Sull’obbedienza.
Le persone, quando sono costrette a confrontarsi con conoscenze percepite come disturbanti, cercano di difendersi arrivando ad adottare vere e proprie strategie di “immunizzazione cognitiva”.
Z. Bauman
Prima di affrontare questo tema con i suoi molti e contradditori aspetti vediamo alcune considerazioni di Robert Trivers (un sociobiologo americano, professore di antropologia e scienze biologiche presso la Rutgers University, famoso tra le altre cose per i suoi studi sull’altruismo). Sono tratte dal suo libro La follia degli stolti, pubblicato nel 2011.
Perché tendiamo a banalizzare o a distruggere la verità?
Perché modifichiamo le informazioni che abbiamo acquisito in modo tale che alla coscienza arrivi il falso?
Perchè pratichiamo l’auto-inganno?
Per Trivers, siamo tutti bugiardi, e non mentiamo solo agli altri, ma anche a noi stessi, approfittando di ogni occasione.
Succede in continuazione: durante una relazione sentimentale, al tavolo di una trattativa di affari, nella vita corrente, a scuola, al bar con gli amici.
In ogni momento inganno e auto-inganno possono allontanarci così tanto dalla realtà da indurci verso situazioni catastrofiche, come avviene e di frequente nell’ambito dell’attività politica o militare.
Ma se questo è vero perché l’inganno ha un ruolo così importante nella nostra vita quotidiana?
Molti antropologi sostengono che la menzogna è la forma più efficace di comunicazione umana e che l’auto-inganno si sviluppa in funzione dell’inganno.
Vale a dire, impariamo a ingannare noi stessi al solo scopo di essere capaci di ingannare meglio gli altri.
Di fatto falsità, menzogne, bugie sono presenti a ogni livello della vita sociale.
Di fatto ingannano, più o meno, tutte le forme viventi, dai batteri, alle piante, dagli insetti a un gran numero di specie animali.
Ingannano i virus – cheimitano il comportamento dell’organismo che li ospita.
Inganna l’uomo che nel ricordo distorce e altera (il più delle volte intenzionalmente) i dettagli di ciò che ai suoi occhi è spiacevole o doloroso.
L’etologia e le scienze sociali hanno dimostrato che l’ingannatore riesce spesso a prevalere sugli altri, ma questo non può essere considerata un’attenuante.
Tra l’altro il nostro sistema sensoriale si è evoluto nel corso dell’evoluzione fino a trasmetterci una visione precisa e particolareggiata della realtà, ma spesso queste informazioni sono soggettivamente percepite in modo da risultare ambigue.
In pratica, siamo diventati tanto abili da riuscire a negare la verità a noi stessi.
Per esempio:
– Proiettiamo sugli altri caratteristiche che in realtà ci appartengono e poi le biasimiamo.
– Reprimiamo i ricordi dolorosi, creando ricordi completamente falsi.
– Giustifichiamo, se ci fanno comodo, comportamenti immorali.
– Manovriamo abitualmente per riuscire ad avere un’opinione lusinghiera di noi stessi, così come siamo in grado di mettere in atto tutta una serie di meccanismi di difesa dell’ego.
Molti di questi atteggiamenti, come dice la psicologia, possono avere degli effetti negativi sul nostro equilibrio psicofisico.
Perché allora svalutiamo o fuggire la verità?
Perché modifichiamo le informazioni acquisite in modo che alla coscienza arrivi il falso?
E poi, perché l’evoluzione avrebbe dovuto favorire i nostri organi di percezione per poi farci distorcere sistematicamente le informazioni raccolte?
Qual è il vantaggio evolutivo dell’auto-inganno?
****
Lasciamo ad ognuno noi stessi il compito di riflettere su queste osservazioni di Rovert Trivers e spostiamo l’attenzione sul tema dell’obbedienza.
Si definisce influenza sociale la pressione che si esercita – in forme più o meno lecite e evidenti – sulla società per alterarne la percezione, le opinioni, gli atteggiamenti o i comportamenti.
L’influenza sociale, va da se, può esercitarsi sia sui gruppi che su dei soggetti isolati.
Questa pressione, in generale, ha l’obiettivo di indurre gli individui a obbedire, a non trasgredire o a restare passivi. Diciamo che è una forma di domesticazione sociale.
Va aggiunto che grazie alla natura sociale dell’uomo, la pressione che si esercita sui membri di un gruppo risulta quasi sempre più efficace ed economica di quella che si esercita sul singolo individuo.
L’influenza sociale utilizza strategiee strumenti diversi a seconda che sia esercitata da una maggioranza o da una minoranza.
Nel primo caso (quando è agita da una maggioranza) l’obiettivo dell’influenza è di indurre al conformismo e ha quasi sempre una forma soft,caratterizzata dalla compiacenza.
Nel secondo caso ha spesso come obiettivo il cambiamento e di, conseguenza, determina o accentua gli antagonismi.
Dal punto di vista del soggetto possiamo elencare otto atteggiamenti per i quali questo soggetto può cedere o resistere all’influenza esercitata:
– Può cedere per accondiscendenza, nascondendo le proprie convinzioni per evitare un conflitto.
– Può cedere per accettazione, vale a dire, mutando il proprio punto di vista.
– Può cedere per identificazione, quando il soggetto è affascinato da chi ha provato a influenzarlo.
– Può cedere per interiorizzazione, quando il soggetto si appropria dei contenuti dell’influenza a cui è stato sottoposto. In questo caso il condizionamento è più duraturo e radicato.
Di contro:
– Il soggetto può contrastare le opinioni che riceve anche se non lo convincono.
– Può mostrarsi insensibile, cioè tirare dritto per la sua strada in modo indipendente.
– Può reagire emotivamente, è il caso in cui il soggetto, pur non condividendo i contenuti dell’influenza, si sente emotivamente attratto da essi.
– Infine, i soggetti coerenti e motivati possono tentare di influenzare a loro volta chi vuole influenzarli.
Ma chi è che cosa influenza chi.
-Per cominciare, l’altro da noi, un amico, un conoscente, un vicino di casa, una persona verso la quale ci lega dell’affetto o un’ autorità com’è quella genitoriale.
– Il gruppo a cui siamo legati, qualunque sia la sua natura.
– Le situazioni che viviamo. Considerato che noi pensiamo e agiamo in relazione con l’ambiente e le circostanze.
– In particolare ci influenzano le forme dell’autorità riconosciuta, che possono esercitare una pressione informativa in cui il soggetto finisce per riconoscersi e sentirsi legittimato.
Ecco perchè l’influenza sociale, come osservò a suo tempo Tocqueville, ha spesso il volto della dittatura della maggioranza.
______________________________________________________________________________
Alexis Henri Charles de Tocqueville (1805-1859) è statoun filosofo, un politico, un giurista e un magistrato di Francia, laico e liberale, studioso dei sistemi democratici.
Ricordiamo che da qualche anno la rilettura dei suoi scritti lo ha rivalutato anche come uno dei fondatori del pensiero sociologico. ______________________________________________________________________________
Secondo Tocqueville la dittatura o il dominio della maggioranza è il principale limite della forma democratica, il suo lato oscuro.
Come osservò nei suoi scritti là dove c’è una sistema democratico la maggioranza finisce per decidere per tutti, ignorando o sottovalutando il punto di vista espresso dalla minoranza.
Un punto di vista che, non può essere escluso in partenza perché potrebbe essere più autorevole o altrettanto importante di quello della maggioranza.
Tra l’altro, questo, è il tipico argomento che rende scettico verso la democrazia il pensiero liberale.
Tuttavia, lo stesso Tocqueville – che studio sul campo il sistema democratico americano – osservò come nelle democrazie mature i diversi punti di vista espressi dalle forme associate (come sono i partiti, i movimenti o i raggruppamenti) possono fungere, anche con l’aiuto dei mezzi di comunicazione, da anticorpi e da contrappesi.
In ogni modo, il comportamento gregario e il consenso apparente sono due dei risultati più diffusi dell’obbedienza sociale acritica.
A questo proposito in psicologia sociale si definisce “effetto gregge” quel comportamento per il quale un gruppo di individui assume lo stesso atteggiamento senza che ci sia tra di loro alcun coordinamento.
Il riferimento al gregge dipende dal fatto che molte specie animali tendono ad assumere comportamenti identici, soprattutto per difendersi dalla predazione.
Va sottolineato che il comportamento gregario – soprattutto grazie all’azione dei media – ha un grosso peso sulla formazione delle mode e dei risultati elettorali, così come in molti casi di violenza collettiva, di demonizzazione del diverso, di persecuzione delle minoranze.
L’espressione comportamento gregario è spesso usato, oggi, per definire i comportamenti che si tengono nel corso delle manifestazioni politiche o sportive, soprattutto quanto i gruppi che vi partecipano sono coordinati tra di loro.
L’idea che possa esistere una mente di gruppo o che la folla sviluppi un proprio comportamento venne elaborata soprattutto da alcuni psicologi sociali francesi negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento.
In particolare da Gabriel Tarde e Gustave Le Bon, e ampiamente adottata (questa idea) dai politici di estrema destra e dagli apparati di governo e di polizie repressive.
A parte ciò vengono spesso accusati di assumere un comportamento gregario i seguaci di molti culti religiosi, soprattutto quelli di natura esoterica con una leadership carismatica.
_______________________________________________________________________________
Vediamo adesso un altro fenomeno legato al tema dell’obbedienza e del consenso, precisamente l’effetto del falso consenso.
In che cosa consiste?
Nella tendenza a proiettare sugl’altri il proprio modo di pensare.
Tutti noi abbiamo spesso incontrato delle persone convinte che gl’altri la pensano o devono pensarla come loro.
Questa presunzione, in genere, è statisticamente infondata e può indurre in errore, vale a dire a pensare di possedere un consenso che non esiste.
In altri termini possiamo definirla un errore ideologico.
Questa falsa percezione del consenso induce finisce spesso – soprattutto i movimenti politici estremisti o radicali – a sovrastimare la reale adesione alle loro idee e la credibilità dei loro valori. Da qui molti degli errori che si commettono nelle previsioni elettorali.
Il falso consenso ha poi un risvolto importante nel fenomeno dell’ignoranza pluralistica.
È il caso di un individuo che disapprova in privato una convinzione o un’abitudine e che invece si trova – per le ragioni più diverse – a doverla appoggiare in pubblico.
L’esempio di scuola, quello dello studente e delle bevande alcoliche.
L’ignoranza pluralistica, com’è dimostrato dai test effettuati nelle università americane, può indurre uno studente a bere in modo eccessivo perché crede che tutti gl’altri studenti lo facciano, mentre in realtà molti di questi studenti vorrebbero evitare di ubriacarsi, ma nessuno comincia a farlo per il timore di essere emarginato o preso in giro.
****************************************************************************
Vediamo in breve la teoria dell’identità sociale.
Questa teoria (in inglese Social Identity Theory o, in forma abbreviata, SIT) rappresenta uno dei principali modelli, della psicologia sociale contemporanea, per la comprensione delle dinamiche funzionali che regolano le relazioni tra i gruppi.
La SIT è stata sviluppata in Inghilterra da Henri Tajfel e John C. Turner a partire dagli anni ’60 del secolo scorso e si è in seguito strutturata nell’ambito della psicologia cognitiva applicata ai gruppi, sia in ambito europeo che nordamericano.
____________________________________________________________________________
Henri Tajfel (vero nome, Hersz Mordche) (1919-1982) è stato un importante psicologo inglese di origine polacca.
John Charles Turner (1947-2011) è stato uno psicologo sociale inglese.
_______________________________________________________________________________
Le prime ipotesi teoriche della Social Identity Theory partono dal lavoro di Tajfel sul cosiddetto paradigma dei gruppi minimali, ovvero, sulle modalità di costituzione dei processi di discriminazione e di auto segregazione nei gruppi.
Tajfel, su questo tema, elaborò un esperimento, suddivise in due gruppi i soggetti da sottoporre ad esso, li suddivise in base a delle differenze minime e superficiali.
Per esempio, una di queste differenze era la predilezione estetica per i dipinti di Klee rispetto a quelli di Kandinskij.
Dopo un certo tempo osservò, come e del tutto spontaneamente, i soggetti assegnati ai due gruppi iniziassero in pochissimo tempo a auto-percepirsi come un gruppo diverso, migliore se confrontato con l’altro.
Il risultato fu che ben presto i membri del primo gruppo venivano genericamente preferiti ai membri del secondo gruppo e viceversa.
La tendenza a creare delle distinzioni del tipo “noi/loro” nel contesto delle relazioni tra gruppi diversi – anche se fondata su delle motivazioni del tutto superficiali – emerse da questo esperimento come un processo psicologico istintivo (pulsionale), immediato e generalizzato.
Con questo esperimento si è verificato il fatto che il gruppo umano è uno dei luoghi di origine dell’identità sociale.
Possiamo aggiungere che è ritenuta spontanea nell’uomo la tendenza a costituire gruppi, a sentirsene parte e a distinguere il proprio gruppo di appartenenza da quelli di non-appartenenza, mettendo in luce dei meccanismi di bias cognitivo.
_______________________________________________________________________________
Vediamo questa espressione in dettaglio.
Il bias (pron. ‘baiəs) è un’espressione inglese, che alla lettera significa inclinazione.
Nel linguaggio comune lo si può definire un pregiudizio.
In psicologia cognitiva il bias identifica un giudizio o un pregiudizio non necessariamente corrispondente all’evidenza.
Un pregiudizio che viene sviluppato sulla base delle informazioni che si possiedono, anche se non connesse tra loro in modo razionale e conseguente, che induce ad un errore di valutazione o ad una mancanza di oggettività nell’esprimere un giudizio.
Un pregiudizio che quasi sempre si traduce in un atteggiamento di favoritismo per il proprio gruppo.
In psicologia si dice che la mappa mentale d’una persona presenta dei bias quando è condizionata da concetti precedenti, non necessariamente connessi tra loro da legami logici o cognitivi.
Il bias, poi, proprio perché contribuisce alla formazione del giudizio, in genere deforma in modo significativo un’ideologia, un’opinione o un comportamento.
Considerato il modo con cui si formano i processi cognitivi, i bias non sono facilmente eliminabili, ma possono essere valutati a posteriori (per esempio con l’analisi statistica) o correggendo la percezione per portarne alla luce gli effetti distorsivi.
Sinteticamente si può dire che questo processo è influenzato soprattutto dai seguenti fattori:
– Dall’esperienza individuale.
– Dal contesto culturale e dalle credenze.
– Dal giudizio altrui.
– Dalla paura di una scelta che comporti un danno.
Va aggiunto che, se da una parte questi fattori consentono di prendere una decisione in tempi piuttosto brevi, dall’altra, ne possono minare la validità.
Questo perchè in linea generale ogni persona cerca di valutare la situazione che sta vivendo in funzione delle esperienze passate, spesso sottovalutando le differenze, al fine di riutilizzare i criteri adottati in precedenza.
Va da se che sottostimare queste differenze finisce per invalidare il giudizio finale.
In generale la strategia che mettono in campo gli individui tende a svalutare o ad omettere determinate circostanze, se nella loro esperienza culturale sono viste come tabù o come dei valori negativi, e a sovrastimare il ruolo di quei fattori ritiene siano valori positivi.
In linea di massima le capacità cognitive sono predisposte per agire sulla base di mappe o schemi mentali validi per affrontare buona parte delle situazioni della vita corrente.
Esistono però delle situazioni che possono essere affrontate correttamente solo uscendo dalle mappe mentali consolidate.
Se non lo si riesce a fare sicade in errore, soprattutto quando si affrontano circostanza sconosciute.
C’è un’ulteriore importante considerazione.
Nella vita corrente la paura di assumere una decisione errata può portare a prendere la decisione errata, come è dimostrato dal celebre paradosso delle profezie che si auto avverano.
In altri termini, una previsione che si auto-avvera, o che si auto-determina, è una previsione che si realizza per il solo fatto di essere stata pensata.
Questo perché predizione ed evento sono in una relazione dialettica, secondo la quale la predizione finisce per generare l’evento e l’evento verifica la predizione.
Due esempi. Come avviene spesso nell’ambito del mercato finanziario, se esiste la convinzione che sia imminente un crollo dei titoli, gli investitori possono perdere fiducia e mettere in atto una serie di reazioni che possono causare realmente questo crollo.
In una campagna elettorale, un candidato che mostra di non essere convinto nella sua vittoria può indurre apatia o rassegnazione nei suoi potenziali elettori, apatia o rassegnazione che finiscono per concretizzarsi in una riduzione della sua base elettorale.
Più in generale, come afferma la psicologia, una profezia che si auto-adempie si ha quando un individuo, convinto o spaventato dall’idea che possano verificarsi determinati eventi, altera il suo comportamento in un modo tale dal finire per causarli.
_______________________________________________________________________________
Vediamo adesso l‘esperimento di Rosenhan.
David Rosenhan (1929-2012) è stato un professore di psicologia presso la Stanford University di Santa Clara in California.
Rosenhan eraconvinto che le categorie sociali di salute e di malattia mentale si basassero su dei dati obiettivi considerati in modo riduttivo o errato.
In breve, pensava che il conferimento dello status di malato ad un individuo era per lo più il risultato di una costruzione sociale e, come tale, il più delle volte arbitraria.
Rosenhan si pose la domanda se, per la diagnosi di malattia mentale, contassero di più le caratteristiche dei pazienti o quelle del contesto nei quali si trovano durante l’elaborazione della diagnosi (il reparto psichiatrico, nella maggior parte dei casi).
Per verificare questa sua idea otto tra i suoi collaboratori di Rosenhan si rivolsero ad alcuni ospedali in diverse città degli Stati Uniti chiedendo di essere ricoverati.
Si trattava di un gruppo composto da una casalinga, uno studente di psicologia, tre psicologi, un pediatra ed uno psichiatra.
Dopo aver chiesto un appuntamento, questi pseudo-pazienti si recarono all’accettazione dei reparti ospedalieri denunciando di “sentire delle voci”.
Questa fu la sola bugia che costoro raccontarono agli psichiatri dell’accettazione, oltre a non rivelare le loro vere professioni.
Per il resto fornirono delle informazioni veritiere sulla loro vita, le loro abitudini, la loro famiglia, con una descrizione di sé stessi che li faceva apparire come assolutamente “normali”.
Contrariamente ad ogni logica, tutti e otto furono ricoverati nei reparti psichiatrici a cui si erano rivolti e, nonostante una volta giunti in reparto avessero denunciato la loro finzione, spiegando il perchè l’avessero fatto, furono trattenuti a lungo per essere alla fine dimessi con una diagnosi di schizofrenia in remissione.
Sorpreso del risultato ottenuto, David Rosenhan effettuò una controprova.
All’equipe medica di un ospedale psichiatrico che conosceva le sue ricerche e che riteneva non potesse cadere in errori così grossolani, comunicò, che nei successivi tre mesi, avrebbe inviato presso di loro uno o più falsi pazienti.
Nei tre mesi successivi, su centonovantatre pazienti ammessi all’ospedale, quarantuno vennero individuati dall’equipe come “simulatori”, solo che Rosenhan non aveva inviato nessun falso paziente, come aveva preannunciato, bluffando.
L’esperimento di Rosenhan e, per certi versi, analogo a quello di Asch.
Il test di Asch è stato un esperimento di psicologia sociale condotto nel 1956 dallo psicologo polacco Salomon Asch (1907-1996).
L’assunto di base di questo esperimento consisteva nel fatto che per Asch la condizione di membro di un gruppo era una condizione sufficiente ad alterare il comportamento e, in una qualche misura, anche i giudizi e le percezioni visive di una persona.
L’esperimento aveva come scopo primario quello di valutare la possibilità di influire sulle percezioni e sul giudizio di dati oggettivi, senza ricorrere a false informazioni sulla realtà.
Ricordiamo, en passant, che questo test di Asch influenzò Stanley Milgram (che fece il suo dottorato con Asch) e le sue successive ricerche.
L’esperimento.
I due interrogativi da cui partì Asch nel suo esperimento sono:
1 – Quale grado di autonomia conservano le persone quando sono messe di fronte a una pluralità di individui che esprimono unanimemente valutazioni diverse dalla sua?
2 – Quali condizioni limitano gli effetti che la pressione del gruppo esercita sull’individuo?
Il protocollo dell’esperimento prevedeva che otto soggetti, di cui sette collaboratori diretti di Asch, all’insaputa dell’ottavo (il soggetto sottoposto all’esperimento), si incontrassero in un laboratorio, per quello che era stato annunciato come un normale esercizio sulla visione.
Lo sperimentatore mostrava a questi soggetti un foglio con tre linee di diversa lunghezza in ordine decrescente mentre su un’altro foglio vi era disegnata un’altra linea, di lunghezza uguale alla prima linea della prima scheda.
Poi chiedeva ai soggetti, iniziando dai sette soggetti complici, quale fosse la linea di lunghezza uguale nelle due schede.
Dopo un paio di prove, alla terza serie di domande i setti collaborati di Asch iniziarono a rispondere in maniera palesemente errata.
Il soggetto sottoposto all’esperimento, che rispondeva per ultimo o penultimo, in un’ampia serie di casi cominciava a rispondere anche lui in maniera scorretta, conformandosi alla risposta sbagliata data dalla maggioranza che aveva risposto prima di lui.
In sintesi, pur sapendo soggettivamente quale fosse la “vera” risposta, questo soggetto decideva, consapevolmente e a dispetto di ogni logica, di assumere la posizione dalla maggioranza.
Salomon Asch verificò che solo pochi soggetti all’esperimento furono capaci di sottrarsi alla pressione del gruppo, dicendo ciò che vedevano e non ciò che sentivano di “dover” dire.
Per riassumere.
Il venticinque per cento dei partecipanti non si conformò alla maggioranza.
Il settantacinque per cento si adeguò almeno una volta alla pressione del gruppo.
Il cinque per cento dei soggetti si adeguò ad ogni singola ripetizione della prova.
°°°°°
Che cos’è – in questa ottica – la conformità sociale.
Si definisce conformità sociale il risultato sull’individuo di fattori che tendono a uniformare il suo comportamento a quello del gruppo di appartenenza o del sistema sociale in cui vive.
In linea generale, gli individui – nel corso del processo di interazione con l’ambiente, con i gruppi e i sistemi socio-culturali di riferimento – tendono a sviluppare schemi e sistemi di regole che orientano il loro comportamento.
Schemi e sistemi che normalmente vengono interiorizzati attraverso i meccanismi di socializzazione e che finiscono per diventare dei riferimenti normativi.
Tali schemi e sistemi appaiono come credenze condivise e rappresentano dei criteri di giudizio e di azione in riferimento a come ci si deve comportare socialmente.
Queste credenze possono essere sia manifeste che implicite e generano un comportamento uniforme, seguendo un percorso auto-referenziale.
In linea di massima possiamo dire che molti dei nostri comportamenti sono determinati da tali norme, anche se non ne siamo consapevoli.
In altri termini, il nostro agire si adatta spontaneamente alle norme, ma una tale conformità non viene percepita dal soggetto che il più delle volte è convinto di stare agendo liberamente.
Un fattore di conformità rilevante deriva dall’appartenenza a un gruppo.
Vale a dire gli individui tendono a modellare il loro comportamento su quello dei gruppi di appartenenza, come la famiglia, gli amici, la fede religiosa, il partito politico, eccetera.
Anche il ruolo ricoperto in un sistema o in una organizzazione pubblica e le autorità che si riconoscono come legittime sono fattori che producono conformità.
In questo contesto la persuasione può essere definita l’arte di modificare l’atteggiamento o il comportamento altrui attraverso uno scambio di idee.
A differenza di altri sistemi di convincimento la persuasione utilizza solamente le parole o il linguaggio del corpo per mettere l’interlocutore in uno stato d’animo specifico.
La parola persuasione appare spesso connotata in modo negativo, questo fatto oggi, è dovuto all’utilizzo esagerato e poco etico che ne fanno i persuasori al servizio di interessi di parte o commerciali.
Uno dei mezzi più importanti di persuasione sono oggi i nuovi mass media, in particolare, i sistemi digitali.
In sintesi, la persuasione, assieme all’azione della suggestione, è il mezzo ideale per la propaganda e il plagio.
Uno degli studi più importanti su questi fenomeni è costituito dal testo di Stanley Milgram sull’obbedienza pubblicato negli Stati Uniti nel 1974.
Questo testo è stato pubblicato in italiano nel 2003 con il titolo: Obbedienza all’autorità. (Edizioni Einaudi).
Chi è Stanley Milgram?
È statouno psicologo americano(New York 1933 – 1984) che trascorse la prima parte della sua carriera di ricercatore e professore presso le università di Yale e di Harvard per poi trasferirsi alla City University di New York.
È l’ideatore di sofisticate tecniche di ricerca nel campo delle scienze sociali e autore di vari contributi che riguardano la qualità della vita nelle grandi metropoli.
Si occupò in particolare della relazione tra il potere di condizionamento esercitato dai new media e i comportamenti antisociali.
Il suo nome è legato agli studi riguardanti la determinazione del comportamento individuale in relazione a un sistema gerarchico e autoritario che impone obbedienza.
L’esperimento di Milgram ovvero una riflessione sull’obbedienza.
Il verbo obbedire viene dal latino, significa prestare l’orecchio, essere sottomesso.
Si ubbidisce per una infinità di motivi, per forza, per calcolo, per abitudine, per soggezione, per ignoranza, per devozione, per rispetto, per amore…
Prima di entrare in argomento ricordiamo due grandi studiosi che hanno affrontato questi temi.
Il primo è Étienne de La Boétie (1530-1563). È stato un filosofo e uno scrittore politico francese amico di Michel de Montaigne, autore di un “Discorso sulla servitù volontaria” nel quale sostenne che l’obbedienza è anche la causa e non solamente l’effetto della sottomissione.
Questa osservazione fa capire perché è uno dei pensatori più amati dagli anarchici e uno degli autori più citato da i movimenti non-violenti o della disobbedienza civile.
Il secondo è Thomas Hobbes (1588 – 1679), filosofo e matematico inglese, autore (nel 1651) dell’opera di filosofia politica il Leviatano.
Hobbes oltre alla teoria politica si interessò e scrisse di storia, di geometria, di etica e di economia.
Fu un acuto osservatore della natura umana che descrisse come sostanzialmente competitiva e egoistica, esemplificata da una sua affermazione che oggi citiamo come se fosse un proverbio. Homo homini lupus, “ogni uomo è lupo per l’altro uomo”.
L’esperimento di Stanley Milgram è all’apparenza un tipico test di psicologia, com’erano di moda negli Stati Uniti negli agli ’60 del secolo scorso.
Nel 1961 realizzò questo test presso i locali dell’Interaction Laboratory dell’Università di Yale.
L’obiettivo era quello di verificare il livello di corrispondenza agli ordini impartiti da un’autorità, nel momento in cui tali ordini entrano in conflitto con la coscienza e la dimensione morale di chi li riceve.
L’obiettivo era studiare il comportamento di soggetti a cui un’autorità – nella fattispecie un professore di università – imponeva di eseguire delle azioni contrarie ai valori etici e morali dei soggetti stessi.
Va ricordato, per meglio inquadrare questo esperimento, che nell’aprile del 1961 a Gerusalemme era cominciato un processo che, per forza di cose, finì per politicizzare questo esperimento, aprendo le porte a molte polemiche anche in considerazione del fatto che Milgram era ebreo e che era già stato al centro di altre controversie per il suo atteggiamento spregiudicato nei confronti del mondo accademico.
Questo processo riguardava un criminale di guerra nazista Adolf Eichmann.
In breve. Eichmann durante il Terzo Reich era stato un importante membro del partito nazista e un esperto della questione ebraica.
Nel corso di quella che fu chiamata la soluzione finale organizzò lo smistamento e il trasporto ferroviario di milioni di ebrei, comunisti, gay, rom, malati di mente nei vari campi di concentramento.
Alla fine della seconda guerra mondiale fu dichiarato un criminale di guerra, ma riuscì, fuggendo, a sottrarsi al processo di Norimberga.
Si nascose in Argentina dove qualche anno dopo i servizi di sicurezza dello stato di Israele (Mossad) riuscirono a localizzarlo e a trasferirlo a Gerusalemme per processarlo.
Va sottolineato che tutto il processo si svolse intorno a questo interrogativo:
È possibile che Eichmann e le migliaia di persone che lo aiutarono stessero semplicemente eseguendo degli ordini e che li eseguissero a prescindere dal fatto che fossero moralmente giusti o criminali?
Ricordiamo che la stessa domanda compare in uno dei libri più importanti di Hannah Arendt, che seguì il processo come corrispondente del New Yorker e in seguito raccolse queste corrispondenze in un libro intitolato, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme.
La Arendt (Hannover 1906 – New York 1975, allieva di Martin Heidegger, è uno dei filosofi sociali più importanti e stimati del ‘900, autrice di molti saggi di teoria politica sulle radici dell’autoritarismo.
Veniamo all’esperimento.
I partecipanti furono reclutati sia tramite un annuncio su un giornale locale, sia tramite alcuni inviti spediti per posta a delle persone il cui indirizzo era stato ricavato dalle guide telefoniche.
Il campione selezionato risultò composto da maschi di varia estrazione sociale di età compresa tra i venti e i cinquanta anni.
Fu loro formalmente comunicato che avrebbero partecipato – dietro una ricompensa – ad un esperimento sulla memoria e il modo di stimolare l’apprendimento.
Per cominciare il direttore del test insieme ad un suo collaboratore assegnarono, per sorteggio, i due ruoli. di allievo e di insegnante.
Solo che il sorteggio era truccato e il soggetto, che aveva risposto all’annuncio per il test, era sempre sorteggiato come insegnante mentre il collaboratore del direttore del test era sempre sorteggiato come allievo.
I due soggetti venivano poi condotti in un laboratorio diviso in due locali.
L’insegnante – cioè il partecipante all’esperimento – era posto di fronte al quadro di controllo di un generatore di corrente elettrica.
Il quadro di questo generatore era composto da trenta interruttori a leva messi in fila.
Sotto ogni interruttore era scritto il voltaggio, che andava dai quindici volt del primo fino ai 450 volt del trentesimo.
Sotto ogni quattro interruttori compariva la scritta:
– Scosse leggere.
– Scosse medie.
– Scosse forti.
– Scosse molto forti.
– Scosse intense.
– Scosse molto intense.
– Infine, sotto gl’ultimi due interruttori compariva la scritta, attenzione scosse molto pericolose.
All’insegnante – il partecipante al test – veniva fatta provare la scossa di 45 volt e poi gli veniva illustrato quello che doveva fare.
Il compito consisteva nel leggere al finto allievo – un collaboratore di Milgram, sistemato nell’altro locale – delle coppie di parole semplici e in qualche modo correlate tra loro, come scatola rossa, giorno sereno, viaggio felice, eccetera.
Il finto allievo doveva ripetere la seconda parola della coppia – inquesto caso, rossa, sereno, felice – e accompagnarla da altre quattro parole associabili.
Per esempio, rossa poteva essere associata ad automobile, a rapa, a scatola, a lampadina.
L’insegnante avrebbe poi deciso se le risposte erano corrette.
Nel caso le risposte fossero state ritenute errate doveva infliggere una punizione aumentando l’intensità della scossa ad ogni errore.
Il finto allievo, era legato ad una sedia munita di morsetti elettrici che gli erano stati fissati al polso e collegati al generatore di corrente che l’insegnante poteva manovrare dalla sua postazione.
Questi, d’accordo con il direttore dell’esperimento, doveva rispondere alle domande e sbagliarne di tanto in tanto qualcuna in modo da essere sottoposto alle scosse elettriche, che naturalmente non riceveva, ma che doveva simulare di ricevere.
In altre parole doveva lamentarsi e implorare che la smettessero con l’esperimento, simulando dolore, gridando e divincolandosi.
Tutto questo fino a 330 volt.
Raggiunto questo limite doveva fingere di svenire.
A fianco dell’insegnante – cioè, al soggetto sottoposto al test – c’era Milgram nel ruolo di direttore dell’esperimento, che ad ogni eventuale obiezione sulle scosse che infliggeva gli rispondeva con delle frasi standard:
– l’esperimento richiede che lei continui.
– lei è stato pagato e quindi dobbiamo andare avanti.
– è assolutamente indispensabile proseguire.
– guardi che lei non ha altra scelta che proseguire.
Il grado di obbedienza – che era lo scopo del test – era stabilito in base al numero dell’ultimo interruttore premuto da ogni soggetto prima di rifiutarsi di proseguire nella prova.
Va aggiunto, per correttezza, che alla fine di ogni test era rivelato al soggetto, a cui era stato assegnato il ruolo dell’insegnante, che l’allievo non aveva ricevuto nessuna scossa e per tranquillizzarlo gli veniva detto che il suo comportamento era stato normale e che tutti gli altri partecipanti avevano reagito come lui.
Questo per evitare contestazioni o il manifestarsi di sensi di colpa.
Contrariamente anche a quello che era stato previsto un numero altissimo dei quaranta soggetti sottoposti all’esperimento – nononostante avessero mostrato segni più o meno forti di tensione ed avessero protestato a parole – obbedirono diligentemente al direttore del test.
Questo imprevisto e sorprendente grado di obbedienza (che di fatto aveva indotto i partecipanti a violare i propri convincimenti morali), obbligò Milgram e il suo staff a riflettere su quello che avevano costatato e ad avanzare delle ipotesi.
Una di queste ipotesi sosteneva che l’obbedienza può essere indotta da una figura autoritaria che, chi la subisce, considera autorizzata e legittimata a dare ordini.
In pratica, questa figura autoritaria può indurre, con l’autorità che le è riconosciuta, uno stato eteronomico, cioè, a un comportamento che, anche se il soggetto vive come un’imposizione, accetta ritenendosi un semplice strumento per eseguire l’ordine.
(Lo stato eteronomico, in filosofia è definito come la dipendenza da leggi o criteri estranei o esterni alla volontà del soggetto, specialmente in campo morale).
Questo stato di cose si realizza quando il soggetto percepisce l’autorità come legittima e superiore – nel caso di questo esperimento era il riconoscimento della competenza universitaria.
È una situazione che si verifica soprattutto in due circostanze:
– quando per educazione o per condizione sociale l’obbedienza all’autorità fa parte dei processi di socializzazione del soggetto.
– quando si cede alle pressioni culturali o ideologiche che fanno apparire la disobbedienza un comportamento asociale.
Milgram, in seguito, ripeté questo test più volte, variando gli scenari, le circostanze e le distanza fisica tra i protagonisti del test, fino al caso dell’insegnante – cioè il soggetto sottoposto al test – che era informato di ciò che sarebbe successo durante l’esperimento ma non era in grado di vedere le contorsioni, né di udire i gemiti del finto allievo.
Per riassumere i risultati: Oltre il sessantacinque per cento dei soggetti andò avanti fino alla scossa più grave e, nonostante le polemiche che questo esperimento sollevò, tutte le volte che fu ripetuto il risultato non cambiò mai di molto da quello del 1961.
In pratica, con questo test, Milgram dimostrò che l’obbedienza dipende in massima parte dalla “re-definizione” che il soggetto fa del significato della situazione che sta vivendo.
Questo perché ogni situazione vissuta è caratterizzata da una sua ideologia che definisce e interpreta il significato degli eventi che vi accadono.
Ed è proprio questa ideologia che fornisce il punto di vista (o l’alibi) grazie al quale i singoli elementi che compongono la situazione (che si sta vivendo con disagio) acquistino una loro coerenza e giustificazione.
In linea generale si può affermare che quando c’è un contrasto tra ciò che pensiamo sia giusto e le circostanze – che ci spingerebbero ad assumere un comportamento diverso – finiamo nella maggior parte dei casi per comportarci in base a ciò che la percezione della situazione ci suggerisce.
Tutto questo tenendo conto del fatto che, in linea di massima, noi siamo disposti ad accettare la definizione della situazione che ci suggerisce l’autorità e, in quest’ottica, anche l’azione più orribile sarà riclassificata come ragionevole e oggettivamente necessaria.
Due curiosità.
Nel 1986 Peter Gabriel pubblico il suo quinto album intitolato “So”.
L’ottavo pezzo di questo album è dedicato all’esperimento di Milgram, chi lo conosce sa che è il più oscuro e sperimentale dell’intero album.
In italiano potremmo tradurlo con: Facciamo quello che ci è stato detto.
(Peter Brian Gabriel è un cantante, compositore e produttore discografico britannico. Dopo aver raggiunto il successo nel celebre gruppo rock progressivo Genesis come cantante, flautista e percussionista, ha intrapreso una carriera solista di successo sperimentando numerosi linguaggi musicali).
Nel 2008 lo scrittore Will Lavender un professore universitario di letteratura americana pubblicò un romanzo intitolato Dominance & Obedience, ispirato al lavoro di Milgram che divenne un best seller nella classifica dei libri in inglese.
In Italia questo romanzo fu pubblicato, nel 2009, con il titolo Obbedienza.
°°°
Passiamo adesso a L’esperimento carcerario di Stanford.
È uno degli esperimenti di psicologia sociale più drammatici che sia mai stato realizzato in ambito universitario.
Fu condotto da Philip Zimbardo della Stanford University e dalla sua équipe nel 1971.
Philip Geeorge Zimbardo è nato e cresciuto nel quartiere del Bronx a New York, nel 1933, da genitori siciliani emigrati negli Stati Uniti.
Ha studiato con Stanley Milgram e si laureò alla Yale University dove ha anche insegnato prima di passare alla New York University.
Successivamente passò alla Columbia University e infine approdò alla Stanford University, in California dove realizzò questo esperimento.
Zimbardo nel progettare questo esperimento partì da alcune osservazioni sul comportamento sociale di uno studioso francese Gustave Le Bon, vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, a cui si devono alcuni studi sul comportamento collettivo e delle folle.
In particolare Zimbardo era interessato alla tesi di Le Bon sulla “de-individuazione”.
Vale a dire sulla circostanza per la quale gli individui, che compongono una folla, se si verificano determinate condizioni, tendono a smarrire la propria identità, a perdere la propria consapevolezza e la propria lucidità.
In una, il loro senso di responsabilità, favorendo l’insorgere di impulsi a-sociali e di comportamenti anomici che si diffondono facilmente all’interno della folla stessa.
Ricordiamo anche che molte delle ricerche, che prima di questo esperimento Zimbardo avevaportato a termine, consistevano nel verificare lafondatezzadiunaconvinzionediffusa, secondo la quale, i comportamenti degradati e violent,i osservabili all’interno di un’istituzione totale, come è il carcere, sono dovuti a disfunzioni della personalità, innate o apprese, sia da parte dei carcerati che delle guardie.
Nel corso di queste ricerche Zimbardo dimostrò che, in genere, tali condotte dipendono soprattutto dalle particolari caratteristiche della situazione contestuale.
Nell’estate del 1971 Zimbardo allestì nel seminterrato dell’Istituto di Psicologia dell’Università di Palo Alto, uno spazio che riproduceva fedelmente un ambiente carcerario.
Poi con alcuni annunci sui giornali locali e studenteschi, un metodo molto usato nei campus degli Stati Uniti in quel periodo, reclutò 75 studenti universitari per una ricerca non specificata dall’annuncio.
Di questi studenti, con l’aiuto della sua équipe, ne selezionò 24.
Erano quelli che,dopo un colloquio, apparivano i più maturi, i più equilibrati, in qualche modo dei benpensanti, tutti appartenenti al ceto medio.
Questi studenti, furono casualmente divisi in due gruppi quello delle guardie e quello dei carcerati e trasferiti nei locali dell’Istituto di psicologia trasformati in carcere.
Qui, i carcerati dovettero togliersi gl’abiti, compresa la biancheria intima, e ricevettero una divisa standard con un numero, un berretto e furono incatenati alla caviglia.
Dopo di che dovettero imparare a memoria una serie di regole da rispettare rigidamente.
Le guardie, invece, ricevettero un’uniforme classica color cachi, con occhiali da sole a specchio, fischietto, manette e manganello.
Le loro istruzioni furono discrezionali, in pratica, fu richiesto loro di mantenere l’ordine.
Attenzione: Si definisce, nell’ambito carcerario, potere discrezionale, quello che consente a chi lo esercita di decidere – nei casi non specificatamente contemplati dalla legge – secondo il proprio arbitrio
Come era facile prevedere, da subito questi studenti cominciarono ad immedesimarsi nei due diversi ruoli.
I carcerati divennero nervosi, passivi, sospettosi, mentre le guardie cominciarono a manifestare tendenze sadico-narcisistiche.
Tutto questo in un certo senso era stato previsto dal protocollo da Zimbardo.
In realtà quello che successe in seguito andò molto più in là delle previsioni.
Appena un paio di giorni dopo l’inizio dell’esperimento i prigionieri si strapparono le divise e si barricarono nelle celle per protesta contro le guardie.
Le guardie, da parte loro, cercarono di spezzare la solidarietà che si era creata tra i prigionieri intimidendoli e umiliandoli.
Siccome i prigionieri dipendevano da esse per mangiare e lavarsi li obbligarono a cantare canzoni oscene, a pulire le latrine a mani nude e a defecare in secchi che erano costretti a tenere nelle celle.
Il quarto giorno ci fu un tentativo di evasione, che fu contenuto con l’aiuto del direttore del carcere, impersonato dallo stesso Zimbardo.
A seguito del fallimento dell’evasione, la coesione tra i prigionieri si disgregò e cominciarono a manifestarsi segni di stress emotivo e di passività.
Unostato di cose accentuato dal comportamento sempre più sadico e vessatorio delle guardie.
A questo punto l’esperimento fu interrotto.
Probabilmente si verificò qualcosa di molto grave, ma Zimbardo e la sua équipe non lo rivelarono mai in modo esplicito.
Secondo Zimbardo la finta prigione fu vissuta come vera nell’esperienza psicologica di entrambi i due gruppi, guardie e prigionieri.
Le guardie, in particolare, assunsero un ruolo formale che le spinse ad adottare le istruzioni ricevute come il solo valore da rispettare.
In breve, si verificò quello che aveva già notato Milgram nelle sue ricerche: le circostanze eccezionali spingono inevitabilmente i soggetti a una “re-definione” della situazione che stanno vivendo.
In altri termini, il processo di “de-individuazione”, messo in luce da Gustave Le Bon, generò, negli studenti trasformati in guardie, una perdita di responsabilità personale.
È come se la consentita impunità e discrezionalità delle proprie azioni avesse indebolito in questi studenti l’auto-controllo basato sul senso di colpa, la vergogna e la paura.
Un’appendice.
Questo esperimento era stato dimenticato, ma negli Stati Uniti ritornò di attualità con le drammatiche vicende riguardanti le torture a cui furono sottoposti i prigionieri iracheni nella prigione di Abu Ghraib ad opera di militari americani, tra cui alcune donne, nel 2003.
Chi aveva vissuto o aveva studiato l’esperimento di Stanford dichiarò che le immagini diffuse dai media e che mostravano le sevizie e le umiliazioni subite dai prigionieri iracheni erano drammaticamente simili a quelle che si erano verificate a Palo Alto.
(Fine – marzo 2019).