Cinque lezioni tra «art & food» – Terza lezione

Terza lezione.


I surrealisti sono stati spesso definiti un pugno di uomini persi nella loro determinazione tra il sogno e l’azione. Essi stessi, sul primo numero della loro rivista, La Révolution surréaliste, del dicembre 1924, avevano scritto : Il realismo è un modo per potare gli alberi. Il surrealismo è un modo per potare la vita.

Nel 1924 la parabola Dada era praticamente conclusa.

La disorganizzazione, il disorientamento, la demoralizzazione di tutti valori conosciuti era stata tentata, la società anonima per lo sfruttamento del vocabolario aveva fatto il suo corso.

Dada era nato a Zurigo il 5 febbraio 1916, era stato poi svezzato in un cabaret intitolato a Voltaire, in un vicolo, lo Spiegelgasse, che da sulla Seestrasse, ad un paio di portoni da un altro luogo destinato a diventare famoso e che gli è contemporaneo, l’abitazione di un esule russo, Vladimir Lenin.

Nel 1968 diranno gli arrabbiati del maggio francese che Dada volle distruggere l’arte senza realizzarla, cioè, senza portarla a compimento. I surrealisti vollero realizzare l’arte senza dissolverla. Nella forma un modo hegeliano per dire che l’arte – non l’esperienza estetica – può essere risolta solo se la sua realizzazione corre parallela al suo superamento.

L’esperienza surrealista è meno algida di quella Dada, fin dalla sua fondazione il tema degli stati alterati di coscienza penetra nella sua poetica. I suoi adepti dopo aver spalancato le porte del sogno si ritrovano all’incrocio di molti incantamenti che vogliono cavalcare anche ricorrendo all’alcol, al tabacco, all’etere, all’oppio, alla cocaina e alla morfina.

Questa esperienza, che Breton inaugura con un manifesto nell’ottobre del 1924, accompagnato da altri brevi testi, da subito si scontra con la dura realtà politica degli anni ’30 e scriverà nella storia dell’arte moderna alcune pagine di cui molte sono ancora da decifrare. Qui c’interessa soprattutto un tema, il tema dei piacere materiali, in particolare di un sensualismo che vede nella donna l’essere che sparge la più grande luce e le più grandi ombre sul cuore degli uomini.

Attraverso la figura femminile essi fanno transitare tutti i desideri, compresi quelli politici e di rivolta. È significativo il caso di Germaine Berton, militante anarchica, di cui presero le difese. La Berton nel 1923 giustiziò il segretario di una piccola quanto pericolosa organizzazione fascista, i Camelots du roi. Ciò detto, il loro obiettivo più segreto era più ambizioso, arrivare ad esprimere il funzionamento reale dei meccanismi inconsci della conoscenza. Occorre tenere a mente questo punto se vogliamo capire perché questa avanguardia è divenuta nel tempo e sempre più spesso un predicato di qualunque bizzarria.

Ancora, a ragione del nostro tema non parleremo tanto di surrealismo quanto di alcuni dei suoi protagonisti, soffermandoci su alcuni di essi, in particolare, Marcel Duchamp, Salvador Dalí ed un artista della sua stagione più vicina a noi, Marcel Broodthaers.

Prima di procedere vediamo ancora un inciso. Assaporare e giudicare sono due azioni mediate dal gusto, ritenuto fin dall’antichità uno strumento indispensabile per comprendere la bellezza.

Un tempo attraverso il gusto si separavano i sensi nobili – vista e udito – da quelli rozzi, in cui il gusto si riteneva emergesse come carnale, umile, materiale.

Nell’esperienza delle avanguardie storiche iniziò anche a farsi strada un principio, manipolare i contenuti della vita corrente all’insegna del sensualismo significava anche ripensarli, imparare a governarli, e questo a dispetto del pregiudizio corrente che vede i sensi con i quali la vita si confronta, tatto, gusto odorato, come una caratteristica emotiva del femminile, una sua ombrosa stimma.

Insomma il cucito si rivelò l’altra faccia del collage.

In ogni modo, da secoli sappiamo che gl’ingredienti culinari sono ingredienti culturali e le loro procedure di lavorazione scorrono sulla cresta delle stesse analogie. Questo perché una identica affinità, anche pratica, lega l’elaborazione degli atti alimentari all’elaborazione morfologica di molti contenuti artistici. È un’esperienza ricorrente soprattutto nell’ambito della poesia che affonda nella vita vissuta e che nel surrealismo è un’eredità diretta dal simbolismo.

Ludwig Wittgenstein nella raccolta Pensieri diversi osserva: “l’uva passa può anche essere quanto vi è di meglio di una torta, ma un cartoccio di uvette non è migliore di una torta.”

Cosa intendeva dire? Che il pensiero astratto e/o quello “creativo” – così come gli atti alimentari in cucina – ha bisogno delle stesse operazioni, quali l’essere selezionato, mescolato, impastat0, assaggiato e portato a conclusione con la cottura.

Non è dunque un caso che sapere e sapore, hanno nella lingua latina lo stesso etimo, così come conoscere e mangiare hanno la stessa madre. Il linguaggio del cibo, a cominciare dai simposi dei greci, dilaga nel linguaggio della conoscenza di cui molti apprezzano l’appetito, come conoscono la sete di sapere e la fame di informazioni.

A questo proposito nelle lingue europee ci sono molte affinità.

In italiano i buoni libri si divorano, provocano una nausea quando sono noiosi. Tutti sanno che le buone letture saziano, anche se quando contengono concetti complicati magari si fa fatica a digerirle. In ogni modo le idee difficili si ruminano come si rumina quando si ricorda. Le lingua straniere si masticano. Gli ordinatori, da parte loro, ci costringono spesso ad una indigestione di dati. Ancora, le parole degli amanti sono dolci come sono amari o aspri i rimproveri. I pettegolezzi sono piccanti, e gustosi i riferimenti. In breve, la lingua ha nei confronti del cibo e delle parole la stessa funzione. Di ligare.

Queste analogie, che in molti casi ritornano come formazioni formali con le poetiche delle avanguardie, sono antichissime. Pindaro, un poeta greco vissuto a cavallo tra il quarto e il quinto secolo prima dell’era comune, diceva che la lirica rappresentava ai suoi occhi una bevanda deliziosa e il suo canto (mélos) gli appariva dolce come il miele (méli). Nel Medioevo la “farcia” non era solo un ripieno, ma un intermezzo comico, una farsa, appunto. Sono analogie forti?

Certamente, non per caso gli avvenimenti apicali della religione cristiana sono fondati sul cibo. Lo sono il peccato di Adamo ed Eva che mangiano la mela della conoscenza, la trasformazione dell’acqua in vino, a Cana, primo miracolo di Gesù bambinetto, l’ultima cena che celebra con il vino che diventa sangue e il pane che diventa carne il patto di “dio” con gli uomini.

Prima di vedere le opere culinarie di Marcel Duchamp, per cominciare ricordiamo un’opera famosa di Francis Picabia del 1921, L’Oeil cacodylate, che ha molti interventi di altri artisti Dada e non. Su questa “tavola” di firme s’inneggia ai croissants che sono buoni o all’amore per l’insalata.

Affermazioni banali che mirano a stupire o, forse, a smaltire le bottiglie di champagne che offriva a Picabia e sodali Nancy Cunard, la Gioconda degli anni ‘20 come è stata chiamata, la bella e ricca ereditiera inglese che conobbe parecchi “talami” surrealisti, a cominciare da quello di Louis Aragon, per tacere quelli di Tristram Tzara, Erza Pound, Ernst Hemingway e James Joyce.

Questo Oeil è un modo per entrare in argomento a partire anche da un altro archetipo freudiano di quella stagione, la “macina cioccolato” di Duchamp con cui lo scapolo macina da solo i semi di cacao per farne della polvere e che compare anche nella parte inferiore del grande vetro, quello della Marieé, sposa messa a nudo dai suoi scapoli stessi, même, qui vuol dire che forse mi ama.

In ogni modo le opere “incommestibili” Marcel Duchamp le realizzò nella sua amata Cadaquéz. La più interessante è forse Sculpture-morte del 1959. È la terza opera, dopo With my tongue in my cheek e Torture-morte, delle quali i suoi critici diranno che si “sente” la vicinanza di Salvador Dalì, delle limpide acque di La Caula, dell’atmosfera picaresca del Café Melitón y Casino.

In particolare, dietro Sculpture-morte balugina, e non è difficile coglierla, una citazione “surreale”, quella di Giuseppe Arcimboldo (1527-1593). Ma è poi vero? Vale a dire c’è qui la stessa relazione figurale che proietta questo artista nell’epoca di Rodolfo II di Habsbourg per esempio tramite la tela Vertumnus del 1590? Questa relazione fa dire a Roland Barthes che in Arcimboldo “tutti gli animali del mare formano il viso del mare e non c’è altro sistema per farcelo conoscere”. C’è poi una suspicione stilistica. Duchamp sa essere infantile senza essere banale. L’opera non è stata realizzata con verdure vere, che certamente non mancano a Cadaquéz, né con verdure finte, come avrebbe fatto in altre circostanze, ma con ortaggi in marzapane e insetti di carta.

Di per sé quest’opera è più un assemblage che una composizione. Sfida il grottesco e l’osceno.

C’è anche da considerare che il numero degli ortaggi in marzapane che si possono trovare a Barcellona non è infinito pur essendo un vanto delle sue pasticcerie, e l’opera lo registra con disincanto. Del resto, con la pasta di mandorle, cioccolato e canditi ha lavorato in questa città anche Antoni Gaudí, vi ha costruito tra le altre cose la casa di Hensel e Gretel al Parco Güell, oltrepassando il moderno in nome del modernismo, rivendicando una cosmogonia estetica o forse, in questo caso, estatica delle piccole differenze.

Il legame poetico che Duchamp “ricama” tra Arcimboldo e Gaudí è più forte di quello con Dalì e passa per l’assemblage, come una forma moderna di quella totalità che non conosciamo se non a spizzichi e bocconi.

La scultura moderna, infatti, morta o viva che sia, ha da tempo frantumato l’aura della scultura classica, prigioniera dei materiali, dell’immobilità, dello spazio, dell’antropomorfismo.

La forma, cioè, il tutto, non è più “estratta” o “scavata” da un insieme coerente, ma è prodotta per frammenti, ha legami improbabili, tematiche che sfuggono alla geometria o, viceversa. La scultura classica è stata aristotelica, ma Auguste Rodin l’ha sollevata dal suo zoccolo di certezze per sprofondarla nell’improbabile, nella brutalità pelvica dei realismi. Lo vediamo da tempo, la scultura moderna oramai fugge il monumentale per aspirare all’assenza, sfida l’impossibile, esalta la sua natura effemerica, si fa rappresentazione o proiezione.

In questo senso Sculpture-morte appare come un volutamente a-monumentale aggregato astratto che si condensa fino a diventare segno. Si consegna alla rappresentazione, si spoglia in un istante di quella oscena poetica statuaria che abbiamo visto inchinarsi alla gloria degli dei e delle puttane ed accetta la mutazione, la perfida metamorfosi, perché l’idea, nel cinismo di Duchamp, è in re e non ante rem.

Infine la pasta di mandorle che diventa scultura è un’intuizione allegorica, resto odoroso di sé.

È un’esaltazione della caduca dignità dell’arte, si muta in figurazione e riflette la mano che l’ha costruita mettendone a nudo il cuore. Forse ha ragione Denis Diderot, l’arte e la poesia vogliono qualcosa di enorme, di barbaro, di selvaggio. Forse confrontarci con degli ortaggi è la porta che si spalanca sulla promessa di una teofania della natura.

Poi verrà il Gruyère o l’Emmenthal Svizzero che diventa una cover, una coperta per il pamphlet, First papers of surrealism, pubblicato a New York nel 1942. A questo proposito c’è da anni una curiosa polemica su quale dei due formaggi fosse stato realmente usato da Duchamp. Gli studiosi di surrealismo dicono Gruyère, gli esperti di formaggio Emmenthal, per via dei buchi e di alcuni riscontri organolettici dovuti all’acido propionico, di recente, è stato anche unificato il loro diametro ottimale, fissato in quattordici millimetri.

In ogni modo, formaggio per formaggio, Marcel Duchamp era ghiotto di Camembert – c’è una scatola autografata della marca Excelsior conservata da un collezionista che lo testimonia. Del resto sono proprio i Camambert pourri che suggeriranno a Salvador Dalí gli orologi molli.

In ogni modo in questo contesto di forme alimentari il più radicale e “gastronomico” è Salvador Dalí che, glossando l’ultimo rigo di L’amour fou di Andrè Breton, dichiarerà: “La bellezza sarà commestibile o non sarà”.

Generalmente si associa Salvador Dalí alla Spagna, ma è un errore, Dalí era un catalano che rivendicava la sua “catalanità” in ogni occasione e con ogni mezzo, c’è un intero capitolo su questo argomento nel suo libro autobiografico, Confessioni inconfessabili, del 1973, nel quale afferma pieno d’orgoglio di parlare catalano, di mettersi sul capo appena può la berretina dei suoi contadini, di calzare le espadrilles e soprattutto di amare e divulgare in ogni occasione la cucina catalana. Dalí sostiene anche che quando era costretto a vivere a New York o a Parigi si sentiva un migrante che non ha mai tradito la cucina di questa piccola patria ribelle.

A questo proposito, studi recenti hanno dimostrato che l’ultimo legame, quello che non si spezza quasi mai con la propria terra d’origine quando si emigra non è la religione o la lingua, ma il ricordo dei sapori e degli odori della cucina materna. La catalanità sa essere molto di più, sa arrivare alla ferocia. Un aneddoto su Joan Brossa, che se non è vero è ben congegnato, ce la spiega in tutta la sua nevrosi. Brossa è un poeta ed un artista catalano, scomparso qualche anno fa, che qui ricordiamo per essere stato il fondatore, nel 1948, dunque in pieno regime franchista, di una rivista surrealista che si chiamava Dau al set, la settima faccia del dado. Dunque, Brossa voleva visitare il Museo del Prado a Madrid, ma non voleva avere niente a che fare con questa città, espressione della cultura castigliana. Così, un giorno, in cui aveva guadagnato un po’ di denaro affittò un taxi, si bendò, e partì da Barcellona alla volta di Madrid. Lì si fece accompagnare, sempre bendato, fin sopra la scalinata del Prado, si tolse la benda dagli occhi ed entrò. Una volta visitato il museo, si rimise la benda e si fece riportare, sempre con il taxi, a Barcellona.

Scrive Dalí: “Viviamo (io e Gala) nella solitudine e al ritmo delle pulsioni cosmiche. Pescando sardine con la luna nuova e sapendo che, allo stesso tempo, le lattughe stanno crescendo tra i meli.” E ci ricorda qualche pagina dopo nelle sue Confessioni inconfessabili: “Io sono un payés catalano”, un contadino, per poi aggiungere che ogni scintilla del suo spirito corrisponde a un periodo della storia della Catalogna, patria della sua paranoia.

In questo libro c’è un altro passo che va ricordato, questo: “Per essere Dalí occorre essere catalani, ovvero, pronti al delirio. La paranoia è vivere come fanno i pescatori di Cadaqués, che sugli angeli barocchi e lucenti dell’altare della loro chiesa appendono aragoste vive per far sì che la loro agonia permetta loro di seguire la passione della messa.”

In breve per Dali la cucina è l’anima della sua terra, ricca di venti e di asprezze, e dunque della sua pittura, ecco perché in tanti dei suoi lavori compaiono dei cibi che gliela ricordano a cominciare dal pa de crostons, con il quale ha anche decorato le pareti esterne del Teatro-Museo di Figueres a lui dedicato. È un pagnotta di media grandezza detta de puntas o de picas oppure “pane con le corna”, per via di tre rosette, sempre di pane, che gli sono messe intorno a triangolo.

A questo proposito egli rimuginò per molto una sua idea di rivolta. Con i dollari, sosteneva – una moneta che tanto amava, fino al punto che André Breton anagrammò il suo nome in Avida Dollar – si fanno le guerre, per il pane si può fare la rivoluzione. Da qui la teoria paranoica di una “rivoluzione del pane”.

Da anziano la nostalgia ha il sopravvento. Dalí comincerà a tornare sempre più spesso nella sua casa in mezzo agli olivi di fronte al mare, a godere dei suoi umori mangiando ricci al tramonto, arrostendo sardine con i sarmenti, cioè, con i tralci di vite, a schiacciare la testa dei crostacei per suggervi il midollo. Scrive: “gli organi più filosofici dell’uomo sono le sue mandibole”.

“Cosa c’è di più filosofico del succhiare lentamente il midollo di un osso schiacciato nel distruttore abbraccio finale dei molari?”

L’osso, che contiene il midollo, metafora della verità, una verità messa a nudo, tenera e commestibile. A questo proposito afferma spesso, “tutte le mie verità iniziano dalla bocca e si trasformano in uno stimolo viscerale. La mia pittura è gastronomicamente spermatica ed esistenziale”.

Per concludere con amara e inconsapevole arguzia: “So quel che mangio, non so quel che faccio.”

La ghiottoneria per Dalí ha valenze fantastiche che lui definisce intrauterine. Per esempio era convinto di ricordare l’interno dell’utero di sua madre. Un utero nel quale campeggiavano due uova fritte in padella, ma senza la padella. Queste uova diventeranno il soggetto di molti dipinti.

A questo proposito rivela: “Le mie rappresentazioni commestibili, intestinali e digestive di quell’epoca prendevano un carattere sempre più insistente. Desideravo mangiare tutto e progettavo la costruzione di un enorme tavolo fatto esclusivamente di uova sode”, di cui darà anche le istruzioni per costruirlo con uno stampo.

L’uovo, dunque, come simbolo della vita intrauterina e il pane come espressione della vita terrena. Un cibo sul quale imbastì una sorta di rivoluzione, complice Gala, la compagna della sua vita che si uni a lui lasciando Paul Eluard di cui era la moglie.

Il pane un cibo da mangiare con le dolci fave della sua terra, la regione dell’Empordà, da leccare e baciare, da tradurre in una sorta di oggetto magico, come quando fece cuocere uno sfilatino lungo quindici metri. Un pane assolutamente normale a parte la grandezza con il quale – e qui interviene l’artista – “si potrebbe tentare la rovina sistematica del significato logico di tutti i meccanismi del mondo pratico razionale”.

Per comprendere il metodo della paranoia critica, da lui elaborato e per lui scrupolosamente applicato al cibo e alla pittura, basta ricordare il titolo di alcune delle sue opere più famose, da la persistenza della memoria con i suoi orologi molli, al busto di donna con un pane sul capo.

Dal Pane francese medio con due uova al tegamino senza tegamino, in groppa, che tenta di sodomizzare la mollica di un pane portoghese del 1932. Al ritratto di gala con due due costolette di agnello sulla spalla, alla Costruzione molle con fagioli bolliti, premonizione della guerra civile del 1936, al Telefono su vassoio con tre sardine fritte a fine settembre all’autoritratto molle con pancetta arrosto del 1940.

Questo atteggiamento, per altro costante nella sua determinazione, era una provocazione sia pure buffa o nascondeva dell’altro? Leggiamo quello che di lui scrive Sigmund Freud in una lettera a Stefan Zweig, un protagonista della letteratura austriaca di quegl’anni, era il luglio del 1938. “Caro signore, bisogna realmente che io vi ringrazi delle parole di introduzione che mi hanno condotto il visitatore di ieri. Poiché fino a quel momento ero tentato di considerare i surrealisti,che apparentemente mi hanno scelto come santo patrono, come dei pazzi integrali, diciamo al novantacinque per cento, come l’alcol puro. Il giovane spagnolo, con i suoi candidi occhi di fanatico e la sua indubbia padronanza tecnica, mi hanno incitato a riconsiderare la mia opinione in realtà, sarebbe molto interessante studiare analiticamente la genesi di un quadro di tal genere. Dal punto di vista critico si potrebbe tuttavia dire che la nozione d’arte si rifiuta ad ogni estensione quando il rapporto quantitativo tra il materiale inconscio e l’elaborazione pre-cosciente non si mantiene entro limiti determinati.”

Nell’ambito del surrealismo dovremmo a questo ricordare due grandi inimitabili artiste. La prima è la poetessa di origine egiziana Joyce Mansour l’altra è la svizzera Meret Oppenheim.

Della Oppenheim tutti conoscono la sua tazza da tè con il piattino e il cucchiaino in pelliccia, meno nota, invece, è un’altra sua performance, quando in occasione dell’esposizione internazionale del surrealismo del 1959, si mescolò nuda tra le vivande dando il proprio corpo in pasto al desiderio degli uomini e delle donne raccolti attorno al tavolo per banchettare in una sorta di body sushi edipica che moltiplica la vera fame.

Passiamo ora a Marcel Broodthaers, nacque a Bruxelles lo stesso anno del primo manifesto surrealista, nel 1924, la sua personalità è così complessa che è difficile collocarlo dentro una poetica specifica.

La definizione di artista concettuale con la quale superficialmente si etichetta è un brand mercantile, il suo lavoro è intriso di surrealismo, quel particolare surrealismo che potremmo definire “belga” se questa parola avesse un senso, molto vicino al fascino segreto della poesia, da Baudelaire a Mallarmé.

Un surrealismo legato, da una parte, alla poetica dell’humour noir nella definizione di André Breton – l’Anthologie de l’humour noir è una raccolta di racconti “neri” scelti tra i classici maledetti che André Breton raccoglie e pubblica nel 1939 – dall’altra, ad un carattere analogo alla “catalanità” di Dalí, una sorta di “belgitudine”, di “frititudine”, intesa come una possibile forma d’identità materiale di questa piccola nazione che la cultura, la lingua e la ricchezza hanno spaccato in due da tempo.

Broodthaers ammira i poeti simbolisti e il grande sabotatore della vita corrente René Magritte belga come lui di una generazione più vecchio, è interessato al rapporto tra l’artista e la società, scrive poesie, poi però non esita ad annegarle in un piatto e ad esporle come sculture.

È attirato dalle “liste” e dall’accumulazione di oggetti, come Arman, uno dei protagonisti del Nouveau Réalisme, insieme, per citare un altro protagonista altrettanto importante di questa poetica, a Yves Klein di cui fu amico, ma Broodthaers non vuole drammatizzare né gli oggetti né il contesto in cui si trovano, piuttosto si adopera perché essi rivelino una vena di assurdo. Nelle accumulazioni insegue una specie di maniacalità primordiale, gusci d’uovo, mattoni e cozze.

È naturalmente attratto anche dal ready-made perché gli consente di portare alla luce le relazioni contraddittorie tra il linguaggio e l’immagine. Morirà di epatite, il malanno di chi ama troppo l’alcol.

Le sue accumulazioni di cozze che traboccano dalle pentole ricordano vagamente gli hamburger della pop-art, ma l’ironia è più sottile e metafisica. Le cozze di Broodthaers sono vocali e consonanti di una lingua che lui solo conosce e che fa da contro altare alla poesia dei gusci d’uovo. Una poesia di frammenti senza senso, senza colore, senza un valore apparente.

Di nuovo l’uovo, un oggetto che l’uomo ha simboleggiato in mille modi e in tutte le epoche, emblema primordiale del cosmo, della perfezione, del mistero, della vita.

In Belgio a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta si pubblicava una rivista d’avanguardia dal titolo suggestivo, Les Lèvres Nues, vi collaborava uno dei più grandi poeti del Novecento in lingua francese, Louis Scutenaire, anarchico di professione. La poesia che egli amò per tutta la vita lo fece vivere da povero con poco, era avvocato, difendeva i ladri che rubavano per necessità, non aveva paura della povertà e della riprovazione sociale, a questo proposito c’è un divertente aneddoto sulle uova che lo riguarda. Ospite a casa di amici si recò in una latteria per acquistare un litro di latte, ma la lattaia fu inflessibile. Niente bottiglia, niente latte. Il mite Scutenaire accetto questa logica di ferro. Un paio di giorni dopo ritornò nella stessa latteria, mise sul banco del negozio i gusci di sei uova e chiese alla lattaia, con un grande sorriso, di vendergliene una mezza dozzina.

La prima mostra di Broodthaers a Bruxelles s’intitola “Moles, oeufs, frites, pots, charbons”, si muove ancora nell’ottica di un neo-dadaismo che annovera Joseph Beuys, Cleas Oldenburg, Jim Dine, George Segal soprattutto, Piero Manzoni. Con quest’ultimo egli aveva già avuto dei contatti molto stretti, per esempio nel 1963 si erano firmati reciprocamente le opere accompagnandole da una dichiarazione di autenticità.

Ma perché questa fissazione per le “cozze”?

È una strategia che arriva da Dada, sondare la complessità ricorrendo all’arcano del banale. Si potrebbe definire una strategia letteraria di metamorfosi della sostanza, una finzione procedurale che attraverso l’assemblage degli ingredienti deve generare un sapore e in seconda istanza un gusto delle cose. Broodthaers è stato anche un cineasta d’avanguardia, uno dei suoi film s’intitola, Berlin, un rêve à la crème, in sostanza un programma alimentare.

La rivista Les Levres nues l’abbiamo ricordata perché è una di quelle poche che raccordano le avanguardie storiche e le neo avanguardie del dopoguerra. Un capitolo per certi versi ancora inesplorato. Qui è l’occasione per rilevare come tra queste ultime spicca il gruppo Fluxus ideato e voluto da George Maciunas (1931-1978), un artista lituano che visse e lavorò a New York.

Ricordiamo Fluxus sia per le sue origini legate al neo-dada sia perché come scrisse Arthur Coleman Danto, ex presidente dell’American Philosophical Association e presidente dell’American Society for Aesthetics, “ciò che distingueva Fluxus negli anni Sessanta era l’uso del cibo come arte”. Va detto però che l’intento di Fluxus mirava ad ragioni corporali, in modo speciale a “purgare” il mondo delle sue illusioni facendo dell’arte un capitolo della storia dell’uomo aperto a tutti. In breve, Fluxus voleva far regredire il mito dell’artista signore di ciò che è o non è arte, elevando l’arte ad espressione elementare di un desiderio festivo alla portata di tutti.

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