscenti.

Per chi fosse interessato questa ricerca è stata pubblicata sulla popolare e prestigiosa rivista scientifica “Science” da Peter Sheridan della Columbia University.

Per chi è interessato a questi temi suggerisco la lettura di:

Albert-László Parabasi, Link. La scienza delle reti, Einaudi, 2004.

Mark Buchanan, Nexus, Mondatori, 2003.

Un’ultima osservazione. Tutti conoscete i “social network” e probabilmente molti di voi li frequentano, ma pochi sanno che il primo network, o meglio il primo servizio online a includere la possibilità di creare uno spazio virtuale in cui realizzare il proprio profilo e di poter avere una rete con la quale comunicare, è stato Sixdegrees.com. Sixdegrees venne creato nel 1997 e fu chiuso nel 2001. Quando fu chiuso aveva un milione di utenti, un successo, ma non produceva reddito. L’obiettivo di questo sito era di realizzare un luogo d’incontri facile da usare e non manipolabile, ma aveva un inconveniente, nonostante s’ispirasse alla teoria del piccolo mondo antico di Milgram non consentiva che due soli gradi di separazione, gli amici e gli amici degli amici.

Appendice novembre 2011.

Oggi si dovrebbe dire quattro gradi e cinquanta circa di separazione, se sono corrette le argomentazioni di due professori dell’Università Statale di Milano che lavorano nel laboratorio di Web Algorithmics del Dipartimento di scienze dell’informazione e che hanno collaborato ad una ricerca sul teorema di Milgram con l’università di Palo Alto, in California e con Mark Zuckerberg, che voi conoscete come l’ideatore di Facebook.

Il tema centrale di questa nuova ricerca, che ha interessato sia il web che i mass-media cartacei, è stato quello di verificare come le relazioni interpersonali cambiano con la digitalizzazione.

Come si nota da più parti e da tempo Facebook ha reso il mondo più piccolo ed ha cambiato molti aspetti delle relazioni sociali. I due ricercatori milanesi hanno applicato la teoria del mondo piccolo di Milgram ai settecento milioni e passa di utenti attivi sul social network di Mark Zucherberg per un totale di circa settanta miliardi di relazioni.

Il risultato è stato che la distanza media tra due persone è pari a 4,74.

In altre parole il mondo si è ulteriormente rimpicciolito rispetto alle prime ricerche di Milgram.

Se poi si restringe l’ambito della ricerca ad una sola nazione – che rappresenta mediamente l’84 per cento delle amicizie – si può scendere fino a tre gradi di separazione, cioè a quattro passaggi.

Per concludere, legando questi risultati al numero di Dunbar, si osserva che la maggior parte dei contatti – con persone della nostra età – varia mediamente intorno a 190 anche se per il cinquanta per cento dei casi si attesta intorno a 100.

È un classico paradosso della rete che tecnicamente s’iscrive nell’ambito dei contanti da rimbalzo, ma che è sintetizzato dalla formula: gli amici degli amici sono più dei nostri amici.

Un dato. La ricerca della Statale ha riguardato 721 milioni di utenti attivi su Facebook, cioè più del dieci per cento della popolazione mondiale stimata.

Quando abbiamo cominciato a parlare dei sei gradi di separazione in questa scuola la domanda provocatoria che facevamo agli studenti era: La teoria dei sei gradi di separazione. Ovvero, volete conoscere Angelina Jolie o Brad Pitt?

Oggi in questo nuovo contesto è tutto cambiato.

Se siete seduti al bar di un aeroporto oppure, se siete sul marciapiede di una stazione in attesa di un treno, molto probabilmente una delle persone che vi stanno accanto conosce un vostro amico o un amico di un amico dei vostri amici.

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Immaginare la velocità

Lezioni monografiche:

Immaginare la velocità.

(Traccia)

Spesso i ricercatori sono costretti ad inventare delle parole per definire dei nuovi campi di sapere, dei nuovi paradigmi o, più correttamente, delle matrici disciplinari con le quali ragionare su concetti e teorie fino a quel momento inediti o anche conosciuti, ma sotto altri punti di vista.

Due di queste parole che ci riguardano, dal punto di vista sociologico, sono: “semiocrazia” e “dromocrazia”.

Sono due matrici disciplinari che si devono a due studiosi francesi, Jean Baudrillard e Paul Virilio.

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Jean Baudrillard (1929-2007) è stato un sociologo francese di quella che è stata definita la società post-moderna, cioè, una società che vive sui simulacri e che tende a diventare sempre più autoreferenziale. Tra i suoi libri tutti tradotti in italiano ricordiamone almeno tre, Il sistema degli oggetti, La sparizione dell’arte e Lo scambio simbolico e la morte.

Paul Virilio è nato a Parigi nel 1932 ed è architetto. Ha ricoperte molte cariche di prestigio nell’ambito dell’architettura e dell’urbanistica ed è l’autore di un curioso progetto di museo, Il museo dell’incidente. La tesi di partenza è che non può esserci tecnologia senza incidenti e che questi possono essere studiati come un effetto di quella di cui sono un’integrazione. Ha scritto numerosi libri molti tradotti in italiano. Ricordiamo tra di essi, Città panico, L’incidente del futuro e uno degli ultimi, L’università del disastro.

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Queste due matrici servono alla “narrazione” di due aspetti della società moderna che fini a ieri non esistevano di per sé o non erano considerate così importanti.

La semiocrazia indica la dimensione iper-reale della modernità che si manifesta soprattutto con il progressivo avanzare dell’immateriale.

Nella semiocrazia i simboli, dice Baudrillard scalzano la realtà, essi sono autoreferenziali (cioè, hanno in sé la propria ragione di essere) e quindi sfuggono a qualunque relazione che lega la sostanza degli oggetti al valore e al loro significato. Quello che chiamiamo realtà si riduce così ad una somma di avvenimenti e di fatti che si ripetono e si riproducono in maniera parossistica in una simulazione compulsiva del reale.

In breve, nell’immateriale che diviene un aspetto del simbolico le illusioni finiscono per non distinguersi dalle cose o addirittura per valere più esse.

La dromocrazia invece, è una disciplina che serve a sottolineare il carattere della velocità che contraddistingue l’epoca che stiamo vivendo. Per molti studiosi il rapido andamento che ha assunto il progresso, ha sempre più l’aspetto di una corsa verso la massima crescita ad ogni costo, una crescita di cui pochi valutano la convenienza, più in generale non esiste campo della società che non sia soggetto alla dittatura del tempo. Di più, come molti hanno notato, questa corsa produce, per effetto di paradosso una sorta di oblio, uno svanire della memoria che svaluta l’esperienza.

Secondo Virilio il destino dell’umanità – attraverso il fenomeno della velocità – è anche caratterizzato dalla logica bellicosa del progresso tecnologico che può manifestarsi sia nelle vecchie formule della violenza militare che attraverso le tecnoscienze capaci di produrre l’oblio programmato della memoria attraverso i media dando vita a dei fenomeni transpolitici nuovi e inquietanti che hanno uno dei loro esiti più terribili nel terrorismo suicida.

In senso lato la storia dell’uomo è sempre stata una corsa contro il tempo. In principio era una corsa con una posta altissima, la sopravvivenza, cioè, era la fuga davanti ai predatori, una fuga che è cessata quando gli ominidi attraverso la voce e la mano si organizzarono, incamminandosi verso la condizione umana. Oggi questa corsa ha cambiato radicalmente aspetto, è diventata soprattutto una corsa per il potere e il controllo.

Paul Virilio ha definito la dromologia come la disciplina che studia i fenomeni sociali dal punto di vista della velocità. La dromologia è dunque la logica della corsa o meglio una teoria della velocità.

In breve, si può considerare la velocità come un paradigma in sé, capace di elaborare delle teorie per spiegare alcuni importanti aspetti oscuri della modernità e della storia recente degli uomini.

Torniamo indietro nella storia. Quando da predati siamo diventati predatori la caccia, con l’aiuto delle mute di cani e con l’inseguimento a cavallo, divenne un elemento essenziale dello sviluppo della società.

Anche nel mondo animale la velocità con cui un predatore cattura la sua preda costituisce, di fatto, il fulcro su cui si basa l’equilibrio del biosistema e, attraverso le catene alimentari, della pluralità del mondo animale. Non è per caso che gli animali lenti e poco attrezzati alla predazione sono in genere più prolifici dei predatori veloci.

Dal punto di vista sociologico la velocità è soprattutto il segno distintivo della rivoluzione industriale. La macchina a vapore e il telegrafo sono l’esempio strumentale più evidente di questa rivoluzione. Com’è oramai risaputo soprattutto nella modernità, cioè a partire dalla Rivoluzione Francese, la guerra, la comunicazione, l’economia, la politica sono diventati degli scenari modellati dalla velocità che sempre di più impone i suoi caratteri.

In questo senso la dromocrazia può essere definita il modello di un mondo il cui sviluppo fa capo al suo stesso modello cinetico, cioè, dipende dal movimento più o meno veloce delle parti che la compongono. Questo stato di cose comporta più di un rischio, come il fatto che le politiche sociali sempre più spesso non sono in grado di governare l’escalation della tecnica e delle loro applicazioni tecnologiche.

L’interesse per la dromologia in Virilio nacque a partire dai suoi studi sul fenomeno delle guerre o meglio delle guerre-lampo (Blitzkreig), come si chiamarono nella seconda guerra mondiale le tecniche di aggressione armata e di conflitto anche non convenzionale che insanguinano l’Europa ed oggi insanguinano il mondo.

Il tema della velocità, tuttavia, non era del tutto sconosciuto agli autori dei manuali di scienza militare. Per fare un esempio illustre, Sun Tzu – che visse circa quattro secoli prima dell’era comune – nel suo trattato sull’arte della guerra scrive che “la velocità nelle battaglie è la cosa più importante dal punto di vista della vittoria”.

Virilio osserva con un certo acume anche un’altra cosa, che il fenomeno dell’accelerazione, al di là della sua definizione fisica intesa come un incremento della velocità, riflette o ubbidisce quasi sempre ad una logica aggressiva. In pratica mette in luce un carattere inusuale della velocità, di essere bellicosa, come abbiamo già detto.

La velocità, in sé, è oggi un carattere cruciale che appartiene per definizione:

– ai mezzi di trasporto, sia militari che civili.

– alla capacità di trasmissione ed elaborazione dei dati.

– ai mezzi di informazione.

Con il risultato che se queste situazioni sono mal gestite hanno delle pesanti ripercussioni sulla vita sociale, sull’economia e la politica arrivando a scatenare dei conflitti di varia natura.

Ha scritto Carl von Clausewitz (1780-1831), generale, scrittore e stratega prussiano: La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Nell’ottica della dromologia, possiamo aggiungere, con mezzi sempre più veloci.

Naturalmente non sono solo i cultori della guerra che esaltano la velocità.

La prima lettura in chiave poetica della velocità lo troviamo nei testi dei futuristi. In particolare è Filippo Tommaso Marinetti che intuisce per primo il potere espressivo della velocità e del movimento. Nel Manifesto del Futurismo la velocità è esaltata come un carattere della forza antipassatista e rivoluzionaria. Scrive Marinetti, “Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno…” e, prosegue, compiaciuto, abbiamo creato “l’eterna velocità onnipresente”.

Un altro autore che intuì e ragionò sull’importanza della velocità fu il mediologo canadese Marshall McLuhan (1911-1980), la inquadrò in una contrapposizione dialettica con il ruolo dei media di cui tracciò a partire da essa delle nuove definizioni.

In questa ottica il perfezionamento della stampa a caratteri mobili, che moltiplicava la velocità di confezionamento dei libri, non solo si può dire che preparò la rivoluzione industriale attraverso l’espansione dell’editoria, ma contribuì alla frammentazione e alla diversificazione della società medioevale e in seguito in qualche modo contribuì alla sua laicizzazione.

Nella sostanza favorì il nascere dello spirito critico e dell’osservazione scientifica aumentando i punti di vista, il potere dell’interpretazione e le discussioni tra esperti. Fino a questo momento infatti la società pre-gutemberghiana era tenuta insieme da un monopolio: quello della produzione e della trasmissione del sapere in latino. Un monopolio, per altro, gestito gelosamente e in modo autoritario dalla chiesa e dell’aristocrazia.

Per venire più a noi McLuhan scorge nei nuovi media elettronici un specie di ritorno, determinato dalla velocità che imprimono alle informazioni e alle conoscenze, ad un modello che è unico di percepire il mondo. La sua intuizione del mondo come villaggio globale mise in luce la grande potenzialità di sincronia dei mass media a cominciare dalla radio per finire alla televisione e al telefono. Internet arrivò solo dopo la sua morte.

In pratica come dimostrò McLuhan la grande capacità dei media informatici è di unificare o, per usare un’espressione alla moda, di ri-tribalizzare il mondo.

Per questo molti usano l’espressione di medioevo della mondializzazione per definire quei fenomeni che sono il prodotto dalla globalizzazione. In pratica è come se si riproducessero, fatte le debite distinzioni, le stesse figure delle antiche società feudali fondate sugli Ordini e le Caste, oggi chiamate società finanziarie o sistema di banche.

Il villaggio globale, dove domina la velocità, non è costituito solo dai mezzi di trasmissione delle informazioni visive, sonore e scritte, ma anche da tutti i congegni che si adattano e che favoriscono il movimento delle persone e delle cose e che s’intrecciano con l’immateriale.

In altri termini possiamo definire media tutti i mezzi che, accelerando o amplificando velocemente le potenzialità umane, mutano la percezione del territorio e dell’organizzazione del tempo.

Che la velocità in qualche modo ci conquisti e ci condizioni lo vediamo da soli a cominciare dall’impazienza con la quale, per esempio, attendiamo l’apertura di una pagina web.

Se supera gli otto, dieci secondi cominciamo a lagnarci. Lo vediamo intorno a noi in mille piccole cose anche della vita materiale, come nel successo dei forni a micro-onde, che riducono i tempi di cottura. Lo vediamo nel fatto che il pulsante più usato nelle grandi città è quello che apre e chiude velocemente le porte.

Dai microprocessori, ai treni ad alta velocità, alle nanotecnologie noi siamo continuamente ossessionati dalla velocità che ci offre molti congegni che fanno risparmiare il tempo, ma – ed è paradossale – psicologicamente questi stessi congegni c’inducono, quasi per contrappasso, a credere che di tempo ne abbiamo sempre troppo poco.

Purtroppo però il tempo ha le sue leggi, più lo si accelera più tende a parcellizzarsi e a creare delle aritmie. Molti sociologi la chiamano la sindrome di Crono, dal nome del dio greco del tempo che divorava i suoi figli. Alcuni psichiatri, a questo proposito, hanno messo in luce che la fretta e gli assilli legati al tempo aggravano le forme depressive e rappresentano una delle ragioni dell’aumento del consumo di tranquillanti e psicofarmaci.

Virilio ha scritto, che il nostro mondo più che sferico è dromosferico, perché la nostra società è diventata una società della corsa.

Il primo passo di questa mutazione è stato la trasformazione dei mezzi di trasporto all’inizio del ventesimo secolo. Con l’invenzione del motore a scoppio dopo quello a vapore la società è entrata nell’era della velocità industriale, una velocità ancora relativa. Oggi, con la velocità assoluta delle telecomunicazioni la velocità ha smesso di essere relativa proiettandoci nella ciberpolitica, in un contesto dove le trasmissioni sono istantanee e il mondo è virtuale – cioè, liberato dal peso della materia – con la conseguenza di renderci estranei al mondo che noi stessi abbiamo costruito.

Cosa ne concludiamo? Che la velocità è sempre stata determinante nella storia delle società moderne e che essa interferisce continuamente con le decisioni che coinvolgono tutti.

Se ristudiamo in quest’ottica le battaglie e le guerre dell’antichità costateremo che è la velocità dei mezzi di trasporto e di trasmissione delle informazioni che le hanno fatte guadagnare o perdere.

Significativo a questo proposito è l’esclamativo, nel Riccardo III di William Shakespeare, di questo re che si ritrova disarcionato sul campo di battaglia ed esclama: Il mio regno per un cavallo!

Con questo grido Riccardo celebra la potenza dei cavalieri e della cavalleria che dominerà il mondo fino all’invenzione dell’artiglieria. Perché ancora una volta sarà la velocità a fare la differenza. La velocità dei proiettili del cannone.

Per venire all’epoca moderna è facile costare che le grandi potenze coloniali sono state quelle che avevano sviluppato la velocità militare più alta. Quella velocità che consentiva loro di controllare territori più grandi. Il caso dell’Inghilterra in India è esemplare.

Così ancora una volta costatiamo come il potere non nasce solo dalla ricchezza, ma anche dal controllo della velocità.

C’è anche un altro aspetto più soggettivo dell’ossessione di fare in fretta o per tempo, perché, dice il proverbio: “Chi ha tempo non aspetti tempo”.

Questo proverbio e non è un caso fa capo all’invenzione nel Medioevo dell’orologio meccanico.

Un orologio che cominciò a tagliare il tempo in unità orarie cifrate. Che sostituì le campane delle chiese che fino ad allora ritmavano la giornata secondo gli uffici religiosi e le ronde delle guardie sugli spalti. Potremmo dire che con la diffusione dell’orologio si assiste alla nascita di un tempo secolarizzato, lineare e metrico, molto diverso sia da quello del sacro che da quello ciclico della natura con i suoi eterni ritorni. A che servì questo tempo meccanico?

Dapprima a regolare i commerci, a scandire le esigenze della vita inurbata, a misurare lo scorrere degli interessi sui capitali, poi, soprattutto, a sfruttare il lavoro operaio di uomini, donne e bambini.

In breve questo strutturarsi del tempo intorno al tema della velocità in qualche modo struttura anche il nascente capitalismo e le sue logiche produttive immortalate con efficacia dall’affermazione di Benjamin Franklin, scienziato, letterato e calvinista, (1706-1790): “Time is money!”

Cioè, il tempo è un valore di mercato, dunque una merce.

Se facciamo mente locale scopriremo che non per caso i servizi o le prestazioni di molte professioni si pagano in base al tempo, dagli psicanalisti agli avvocati, dai cottimisti alle donne delle pulizie, dagli idraulici ai dentisti. Dunque, se il tempo è denaro con l’informatica la velocità è potere.

Questo è anche il motivo per il quale chi controlla il tempo ha sempre un vantaggio strategico sui suoi avversari e perché le invenzioni tecnologiche di questi ultimi anni solo indirizzate soprattutto ad accelerarlo per mezzo della densificazione.

Un esempio di densificazione temporale, pericolosa e inavvertita è quella del casinò planetario nel quale si può giocare e scommettere in ogni minuto del giorno e da ogni angolo del pianeta.

Un’altra osservazione importante sul piano degli stili di vita è che quello che si guadagna con la velocità lo si perde altrove.

Con gli ascensori abbiamo dimenticato le scale che fanno bene alla vita sedentaria.

Con le auto, il camminare a piedi.

Con le e-mail le lettere su carta personalizzata con gli inchiostri colorati.

La velocità, insomma, da una parte ci da un vantaggio dall’altra ci toglie sempre qualcosa d’altro più o meno in modo irreversibile.

La velocità dei mezzi di trasporto ha modificato anche il nostro modo di percepire l’ambiente.

Il mondo a piedi, a cavallo, in bicicletta, in automobile, in aereo o navigando in internet, non è mai lo stesso mondo.

Più noi ci posizioniamo nel tempo e nello spazio attraverso la velocità più ci dissociamo dai nostri corpi, più la visione della realtà si appiattisce, più cambia la prospettiva delle cose, come ha ben riassunto un neoproverbio:

Noi siamo divenuti gli spettatori di un mondo visto da nessuna parte.

Di fatto, in passato, alcune velocità, quelle del battello, del treno, dell’automobile, dell’aeroplano, potevano grossomodo essere gestite e condivise da tutti, quindi democratizzate.

Di contro è quasi impossibile democratizzare la velocità assoluta dei sistemi informatici che ha molti dei caratteri del potere assolutistico quali l’ubiquità, l’immediatezza e l’onniscienza.

È la ragione per la quale molti sentono l’esigenza di inventare una democrazia del tempo a volto umano. Una democrazia solidale che consenta all’uomo di poter riflettere prima di agire. Di poter vedere le distanze e non essere investiti da alluvioni informazionali.

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Vediamo adesso il tempo come materia prima della contemporaneità. In questa prospettiva balza agl’occhi un fatto, la sua crescente scarsità. Abbiamo costantemente l’impressione che tutto ciò che ha una durata duri troppo a lungo. Di contro, che dobbiamo muoverci sempre più in fretta per mantenere le posizioni acquisite.

Sono concetti che nascono con la modernità e che spesso hanno anche una dimensione letteraria come in Goethe, Nietzsche o Benjamin.

Uno degli apici dell’accelerazione della vita corrente, come abbiamo detto, sono oggi i sistemi di rete che hanno trasformato radicalmente i rapporti sociali e gli stili di vita.

Vediamo in particolare tre dimensioni di accelerazione sociale.

La prima è l’accelerazione tecnica. È un’accelerazione intenzionale e riguarda soprattutto i trasporti, le comunicazioni e la produzione di beni e servizi.

Quantitativamente significa che rispetto alla nascita della modernità si è moltiplicata per cento la velocità dei movimenti legati alla persona e per centomila la velocità di trasferimento e di trasformazione dei dati. Da qui la sensazione, di cui parlò per primo McLuhan, di una nuova esperienza soggettiva, la contrazione dello spazio.

La seconda accelerazione è quella specifica dei mutamenti sociali. La velocità ha cambiato i nostri modi di vita trasformando i modelli relazionali e le pratiche della socialità. Non solo il ciclo delle mode è sempre più rapido (dall’abbigliamento, all’ascolto musicale, alle prestazioni dei modelli di autovetture), ma è più rapido l’avvicendamento con i nostri vicini di casa, la permanenza nel posto di lavoro, la durata delle nostre relazioni sentimentali.

Tutto questo implica una riduzione significativa della vita media del nostro sapere.

Una riduzione che mette fuori gioco chi perde il lavoro prima dell’età pensionabile, ma anche degli aspetti pratici della vita corrente come sono gli indirizzi e i numeri telefonici, i programmi informatici, le istruzioni per gli oggetti elettrici della casa, i programmi politici o i risultati sportivi, i programmi di formazione, tutte situazioni che devono essere attualizzate in intervalli temporali sempre più rapidi. Da qui la sindrome sociale di chi non riesce a stare al passo con i tempi.

La terza accelerazione è sugli stili di vita dal punto di vista soggettivo.

Cosa vuol dire? Che tutti cercano di vivere sempre più in fretta, aumentando il numero delle azioni e delle esperienze, vale a dire facendo più cose in meno tempo. Alla base di tutto ciò, come abbiamo già detto che la sensazione della mancanza di tempo. In altri termini, c’è oggi un acuto e spesso psicotico bisogno di tempo. Come dicono i sociologi americani per fare in fretta aumentiamo la velocità di masticazione e di recitazione delle preghiere, così ci roviniamo lo stomaco e l’anima. Abbiamo il fast-food, lo speed dating – l’incontro con il maggior numero di potenziali partner nel minor tempo possibile – il power nap – il sonnellino rigeneratore al posto di un buon riposo – quality time, tanto per citare alcuni fenomeni diffusi di comportamento.

C’è anche un altro modo di guadagnare tempo, è quello di abbreviare le pause, cioè i cosiddetti tempi morti organizzando il tempo a disposizione. È l’arte di vivere senza soluzione di continuità.

Infine, da qualche tempo a questa parte, si è imposto il multitasking. È l’arte di comprimere le azioni in modo di fare più cose contemporaneamente.

Come in tutte le cose della vita ad ogni azione c’è una reazione, nel caso della velocità è l’irrigidimento. Un primo aspetto dell’irrigidimento è costituito dai limiti delle velocità naturali.

Non tutto può andare veloce ci sono limiti naturali come sono quelli geo-fisici, biologici e antropologici. Cioè ambiti nei quali è difficile manipolare la velocità. Noi non possiamo, per esempio, manipolare la velocità del cervello nella percezione dei dati, non possiamo modificare i processi di crescita o di convalescenza. Per passare all’ambiente non possiamo modificare il ciclo di riproduzione di materie prime naturali, come la trasformazione dei sedimenti marini in petrolio.

Infine, uno degli irrigidimenti più sensibili e seri e quello rappresentato dalla capacità degli ecosistemi a smaltire i rifiuti inquinanti.

Va anche detto che l’uomo è un animale adattabile. Un tempo una velocità di cinquanta chilometri l’ora poteva negli automobilisti provocare la nausea, oggi abbiamo acquisito con l’esperienza la cosiddetta visione panoramica e i cinquanta chilometri di ieri ci sembrano una lentezza insopportabile. In altri termini c’è forse ancora un po’ di spazio perché i limiti temporali antropologici siano superati dai processi cognitivi.

Un secondo aspetto dell’irrigidimento è costituito dalle cosiddette isole di decelerazione.

Queste isole possono essere naturali, cioè, geografiche, come sono le celebri isole dei mari del Sud dell’immaginario vacanziero, possono essere culturali, come sono certe comunità, quali gli Amish dell’Ohio o, sociali, come le oasi del benessere e della lentezza realizzate all’interno di molti complessi polisportivi.

Un terzo aspetto dell’irrigidimento e costituito dal rallentamento involontario.

Nella contemporaneità spesso il rallentamento o l’arresto di movimento è una conseguenza secondaria involontaria dei processi di accelerazione. L’esempio di scuola è quello delle aree densamente popolate dopo la velocità di circolazione del traffico stradale subisce una continua riduzione di velocità. Va rilevato che questo fenomeno può indurre alla depressione, più in generale si è costatato che quando la sensazione del ritardo sorge là dove due velocità diverse vengono a contatto – come quelle di due file di autovetture – si generano nei soggetti delle forme d’impazienza che può anche rivelarsi insostenibile.

Gli esperti nel campo della dromologia considerano forme d’irrigidimento anche altre problematiche quali sono:

– la decelerazione intenzionale che può essere sia sociale, legata a determinati momenti e portatrice di determinate motivazioni ideologiche, che strategica, vale a dire connessa a delle strategie di accelerazione che la provocano per meglio sfruttare il gap tra i diversi effetti che producono.

– la decelerazione ideologica o politica che possiamo definire una critica al concetto di modernità e che si manifesta come resistenza.

Resistenza all’introduzione del telaio meccanico da parte dei ludditi, agli impianti ferroviari come è oggi il fenomeno dei “no TAV”.

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Il concetto di identità nelle scienze sociali

Lezioni monografiche:

Il concetto di identità nelle scienze sociali.

(Traccia)

Nella società in cui viviamo il concetto di identità fa riferimento da una parte al modo in cui l’individuo si considera e costruisce se stesso come membro dei vari gruppi sociali a cui appartiene, da quello etnico al circolo dei conoscenti, amici e parenti con i quali vive, lavora, si confronta.

Dall’altra questo concetto riguarda le norme, gli usi, le abitudini che consentono a ciascun individuo di pensarsi, muoversi, relazionarsi rispetto a se stesso, agli altri, ai gruppi sociali che abita vivendo.

In questa luce nel processo di formazione dell’identità si distinguono due componenti. La prima che possiamo definire di identificazione. La seconda che possiamo definire di individuazione.

Con la prima componente il soggetto si confronta con le figure con le quali si riconosce, si sente uguale, o con le quali crede di condividere uno o più caratteri.

In pratica l’identificazione genera un senso di appartenenza, crea la coscienza di essere parte di un noi, vale a dire, di una comunità, di una famiglia, di un certo ambiente.

Con l’individuazione, invece, il soggetto si confronta con gli altri e si distingue o crede di potersi distinguere per le proprie caratteristiche sia fisiche che morali e soprattutto per la propria storia, il proprio vissuto.

Più in generale osserviamo che gli individui mediano le loro relazioni con il mondo soprattutto attraverso il corpo, con il quale concorrono alla costruzione e alla definizione della propria identità attraverso la cultura.

A differenza degli animali, l’uomo alla nascita è un essere culturalmente incompleto. Non possiede se non in minima parte le informazione genetiche per sopravvivere, quelle informazioni che costituiscono il patrimonio genetico delle specie viventi, dal batterio alle grandi scimmie antropomorfe, e che consentono le risposte funzionali agli stimoli provenienti dall’ambiente in cui vivono.

Si può dire, a differenza degl’altri mammiferi, che la dimensione umana si completa, giunge a maturazione soltanto con l’acquisizione della sua componente culturale che avviene principalmente nell’infanzia e prosegue per tutta la vita.

Attraverso la modificazione del corpo e i rituali (ad esempio le cerimonie di iniziazione, da quelle religiose, a quelle sportive a quelle sociali) l’individuo costruisce se stesso – o crede di farlo – come essere umano e definisce la propria identità rispetto agli altri individui, siano essi uomini, donne, bambini, anziani.

In un tale contesto è evidente che le differenze anatomiche tra maschio, femmina o di soggetti che si sentono terzi rispetto a questa dicotomia, sono la base classificatoria più utilizzata per la realizzazione della differenziazione culturale e sociale.

Riprenderemo questo punto quando parleremo dei gender e di come la discussione intorno ad essi abbia modificato il modo di pensare la sessualità. Per adesso diciamo che la separazione, l’esclusione, la distinzione a partire dal sesso sono da tempo immemorabile realizzate attraverso simboli, pratiche e attribuzioni di ruoli reali ed immaginari.
C’è poi da considerare che dalla complessità dell’epoca che viviamo e dai diversi ruoli sociale che acquisiamo e modifichiamo crescendo ne discende che tutti noi, prima o poi, conseguiamo una sorta di identità multipla che è definita come la nostra identità socio-culturale che ci accompagna per tutta la vita.

È evidente che gli aspetti emergenti e visibili di questa identità dipendono dal contesto in cui ci troviamo ad agire e dal ruolo che assumiamo o ci viene attribuito in questo contesto.

Passando una dogana aereo-portuale quello che conta è la mia identità nazionale e non il fatto che io sia un insegnante di sociologia. Quando sono seduto dietro questa cattedra è il contrario.

Questo significa che l’identità si esprime anche in base alle situazioni che stanno vivendo o attraversando.

Ricordiamo a questo proposito che il sociologo polacco Zygmunt Bauman – famoso per le sue tesi sulla modernità e le sue idee sulle nuove forme di cittadinanza – ha introdotto negli studi di sociologia il concetto di identità fluida. La fluidità dell’identità sta ad indicare quella progressiva perdita dei rigidi confini identitari (soprattutto culturali, religiosi, etnici) della società post-moderna che ci stiamo lasciando alle spalle.

Il concetto di identità fluida ci permette anche di spiegare alcuni aspetti del problema dei flussi migratori e delle identità fluide transnazionali che questi flussi vengono a creare e il ruolo dei localismi quando si irrigidiscono sulla tradizione o si rifugiano nella nostalgia dei valori immateriali.

In ogni modo le identità possono essere vissute sia in positivo che in negativo. Molti sono orgogliosi del gruppo al quale si identificano e che consente loro la coscienza di un’appartenenza ad una comunità. Altri, invece, tendono a rifiutare questa appartenenza, soprattutto quando diventa un recinto in cui rinchiudersi e la relativa vicinanza che questa appartenenza crea.

Naturalmente questi due atteggiamenti estremi sono temperati da molti distinguo ed entrambi possiedono pregi e difetti, vantaggi e svantaggi.

Per esempio, una visione positiva della propria identità può spingere il soggetto a chiudersi in sé, a considerarsi “culturalmente” migliore di altri. Una visione negativa, invece, potrebbe arrivare a attribuire agli altri le qualità o le caratteristiche che egli considera negative e che sono socialmente osteggiate.

L’identità soggettiva come abbiamo visto è l’insieme delle caratteristiche auto-percepite. Nella contemporaneità è un’identità fluida, difficile da circoscrivere, carica di luci e di ombre con la quale dobbiamo fare in continuazione i conti. D’altro canto, volenti o nolenti, è anche tutto ciò che ci caratterizza, ci rende inconfondibili, ci consente di dare un senso all’idea di “Io”.

In questo modo l’identità soggettiva può servire sia ad identificarci che a discriminarci. Il pericolo è quando questa identità arriva a confezionare degli stereotipi culturali che inevitabilmente alimentano il luogo comune e il pregiudizio.

Di contro l’identità oggettiva, che non necessariamente coincide con quella soggettiva, è il punto in cui convergono almeno tre rappresentazioni di ciò che siamo:

– La nostra identità fisica, che oggi si desume soprattutto dal volto e in sub-ordine dallo stile del vissuto.

– La nostra identità sociale, ovvero l’insieme di alcune caratteristiche quali sono l’età, lo stato civile, la professione, la classe di provenienza, il reddito.

– L’identità psicologica, rappresentata dalla propria personalità, la conoscenza di sé, lo stile di vita che esibiamo, il comportamento.

Sono identità che variano e possono deteriorarsi più o meno rapidamente e più o meno coscientemente. Soprattutto possono variare indipendentemente da quello che noi vogliamo o siamo in grado di fare.

Queste tre rappresentazioni dell’identità anche se non coincidono tra di loro sono profondamene intrecciate. Per esempio, il mio modo di vedermi è in larga misura il riflesso della maniera in cui mi vedono gli altri e della maniera in cui io so che gli altri mi vedono.

Il risultato di questo processo è che quasi sempre i giudizi che esprimiamo o riceviamo sono alterati dalla malafede, dall’interesse o dalla cortesia oppure godono di una benevolenza parentale e amicale.

C’è poi l’identità personale, considerata un aspetto di quella soggettiva.

Essa mette in evidenza la capacità degli individui di aver consapevolezza – per usare un’espressione della filosofia tedesca – del proprio Dasein, cioè, del proprio essere nell’essere. E questo esserci è ciò che ci consente di rimanere quello che siamo sia attraverso il tempo che attraverso tutte le fratture dell’esperienza.

Notiamo, en passant, che la malattia mentale, soprattutto nella forma di una psicosi, è in qualche modo una perdita della coscienza dell’esserci, per questo essa si rappresenta sempre come uno smarrimento dell’Io e la condizione di una solitudine assoluta.

Nelle scienze sociali è stato il filosofo inglese John Locke nel Saggio sull’intelligenza umana, a parlare per la prima volta di identità personale. Locke è stato uno dei padri dell’empirismo inglese e un seguace della rivoluzione di Cromwell che portò all’impiccagione di Carlo primo d’Inghilterra nel 1649. Questo filosofo e medico parlava dal cuore di un’epoca in cui era entrata in crisi la vecchia idea metafisica e religiosa dell’uomo come portatore di un’anima intesa come un sostrato unitario e indivisibile, come qualcosa che resta immutato nell’uomo e permette la permanenza delle nostre esperienze.

Stiamo parlando di una stagione storica in cui le nuove correnti filosofiche, come sono l’empirismo, l’illuminismo, il materialismo, cercavano di elaborare il lutto psicologico per la perdita di questa illusione che non convinceva più nessuno, ma era di grande conforto e contribuiva allo specismo della condizione umana.

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Lo specismo è un pensiero discriminatorio fondato sull’idea che gli animali appartenenti alla specie umana abbiano diritti superiori a quelli appartenenti alle specie non-umane. Alla base dello specismo vi è una visione antropocentrica della natura che affonda le proprie radici sia in una errata interpretazione del darwinismo, che nella religione – Dio avrebbe creato gli animali non-umani per porli al servizio degli animali umani – o semplicemente nell’ignoranza.

Il termine specismo è stato coniato nel 1970 da Richard Ryder, uno psicologo inglese animalista, e successivamente delineato, soprattutto da un punto di vista etico, da Peter Singer, un filosofo di origine australiana, che lo ha definito:“Un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie”. (da, Liberazione animale, 1975).

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In quegli anni l’anima, che era stata vista per secoli come un ponte gettato tra il tempo vissuto e l’’eternità, una volta che si rivela come un errore della ragione obbligò gl’uomini ad abituarsi a vivere nel mondo della caducità. In questo senso il concetto di identità personale, in qualunque modo lo si consideri, implica il riconoscimento da parte del soggetto di una fragilità della coscienza e di una serie di discontinuità del vissuto che devono essere superate e metabolizzate dall’Io, cioè risolte dalla consapevolezza.

Questa breve excurcus sull’identità visuale ci serve anche per introdurre un’altro tema divenuto di attualità, quello della visual culture. L’espressione di visual culture è stata usata per la prima volta da Svetlana Alpers nel 1972 nell’ambito di una ricerca sulla pittura fiamminga. La Alpers è una storica dell’arte americana, insegna nell’università di Berkeley in California ed è stata un’allieva di Ernst Gombrich. Con questa espressione voleva indicare la complessità visuale di questa pittura, ma soprattutto sottolineare la complessa struttura della visione propria dell’epoca in oggetto, il XVII secolo. In altri termini, la Alpers si rese conto che una tela fiamminga poteva essere letta e studiata come se fosse un testo visivo con il quale esplorare la dimensione culturale delle Fiandre.

In quest’ambito e più in generale sappiamo da tempo che la pittura europea, almeno fino all’impressionismo, non è comprensibile ripercorrendo esclusivamente la sua specifica evoluzione e la sua storia perché essa è sempre stata parte di un contesto narrativo più generale.

Diciamo che questa pittura fa parte di una mappa entro cui assumono un ruolo importante sia le diverse fonti culturali che sono legate alla visione e alla sua rappresentazione, che le vicende religiose, politiche, militari, sociali che l’attraversano e la innervano come in una filigrana.

In pratica quasi tutte le opere d’arte, soprattutto quelle antiche, sono da qualche decennio a questa parte considerate e studiate come un sistema testuale regolato da specifici meccanismi della visione.

Il colui che guarda è divenuto un interprete e la cultura visuale si è trasformata in un progetto interdisciplinare di analisi critica dei linguaggi visivi che salda l’approccio storicista con la prospettiva antropologica. Un progetto che mira a portarne alla luce la loro dimensione materiale dal punto di vista della cultura.

In questo progetto le immagini non vengono più considerate di per sé, ma come un insieme di pratiche che variano non solo con l’uso, ma anche per i significati che ricevono, come avviene da qualche anno a questa parte con la fotografia, il cinema, la televisione interattiva.

Come è facile costatare nella modernità il significato di un’immagine è sempre più legata alle sue diverse pratiche di fruizione e queste pratiche, a loro volta, si consolidano o mutano attorno alle istituzioni che le promuovono e che se ne servono, non importa che siano il singolo individuo, la famiglia, il mondo dei media o quello della pubblicità.

In breve, la cultura visuale rappresenta lo sviluppo di una nuova centralità epistemologica dopo quella della scrittura. Una centralità costruita sulla visione, o se vogliamo usare un neologismo, sui regimi scopici.

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Ricordiamo velocemente che l’epistemologia è una teorie e un metodo della conoscenza che nasce verso la fine dell’800 e che riguarda in modo specifico il modo di considerare le scienze logico-matematiche e le scienze empiriche o prasseologiche.

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Questa nuova prospettiva crea anche una continuità tra gli studi culturali, i media studies e la cultura visuale, ma ritorneremo in seguito su questo tema. Per adesso diciamo che questa continuità tra queste discipline ha consentito di migliorare gli studi sulle comunicazioni di massa e di forgiare nuovi strumenti di accesso al piano simbolico dei contenuti sociali e culturali, soprattutto nei paesi di lingua inglese che sono stati i più recettivi nel cogliere l’importanza della mediologia e la lezione semiologica sviluppata da Roland Barthes nei suoi Elementi di semiologia (1964).

Il problema di fondo della visual culture può essere riassunto così.

Fino a che punto un’immagine può essere concepita come un linguaggio?

Da questo interrogativo ne discende subito un altro per conseguenza.

In che modo una critica della cultura può riformulare le relazioni tra sapere e potere aggiungendoci quelle tra vedere e conoscere e, dunque, tra vedere, sapere e potere?

A tali domande è ovviamente sottointesa la questione della compatibilità e della traducibilità di strumenti e categorie d’indagine nate dall’analisi testuale della letteratura con dei testi visuali quali sono quelli della pittura, della fotografia e del mondo delle immagini in movimento.

Per risolvere questa questione è importante considerare non solo il punto di vista degli specialisti ma anche il ruolo degli spettatori e del loro modo di fruire del consumo di testi visivi. Questo perché fino ad oggi non si sono ancora studiate con attenzione le strutture della visione e dello sguardo e, in sub ordine, del voyerismo o dell’eccitazione che spesso le accompagnano.

Secondo William J. Mitchell, che insegna architettura e arte dei media al MIT (Massachusetts Institute of Technology), la cultura visuale si fonda sull’immagine considerata un prodotto nel quale s’intersecano elementi che riguardano sia il visivo considerato di per sé sia il suo grado di “figuralità” o di “figurizzazione del reale”. Un reale attraversato da elementi che derivano dagli apparati e dalle istituzioni culturali e sociali.

La cultura visuale, in breve, come ogni cultura, è il risultato di pratiche diverse che si collocano a differenti livelli della produzione testuale e della sua interpretazione come del soggetto che le consuma.

È in questo senso che diventa centrale la nozione di paradigma, cioè, una nozione entro cui trovano posto sia il significato delle immagini che si analizzano, sia il loro uso, vale a dire i significati che assumono o che gli facciamo assumere a seconda dei contesti.

Infatti, il significato di un segno visivo non sta solo nell’immagine e nell’identità sociale del suo pubblico, ma nel modo in cui si articola la relazione tra l’osservatore e l’osservato, e soprattutto nella capacità dell’osservatore di interpretare l’osservato.

L’analisi di una cultura visuale diviene così anche un percorso intorno alle differenze culturali come sono quelle di genere, di comunità, di etnia, di rappresentazione delle sub-culture e della marginalità. In questo modo ciò che viene visto e i significati che adesso si attribuiscono variano in continuazione anche in conseguenza degli schemi interpretativi che su di esso si accumulano.

Il testo visivo è così situato all’incrocio di più formazioni discorsive.

In quest’ottica il guardare, il vedere e l’interpretare divengono pratiche culturali che presuppongono sia un ruolo che un’interazione con le proprie competenze e i propri desideri.

In breve, le immagini sono diventate una pratica culturale. Come dicono i sociologi un testo con figure si allarga dal discorso al discorsivo e facilita l’incontro di pensiero, idee e pratiche.

Di più, i linguaggi visivi contribuiscono sempre di più a definire l’area entro cui si negoziano le identità sociali e i loro contenuti.

Il paradigma visuale riunisce così assunti teorici diversi e diversamente astratti che comprendono il contesto sociale, le formazioni ideologiche, i significati simbolici e psichici propri dei simulacri di una società divenuta dello spettacolo.

In questo senso Nicholas Mirzoeff, che insegna cultura visuale negli Stati Uniti, in un saggio del 1999 dedicato a questo tema scrive che oramai la forma primaria di approccio e comprensione del mondo è visuale e non più testuale, come è stato per secoli.
La visual culture, per Mirzoeff riguarda gli eventi visivi in cui il destinatario ricerca un informazione, un significato o un piacere il più delle volte attraverso un’interfaccia di tecnologia visuale che è stata anche la radice del post-moderno.

In questo contesto il carattere del post-moderno sottolinea come una delle caratteristiche più evidenti della “contemporaneità” che stiamo vivendo è la crescente tendenza a visualizzare cose che di per sé non sarebbero visive. Complice di questo stato di cose è la crescente capacità tecnologica di rendere visibile ciò che i nostri occhi non potrebbero vedere da soli. La capacità di assorbire e interpretare l’informazione visiva è stata una delle basi della società postindustriale e sta diventando ancor più importante nell’era dell’informazione.

La cultura visuale, lo ripetiamo, non dipende tanto dalle immagini in sé, ma dalla tendenza della modernità a visualizzare l’esistenza.
Tutto ciò ha permesso di sviluppare quella che Mirzoeff ha chiamato una teoria dell’immagine.

Addirittura ci sono alcuni settori della filosofia e della scienza che sono giunti ad adottare una visione del mondo illustrata piuttosto che testuale.

Il mondo come testo, in altre parole, è stato parzialmente sostituito dal mondo come immagine e questa sostituzione avanza incessantemente.

Le parti costitutive della visual culture non sono più delimitate dai media, ma dai limiti dell’interscambio sensoriale e di informazioni tra osservatore e osservato, che costituisce l’evento visivo.

Questo evento visivo, in pratica può essere definito un’interazione tra il segnale visivo, la tecnologia che in origine consente questo segnale e l’osservatore.

Qui, l’elemento fondamentale che rende le immagini visive un’altra cosa rispetto al testo scritto è la loro immediatezza sensoriale.

Da un punto di vista semiologico, poi, è ovvio che le immagini siano rappresentazioni, non realtà in sé. In questo senso le convenzioni usate per rendere una rappresentazione intelligibile non sono necessariamente vere in senso scientifico, e variano a seconda dei mezzi, dei tempi e dei luoghi, delle aspettative.

L’ immagine come rappresentazione è dunque determinata non da qualche astratta affinità con il reale, ma dalla loro capacità di produrre quello che Roland Barthes chiama l’effetto di realtà.

La chiave di volta della visual culture è l’intelligibilità, non la compatibilità con il pensiero scientifico, essa non riflette necessariamente il mondo reale così come non si adegua semplicemente a rappresentarlo. In breve, è uno strumento di rappresentazione e dunque d’interpretazione visuale del mondo e come ogni sistema di rappresentazione non è né superiore, né inferiore ad altri, ma assolve semplicemente allo scopo a cui è destinato.

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