INTRODUZIONE AL CORSO DI SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE – PRIMA PARTE (2020-10-02)
Come vi è stato detto più volte in questo momento l’Italia, l’Europa, il mondo stanno affrontando una dura battaglia contro un nemico invisibile e imprevedibile, un virus sconosciuto contro il quale al momento non esistono cure.
Un nemico che colpisce tutti, senza fare discriminazioni, capace di scavalcare qualunque impermeabilità divisoria di qualunque natura essa sia, fisica, culturale, politica.
Su questo virus sono stati pubblicati a partire dal marzo scorso più di duemila articoli scientifici, ma tutti confinati nelle aree della virologia, della immunologia, della medicina, della biologia, della matematica applicata ai contagi.
Poche, invece, sono state le ricerche di tipo sociologico, eppure il distanziamento fisico e l’isolamento, anche psicologico, di centinaia di milioni di persone, tutte nello stesso periodo, può essere equiparato a un non-voluto esperimento sociale su scala globale, di grande intresse.
Detto questo, ho ritenuto opportuno, anche da un punto di vista didattico, aprire il nostro corso di sociologia della comunicazione su alcune particolarità che stiamo vivendo, ripromettendomi di tornare sull’argomento più avanti, quando certi contenuti della nostra disciplina vi saranno più familiari.
I media parlano di una crisi del fenomeno chiamato globalizzazione.
Ma è una crisi causata dal corona virus o è una crisi che il corona virus ha portato alla luce?
In tutti e due i casi siamo immersi in una contraddizione.
– Da un lato la globalizzazione ha agito come l’elemento patogeno che ha modificato le condizioni di vita di tutti, soprattutto degli abitanti della zona temperata del pianeta, consentendo al virus di diffondersi nello spazio e nei luoghi umani tramite l’interfaccia dei flussi materiali di persone e merci.
– Dall’altra questa globalizzazione ci ha permesso in modo imprevisto, ma rapido e in molti casi efficente, di ri-impostare, sia pure con disagio, la nostra socialità e i nostri modelli di lavoro.
Va aggiunto, digital divide permettendo.
Il digital divide – divario digitale – non è soltanto una questione di accesso alle tecnologie digitali perché le competenze informatiche e i vantaggi che se ne possono trarre dal loro uso – come afferma più di una indagine – sono socialmente strutturati e dipendono dal livello di educazione dei singoli e, in sub-ordine, dal reddito delle famiglie di provenienza.
En passant, notiamo che, a causa di tutto questo, molti temi sociali hanno perso di valore e molti altri diverranno rilevanti per le scienze sociali e la politica. Due di questi temi saranno:
– il nuovo impatto che i dati personali – a cominciare da quelli della salute e scolastici – avranno nelle relazioni sociali e di lavoro.
– le trasformazioni ambientali che conseguiranno all’improvvisa enorme e nuova pressione dei media digitali sulla vita corrente.
A livello di aneddotica ricordiamo che questo virus è una micro-particella con un diametro di seicento volte più piccolo di un capello che avete in testa.
In altri termini, come direbbero i paranoici della società di controllo, questa particella è sfuggita al dominio biopolitico dei centri di potere planetario o, meglio, all’intelligenza artificiale, all’internet delle cose, ai big–data, all’astuzia degli algoritmi.
Vedremo in seguito che cos’è la bio-politica.
Qualcuno potrebbe obiettare, ma non al cinema cosiddetto catastrofista, ma questa è un’altra storia ancora.
Una curiosità.
Quando avevo la vostra età gli hippies della California solevano dire: Even a paranoid have real enemies.
Abbiamo detto che, con sorpresa dei più, da tempo molti strumenti funzionali che governano i flussi di capitale, i flussi di persone e di cose, l’automazione produttiva, che gestiscono i flussi informativi e le opinioni, non sono stati in grado di rilevare lo spostamento sui territori della geopolitica convenzionale di queste particelle che hanno usato il corpo umano come vettore.
Lo ricordiamo perché, come è stato detto notato con sorpresa e disappunto, la velocità di diffusione del virus ha costretto l’evoluto mondo occidentale a provvedimenti di tipo ottocentesco, come il distanziamento tra le persone, l’igiene delle mani, il confinamento nei lazzaretti domestici.
A tutto questo, poi, è seguito un’accelerazione dei sistemi di controllo.
La nuova frontiera, oggi, non è più quella del controllo dei corpi, ma dei “micro-corpi” attraverso il contact–tracing, il tracciamento dei contatti e dunque degli infetti.
(E’ la ragione per la quale vi ho detto che i dati personali diventeranno sempre più importanti nelle ricerche sociali).
La discussione sull’uso dei dati personali – tra l’altro – ha fatto emergere le differenti posizioni politiche ed etiche rispetto all’uso che se ne fa per fini sanitari.
Queste posizioni sono sostanzialmente tre, anche se hanno diverse sfumature.
Sono il modello europeo, il modello americano e il modello asiatico.
Il modello europeo è il più vario e il più rispettoso della privacy, ma è ancora in fase di elaborazione a Bruxelles.
Quello americano è stato dettato (imposto) soprattutto dalle assicurazioni private e dalle società farmaceutiche che già hanno un forte controllo sui dati personali degli assicurati.
Queste aziende, per fare un esempio, possono già da tempo ingiungere a un assicurato di indossare un braccialetto (Fitbit) che trasmetta i dati sulla propria salute alla propria compagnia assicurativa.
Il modello cinese – paradossalmente – è il più evoluto è agisce per piattaforme digitali controllate dallo Stato. La Cina è il primo paese che ha sperimentato – con risvolti autoritari – il contact tracing, indifferente a qualunque diritto di privacy da parte dei cittadini.
Quanto al concetto di “società di controllo”, nella formulazione con la quale oggi se ne parla, data da almeno mezzo secolo ed è stata elaborata da Gilles Deleuze, un filosofo francese della scuola
de-costruttivista.
Scuola che ha avuto, alla fine del secolo scorso, una grande influenza sulla cultura americana della East Coast.
Abbiamo detto che i media digitali hanno contribuito a rendere meno catastrofico quello che sta succedendo, mediatizzando le distanze così come hanno mediatizzato molti aspetti della vita corrente un tempo solo parzialmente sottoposti all’influenza dei media, come, nel nostro caso, l’insegnamento.
Questa nuova situazione non è neutra, come vedremo meglio nelle ultime lezioni di questo corso, ha cambiato in profondità il campo dei rapporti interpersonali riconfigurandoli radicalmente.
Cosa vuol dire?
Che certi aspetti emozionali della comunicazione interpersonale – spesse volte definiti magici dai poeti – ma soprattutto la complessità semantica dell’informazione e l’emotività interattiva di un incontro sono spariti e sarà difficile, nel breve periodo, ricostruirli su nuove basi.
Sara difficile ricomporre le atmosfere di una lezione universitaria dal vivo così come ricostruire l’aurea di un aperitivo con gli amici.
Da tempo si sperimentano formule di socializzazione a distanza, ma i risultati sono problematici anche se la vita online è diventata spesso preponderante sulla vita offline, soprattutto presso le giovani generazioni.
In breve, la socialità mediatizzata, comunque strutturata, era, un tempo, una protesi tecnologica che sopperiva a certi limiti materiali della vita corrente, oggi sta per diventare dominante.
Cosa perderemo?
L’unicità che ci ha accompagnato per secoli dei processi di socializzazione e di ciò non ne conosciamo le conseguenze.
Lo ripetiamo, perché la socialità digitale non surroga la socialità della vita vissuta, ma la sta rimpiazzando.
Dunque?
Nel breve periodo i nostri comportamenti sociali subiranno sempre di più l’imprinting di quelli artificiali costruiti con la tecnologia le cui mission sono – e questo è paradossale – elaborate da aziende private sulle quali non solo noi, ma le stesse istituzioni pubbliche non hanno un controllo controllo.
Con il tempo apprenderemo a gestire queste situazioni, per adesso ci aspettano soprattutto due cose.
– imparare a gestire le nostre relazioni emotive anche a distanza, superando tutti i glitch – come gli esperti digitali chiamano gli errori.
– essere consapevoli della iper-dipendenza della socialità da piattaforme digitali in mano a poche multinazionali private.
Del resto, già da molti anni ci affidiamo a piattaforma commerciali a cui, incautamente, diamo l’opportunità di gestire i nostri dati.
Milioni e milioni di dati che costituiscono l’ossatura del fenomeno dei big-data, il petrolio del XXI secolo.
Lo vedremo più avanti, ma teniamo conto delle proporzioni.
La quantità di dati contenuti in uno yottabyte (10 alla 24 byte) equivale a più di diciotto milioni di volte quella contenuta in tutti i libri scritti nel corso della storia dell’umanità.
Concludiamo questa piccola introduzione al nostro corso con un augurio.
Di diventare, per quanto ci è possibile, degli intronauti dello spazio digitale e volgere, quello che questo ci offre, a vantaggio dei nostri studi nella speranza di tornare presto a gestire la nostra vita corrente e i nostri sogni.
Ottobre 2020.
Un’ultima osservazione. In questo momento collegate in rete, accanto a noi, ci sono più persone di quante ce ne fossero sulla terra all’inizio del 1800.
SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE
(PARTE PRIMA)
Grossomodo tutti sanno o credono di sapere che cosa sono la sociologia o le scienze sociali in generale.
In linea di massima si ritiene che siano delle discipline che studiano l’uomo e la società, le istituzioni, le relazioni sociali e i fondamenti della vita sociale.
In particolare la sociologia è comunemente definita come uno studio scientifico della società o, se si vuole, dell’azione sociale e dei rapporti intersoggettivi al fine di interpretarli.
Da un punto di vista storico o, meglio, dei processi che la strutturano e la de-strutturano la sociologia è una delle scienze empiriche (o, prasseologiche) del diciannovesimo secolo, nate, nell’alveo del positivismo come risposta ai cambiamenti innovativi e per buona parte imprevisti introdotti dalla modernità.
Davanti a un mondo, che, da una parte, appariva sempre più piccolo e integrato e, dall’altra, a un’esperienza della realtà sempre più complessa e dispersiva, la sociologia rappresentava la speranza non solo di capire che cosa univa tra di loro gli individui e i gruppi sociali, ma anche di rimediare alle molteplici forme di conflitto sociale e culturale in atto.
Va notato che a ragione della sua natura per molto tempo fu una disciplina del mondo occidentale elaborata da una cultura permeata di eurocentrismo e istanze colonialiste.
Solo dopo due guerre mondiali e l’inizio del fenomeno della globalizzazione si diffuse nel resto del mondo, non senza qualche difficoltà interpretativa che, in alcuni casi, giunse fino al suo rifiuto o a una sua radicale revisione.
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Oggi la sociologia rappresenta, da un lato, uno dei più efficaci paradigmi per la comprensione della complessità, che caratterizza il mondo moderno.
Dall’altro, costituisce uno degli strumenti più utilizzati per sondare il modo di formarsi della cultura, dei valori, degli stili di vita e insieme dei nuovi mutamenti sociali, come sono la globalizzazione dei mercati, l’affermarsi delle società multi-etniche, l’incidenza dei mass-media sugli stili di vita, i costumi, le abitudini e l’avanzare nella socialità delle tecnologie digitali.
Uno degli obiettivi è di illustrare le dinamiche che spiegano il divenire delle esperienze, delle passioni e del fare degli uomini con la cultura dei segni, delle forme sociali e delle neo-tecnologie che dominano la modernità e le sue rappresentazioni.
Così come di educare gli uomini a decifrare i significati del mondo reale e del vissuto, che si nascondono dietro le architetture della rappresentazione sociale e dei suoi simulacri.
In sostanza la sociologia si occupa della società come un prodotto umano e dell’uomo come un prodotto sociale.
È per questo che,in passato, èstata definita come la scienza dei fenomeni sociali.
C’è da aggiungere che oggi, sempre più spesso, le teorie sociologiche sono – da molte scuole di pensiero – trattate ed usate ed come se fossero degli strumenti ideologici per adattare il comportamento degli uomini ai bisogni dell’epoca e ai suoi oggetti sociali.
In una prospettiva politica è come dire che le diverse sociologie, in cui si divide lo studio della società, sono diventate dei mezzi con i quali si spiega e si legittima l’ordine sociale, sia esso improntato alla conservazione, che al progresso e all’innovazione.
Va anche osservato che, per le scienze sociali, un fenomeno sociale è caratterizzato dalla proprietà di esistere al di fuori delle coscienze individuali, gl’individui se li trovano di fronte come delle realtà che preesistono loro e che spesso sono indifferenti alla loro opinione.
In secondo luogo, i fenomeni sociali sono anche dotati di un consistente potere imperativo e coercitivo in forza del quale s’impongono agli individui con o senza il loro consenso.
In questo corso dedicheremo molto spazio alla comunicazione digitale. A questo proposito ricordiamo che la Goldsmiths University di Londra – specializzata nelle arti, nelle scienze umanistiche e sociali – ha fin dal 2013 istituito i primi corsi di laurea magistrale in Sociologia Digitale, corsi orientati soprattutto nell’analisi degli usi di questo nel configurare la soggettività, la corporeità e le relazioni sociali e nell’analisi dei Big Data nella costruzione di strumenti di sorveglianza e controllo della privacy.
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Il termine di sociologia fu coniato nel 1824 dal filosofo francese Auguste Comte (1798-1857) che, nel suo Corso di filosofia positiva, pubblicato nel 1839, la impiegò al posto di un’espressione che abbiamo già ricordato, quella di fisica sociale.
Un’espressione che era nata nella seconda metà del ‘700 per definire lo studio positivo delle leggi fondamentali proprie dei fenomeni sociali.
Questa idea di una fisica sociale, come strumento per studiare gli uomini, servirà a rivoluzionare un certo modo di vedere il mondo.
A capovolgere certezze centenarie e a seminare il dubbio là dove gli antichi saperi costituiti avevano i loro capisaldi, edificati – il più delle volte – sulla sabbia dei luoghi comuni e delle illusioni religiose.
Il termine positivismo (che compare nel titolo del libro di Comte) fu impiegato per la prima volta da Claude Henri conte di Saint–Simon (1760-1825) per definire un metodo esatto, dal punto di vista scientifico, con il quale fosse possibile affrontare i temi con i quali la società e gli uomini devono in continuazione misurarsi.
L’idea da cui questo metodo prese il via è contenuta nelle tesi dell’Illuminismo francese.
In generale si può dire che il positivismo contribuì a divulgare i principi e la necessità di una organizzazione scientifica della società (soprattutto di quelle industriali) dando un senso ad un grandissimo fenomeno, sociale, politico ed economico del mondo occidentale, il fenomeno della tecnica, intesa come una scienza dei mezzi, che si materializza nella tecnologia dando vita a quella che fu definita la civiltà manifatturiera.
Per i positivisti la scienza è l’unico strumento di conoscenza reale (dunque, possibile) del mondo da cui ne consegue che solo i principi scientifici e le cause analizzabili con il metodo delle scienze possono dare origine alla conoscenza.
Come mostra la storia delle idee oltre che nel discorso
delle scienze dell’uomo, il paradigma del positivismo
(nel corso dell’Ottocento) penetrò nella medicina, nella politica, nella
giurisprudenza, nell’insegnamento, nell’economia, nella filosofia e in molte
altre discipline operative.
In questo senso il concetto di sociologia rimanda a un discorso sull’individuo
inteso come un membro della società, quindi a una disciplina che studia il fondamento dei rapporti
intersoggettivi come se fossero una scienza, cercandone un senso, una ragione,
un obiettivo sociale.
NOTA.
Nella scia delle teorie formulate da Auguste Comte, tra i molti autori, ricordiamo Herbert Spencer (1820-1903), un filosofo inglese di orientamento positivista, con grandi interessi per la psicologia. Spencer è considerato il padre della filosofia evoluzionistica, con lui e per la prima volta, le teorie di Charles Darwin (1809-1892) sull’evoluzione sono applicato alle scienze sociali.
L’evoluzionismo – considerato come una visione laica del mondo – ha avuto, nell’ambito del discorso sociologico, il merito di focalizzare l’attenzione sul legame tra passato, presente e futuro.
Possiamo dire che ha sottratto il passato al suo destino di storia morta, facendolo apparire come un materiale vivente, o con un’immagine positivista, come il materiale geologico con cui l’umanità costruisce il suo presente, cerca d’immaginare il suo avvenire e gli dà un senso.
Un senso che non deve avere le stigmate di un destino ineluttabile.
Una curiosità. All’evoluzionismo si oppone il Creazionismo, una concezione filosofica e religiosa che attribuisce l’origine del mondo a un atto creativo compiuto da Dio.
In una prospettiva scientifica, il creazionismo è la dottrina che nega l’evoluzione delle specie viventi (come per primo furono descritte da Darwin) sostenendo che esse sono state create da Dio così come sono e tali sono rimaste attraverso i secoli.
Insieme a Spencer un altro autore da ricordare è John Stuart Mill (1806-1873), filosofo ed economista inglese, studioso di un particolare capitolo delle forme economiche, quelle legate ai temi dall’utilitarismo.
L’utilitarismo, in estrema sintesi, è una dottrina che ha l’obiettivo di elaborare
i modelli di comportamento economico che guidano le scelte
individuali.
Di per sé le tesi sull’utilitarismo sono molto antiche, si possono addirittura
far risalire a Epicuro, vale a dire, al quarto secolo circa prima
dell’era comune, ma diventarono importanti dopo la rivoluzione industriale.
L’utilitarismo elaborato da Mill tende a legare il bene con l’utile e a trasformare l’etica e le forme della morale, in una scienza della condotta umana.
Aggiungiamo che Mill in Inghilterra è ricordato con una certa simpatia, soprattutto dalle femministe, perché fu uno strenuo partigiano del diritto delle donne al voto.
Sempre per restare nell’ambito dell’utilitarismo inglese è importante ricordare un altro suo padre nobile, Jeremy Bentham (1748-1832).
Bentham è un filosofo riformatore, fautore, in sede
politica e legislativa, di un grande disegno organico di riforme sociali
fondate sul principio dell’equità.
Questo filosofo è molto conosciuto nei paesi di lingua
inglese come il filosofo della felicità,
per aver posto questo sentimento a guida e a motore dell’azione degli
uomini.
Le sue tesi possono essere riassunte in questo principio: Il dovere dei legislatori, vale a dire dei parlamenti e dei governi, è quello di assicurare il massimo della felicità possibile al maggior numero possibile di individui.
Ricordiamo che la parola felicità compare come un diritto inalienabile dei cittadini insieme alla vita e alla libertà nella Dichiarazioned’Indipendenza Americana del 4 luglio 1776.
È una prova della popolarità delle tesi di Bentham (quando ancora era ancora in vita) nell’area dei paesi anglofoni.
Tornando a Mill. Per questo filosofo la sola conoscenza possibile è quella empirica e è il metodo della logica deve guidarla.
Cioè, un metodo per creare inferenze
(l’inferenza in logica è un processo per trarre conclusioni dai fatti presi in
esame) fondato sull’induzione e la deduzione e, in sub-ordine, sull’abduzione (che è una sorte di sillogismo
debole), improntato ad un certo realismo metodologico.
Temi che Mill
affrontò in un libro famoso, intitolato Sistema della
logica deduttiva e induttiva, uscito a Londra nel 1843.
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Riconsideriamo quello che abbiamo detto da un altro punto di vista, più antropologico partendo dalla considerazione che nelle cosiddette società primitive o tribali non esisteva il problema di dover riflettere sui fondamenti dell’ordine sociale.
NOTA: In antropologia culturale primitivo significa non evoluto o, meglio, evoluto in modo diverso.
Le forme primitive e le forme evolutive dipendono dall’ambiente, dal clima e dalle circostanze culturali.
I rapporti interpersonali all’interno di queste società erano basati principalmente sui vincoli di sangue, di latte, di parentela e, non da ultimo, su legami di natura magica o sacra.
Erano società semplici, con strutture organizzative elementari, poco dinamiche, con scambi e contatti ridotti con le altre realtà sociali esterne ad esse, anche se spesso improntati a una certa conflittualità.
Tutto questo con l’evoluzione andò in crisi soprattutto per due circostanze:
– La prima circostanza è la crescita demografica, che si ebbe grazie alla diffusione e allo sviluppo delle culture cerealicole a cominciare da quella regione che oggi viene definita della mezzaluna fertile.
Un territorio che corrisponde grossomodo all’area medio-orientale e, conseguentemente, con la nuova complessità sociale che questa crescita comportò con l’aumento delle nascite.
Nella storia dell’uomo la cosiddetta svoltacerealicola anticipa la nascita delle città. Fece aumentare i tassi di natalità e stabilizzò i nuclei familiari che poterono contare sulla certezza di potersi nutrirsi.
NOTA: Un libro interessante su questi temi e per il tipo di studi che si tengono allo IED è La città e la storia (1963)di Lewis Mumford.
Mumford è stato un sociologo e urbanista americano (1895-1990). Ha tenuto corsi nelle università Harvard e Yale. É noto per aver riformulato un’interpretazione socio-urbanistica della città industriale e della sua crisi. Studiando il riflesso della storia della società sulla città, ha radicalmente trasformato il significato dell’urbanistica. Tra le sue opere: The story of utopias (1922; trad. it. 1968). Technics and civ ilization (1934; trad. it. 1961). The culture of cities (1938). The condition of man (1944; trad. it. 1964). The city in history (1961).
– La seconda circostanza si ebbe con il diffondersi dei commerci, dei viaggi e dei trasporti, che misero in crisi le strutture di tipo ancestrale e stanziali.
Questa crisi gli storici la fanno grossomodo risalire, per quanto riguarda l’area del Mediterraneo, all’ottavo/settimo secolo prima dell’era comune, a partire dalla Grecia, che allora esprimeva un modello di società evoluta.
Sono gli anni che vedono la nascita delle polis, delle città-stato.
Forme urbane che, sia pure in forma embrionale, svilupparono al loro interno delle configurazioni sociali complesse, in continua trasformazione, spesso concorrenti tra di loro.
Da un punto di vista funzionale, in queste città–stato l’organizzazione comunitaria cominciò a faticosamente ad organizzarsi intorno a due temi contrapposti, quello della solidarietà sociale e quello dell’interesse economico.
La questione più importante è che queste micro-società diventarono, con il tempo, dinamiche, e si caratterizzarono per un costante mutamento evolutivo.
Tutto il contrario delle società primitive. Società statiche, lente, fondate su valori considerati sacri, su valori condivisi, che si ritenevano divini, eterni e indiscutibili.
In particolare, la città-stato greca è tra queste estremamente articolata, fluida e in qualche misura laica.
Dalla polis, poi, scaturì la tà politikà, la scienza degli affari pubblici, la politica.
Questa politica possiamo definirla come la scienza (o la tecnica) dei problemi che riguardano la polis dal punto di vista dell’esercizio del potere nel quadro della forma di Stato, sia pure embrionale.
Problemi che erano la conseguenza e il riflesso di due preoccupazioni principali.
– Come sviluppare nuove forme di legittimazione e di delega per coloro che dovevano guidare la polis, in pratica, esercitarne il governo.
È quella che oggi chiamiamo il tema della rappresentanza.
– Come trovare e definire quelle regole che, se osservate da tutti, garantiscono la pace sociale e fanno prosperare il cosiddetto bene comune.
Facendo un salto di secoli, diciamo che è dallo sviluppo di queste considerazioni che, molti secoli dopo, nasce e si sviluppa la teoria contrattualistica della società.
Uno dei suoi artefici principali fu il filosofo inglese, Thomas Hobbes (1588-1679).
Hobbes aveva studiato a Oxford ma la sua formazione fu caratterizzata dai suoi continui contatti con l’ambiente culturale europeo.
Visse a lungo a Parigi, dove conobbe Cartesio.
La sua opera più importante, tra i molti libri che scrisse, fu il Leviatano, pubblicato nel 1651.
In linea generale si può dire che la filosofia di Hobbes
rappresentò, nel XVII secolo, un’alternativa alla filosofia di Cartesio, non
solo perché la filosofia di quest’ultimo era legata alla meta fisica, mentre quella di Hobbes era legata a presupposti
materialistici, ma perché i due filosofi attribuiranno alla ragione capacità
cognitive diverse.
In breve, diciamo che Cartesio, a differenza di Hobbes, era fiducioso
nell’esercizio della ragione.
La filosofia di Hobbes ha come obiettivo quello di porre i fondamenti per una società pacifica e ordinata che lui pensava fosse possibile solo grazie ad un potere assoluto dello stato, allora impersonato da un monarca.
Hobbes era convinto che fosse inutile una filosofia basata sull’astrazione filosofica, perciò cercò di creare una filosofia puramente razionale, che escludesse il soprannaturale, che in qualche modo liquidasse ciò che era stato affermato dagli autori antichi.
Una filosofia che prendesse spunto esclusivamente dalle leggi della natura.
Egli fu il primo filosofo ad affermare, in modo chiaro e convincente, l’assoluta necessità di una scienza politica, considerato che l’uomo è un animale egoista.
Il punto di partenza di questa teoria contrattualistica è
l’affermazione che il mondo dell’agire umano è retto da leggi analoghe a
quelle dell’ordine naturale.
Se questo è vero, pensava Hobbes, si può arrivare a sviluppare una scienza
della società umana che ha la stessa oggettività delle scienze esatte, come la
geometria o la fisica.
Da questa considerazione ne deriva il convincimento che la società e il potere politico non sono affatto naturali per l’uomo, ma costituiscono una convenzione (un compromesso) per mettere fine allo stato d’insicurezza permanente che caratterizza lo stato di natura.
In breve per Hobbes le origini della società devono essere fondate su un patto, su di una specie di contratto liberamente sottoscritto (accettato) da chi vive in quella società.
Poi, attraverso la rappresentanza politica, gli uomini – per sottrarsi al disordine dello stato di natura come stato a-sociale, caratterizzato dalla lotta di tutti contro tutti (homo homini lupus est) – convenirono (come male minore) di sottoporsi al governo di un sovrano assoluto.
Può apparire – per certi versi – una teoria semplicistica che non va però sottovalutata, soprattutto alla luce delle implicazioni che ne derivarono.
Le due principali sono:
1 – Se pensiamo la società in questo modo essa diventa una costruzione storica,
un prodotto positivo, privo di una sua necessità ontologica (a limite anche teleologica)
o di un destino, cioè, di “un dover essere così”…per volere di Dio o di un ente
superiore.
2 – Poi, come sosterranno le correnti illuministiche
settecentesche, se la società scaturisce da un patto tra gli uomini, questo patto si può anche rivedere e, magari,
riformulare più o meno radicalmente.
Poi, nulla esclude in teoria, come ne dedussero i movimenti riformisti, che la
revisione di questo patto possa avvenire anche con una rivoluzione, che fu il sogno di molti uomini
dell’Ottocento europeo e di tutti i movimenti politici d’ispirazione
socialista.
L’altro grande protagonista di quel pensiero della politica che trasformerà per sempre la cultura occidentale è Charles-Louis di Montesquieu (1689-1755), filosofo e saggista francese.
Con Hobbes rappresenta il fondatore della dottrina politica moderna, colui che per primo formulò la teoria della divisione dei poteri.
La sua opera maggiore, De l’esprit des lois, fu pubblicata a Ginevra nel 1748.
Scrittore prolifico di lui vanno ricordate almeno le Lettres persanes, che uscirono anonime a Amsterdam nel 1721, in cui tratta, in modo letterario, utilizzando la forma del romanzo epistolare, molti motivi tipici del suo pensiero politico, come la polemica contro le dispute religiose e l’intolleranza, la funzione morale e sociale della religione, il rifiuto del dispotismo, la difesa dei parlamenti come garanzia di libertà.
Ne l’Esprit des lois egli scrive, “molte cose guidano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime di governo, le tradizioni, i costumi, le usanze. Dalla confluenza di queste cose si forma uno spirito generale, che ne è il risultato”.
Egli realisticamente distingue tre tipi di governo possibile: repubblicano, monarchico, dispotico.
In particolare il governo repubblicano, poi, può essere democratico o aristocratico.
Il governo aristocratico, però, distingue tra nobili e popolo o, meglio, i nobili formano una classe che per difendere i propri interessi reprime il popolo.
Da qui la necessità di una scienza della politica che distingua e renda autonomi i tre poteri che possono difendere la libertà e l’equità.
Sono:
– il potere legislativo.
– il potere esecutivo.
– il potere giurisdizionale o giudiziario.
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Facciamo un altro passo in avanti.
Il Settecento fu il secolo dell’Illuminismo e degli enciclopedisti francesi che sommariamente, si può dire, raccolsero e svilupparono l’eredità dell’empirismo inglese.
L’Illuminismo è caratterizzato dalla convinzione che si possono risolvere i problemi della società con i soli lumi della ragione e a dispetto di ogni rivelazione religiosa o di ogni tradizione.
È il secolo di Diderot, D’Alembert, Rousseau, Helvétius, Voltaire e dei primi filosofi materialisti come Paul-Henry barone d’Holbach, per ricordarne qualcuno.
Intrecciamo adesso la domanda relativa a quando è nata la sociologia con quella che si interroga sulle ragioni della sua comparsa.
Questo perché occorre capire, prima di procedere, le motivazioni per le quale la sociologia e, in generale, tutte le scienze sociali e/o empiriche ( prasseologiche) hanno avuto la loro culla nel corso dell’Ottocento.
Sono scienze che nel loro specifico campo di studi, ereditano, sia pure in misura diversa, il patrimonio della filosofia classica e in un certo senso, i suoi progetti.
Nel complesso queste scienze rappresentano il tentativo di reagire ad una crisi di portata epocale, la crisi del pensiero metafisico, cioè, di quel discorso ideale sulle cose del mondo che si pone oltre la fisica e oltre gli aspetti materiali della mondanità.
Diciamo che la metafisica è una dottrina filosofica che si auto-definisce come una scienza della realtà assoluta, capace di fornire una spiegazione delle cause prime della realtà prescindendo da qualsiasi dato dell’esperienza.
In breve la metafisica è quella parte della filosofia che, andando oltre gli elementi contingenti dell’esperienza sensibile, si occupa degli aspetti ritenuti più autentici, sacri e fondamentali della realtà, da qui il suo stretto rapporto con la teologia, con la scienza del divino.
Questa crisi della conoscenza corre parallela alla nascita dell’idea di modernità che, per convenzione, la maggior parte degli storici fa risalire alla Rivoluzione francese, vale a dire al 1789.
Una delle prime definizioni di modernità la si trova in un testo di Honoré de Balzac (1799-1850), essa indica la presa di coscienza della singolarità dell’epoca, in materia letteraria ed artistica, in rapporto al passato.
NOTA: Il termine di modernità (modernité) è stato utilizzato per la prima volta dal poeta francese Charles Baudelaire. Per Baudelaire indivava la sfuggevole ed effimera esperienza della vita condotta all’interno della metropoli e della città, e anche la responsabilità che l’arte ha di catturare quell’esperienza e di esprimerla nelle forme più suggestive ed originali.
Poi, per estensione, la modernità è diventata il carattere proprio di un mondo, di una società, di un’epoca, che ha avvertito, spesso con angoscia, come il passato non rinvia più a nulla.
C’è un’idea di modernità che ci interessa in modo particolare.
È quella che riguarda il mondo delle arti.
Nasce in Francia con il Secondo Impero (1852-1870) in opposizione all’arte accademica – in seguito definita uno stilepompier – è un’arte indipendente che si proclama realista e che conosciamo meglio nella sua evoluzionedefinita impressionista.
In nome della modernità il realismo opera una serie di rotture sia storiche che politiche.
In politica da vita al radicalismo, i pittori realisti o naturalisti sono repubblicani e si oppongono ai disegni imperiali di Napoleone III.
C’è una rottura nell’ambito dell’estetica. Questi artisti detestano le grandi scenografie mitologiche e le maestose mitografie dei pittori accademici, rivendicando la bellezza semplice della natura e del corpo umano.
Nell’ambito della questione sociale il realismo da vita a una serie di rivendicazioni che salgono dal basso. I suoi protagonisti provengono – salvo qualche eccezione – dal popolo, difendono la democrazia e detestano la cultura aristocratica al potere.
Nel modo di pensare l’ambiente, rivalutando la campagna contro il moltiplicarsi degli appetiti dell’industria e del capitale manufatturiero che sta cambiando la geografia del territorio.
Sul tema della modernità ricordiamo che qualche anno fa un sociologo di origini polacche, Zygmunt Bauman, ha introdotto il concetto di modernità liquida (il saggio omonimo Liquid Modernity è del 2000, la traduzione italiana del 2006) nel tentativo di spiegare la post-modernità.
Per Bauman la modernità liquida è una metafora di quel potere che è capace di dissolvere le tradizioni, le istituzioni,gli stili di vita e perfino la stessa morale, tipico del capitalismo globalizzato e digitalizzato.
Questa modernità si caratterizza per l’impossibilità degl’uomini di individuare dei punti di riferimento stabili – necessari alla costruzione di una propria identità sociale – e nell’ansia che ne consegue, un’ansia che si invera nel concetto di precarietà economica e dei valori morali.
Proseguiamo. Dal punto di vista delle scienze sociali la crisi della conoscenza classica si colloca tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento.
Sono gli anni in cui si conclude la parabola storica dell’Illuminismo, che aveva mostrato come il mondo che abitiamo fosse più complesso di quello che sembrava e ancora per buona parte inspiegato.
Una inspiegabilità che metteva in luce come, con il proseguire della conoscenza sperimentale, tutte le idee semplici ed astratte e tutte le invocazioni della fede religiosa non servissero più a nulla.
In altre parole, con la Rivoluzione francese giorno dopo giorno l’antico affresco del mondo, che era stato dipinto a cominciare dalla filosofia greca, va in pezzi dando vita a tutta una serie di tentativi per porvi rimedio.
Generalmente si chiamano conservatori o reazionari gli sforzi impiegati a ricomporlo e progressisti o rivoluzionari quelli impiegati per approdare a nuovi e più avanzati equilibri.
Ma, c’è anche un fatto nuovo, decisivo per il mondo Occidentale, l’avanzare prepotente in tutti i campi della vita corrente, dagli affari alla politica, dalla morale al governo delle nazioni, di una nuova classe sociale, quella che di fatto aveva vinto la Rivoluzione francese e che adesso esigeva che le venissero riconosciuti quei diritti per i quali aveva preso le armi: la borghesia.
Com’è noto, il 14 luglio 1789 il popolo di Parigi prese d’assalto la Bastiglia, ma nel suo diario Luigi XVI, quello stesso giorno scrisse una sola parola: Rien.
Siccome le idee non cascano dal cielo, ma si formano e si sviluppano tra gli uomini, una tale rottura epocale – che questo aneddoto descrive in modo vivido e che da vita alle convulsioni della modernità – è soprattutto il prodotto di questa nuova classe in ascesa.
Giocoforza, la sociologia, come scienza della società, non poteva nascere in un altro momento.
Questa disciplina era funzionale ad un rinnovato modo di vedere il mondo, rispondeva alle aspettative di una classe sociale alla ricerca di un’identità all’altezza della sua storia e del suo potere economico, fino al punto che non solo ne esprimeva i caratteri, ma arrivava a rafforzarla nelle sue consapevolezze e nelle sue determinazioni, in prospettiva, nei suoi errori.
La sociologia, soprattutto al suo esordio, ha poi contribuito a diffondere, perlomeno tra le classi dominanti, due grandi miti dell’Ottocento:
– il mito della tecnica, più specificatamente, della macchina.
– il mito del progresso (o, dell’idea di progresso), come speranza di un futuro radioso per un numero d’individui sempre più numeroso.
Questo secondo mito rappresentava una fiducia, per molti illimitata, per altri ingenua, nell’avanzamento continuo e instancabile della scienza e con essa delle condizioni materiali e spirituali dell’umanità.
Una curiosità. Ritroveremo questi due miti nel motto dell’Esposizione Universale di Chicago del 1933: “La scienza trova, l’industria applica, l’uomo si adatta”.
Abbiamo accennato a come il positivismo abbia in qualche modo orientato, nel corso dell’Ottocento, le principali ricerche intorno al tema della società e delle sue leggi, mentre alle sue spalle si scolorivano e si dissolvevano le strutture e i valori tradizionali dell’Ancien Régime.
In questo contesto maturarono molte ricerche e si aprirono, spesso in modo caotico, confronti e dibattiti su concetti, teorie o riflessioni che oggi appaiono popolari, ma che allora sembravano irriverenti, improponibili, blasfemi o addirittura intoccabili.
Per esempio:
Si cominciarono ad affrontare i temi del rispetto culturale dell’Altro, come individuo. Dei popoli come una forma sociale d’identità d’accettare e comprendere.
Nacque la cooperazione internazionale come strumento per avviare un sentire comune delle differenze culturali, sociali e politiche.
Si cominciò a sviluppare l’idea di nazione e di solidarietà sociale.
Si diffuse il principio della necessità di assistere gli indigenti e i malati, diventò popolare l’idea di consenso, come base della democrazia, la pratica del suffragio elettorale per eleggere i parlamenti.
Si cominciò a riconoscere il diritto al voto per le donne.
Molti paesi europei introdussero il divorzio che, implicitamente, trasformava il matrimonio da sacramento divino a un semplice contratto tra un uomo e una donna. Un contratto che poteva essere sciolto. La legge italiana è del 1970.
Si cominciò a riflettere sulla necessità di un controllo delle nascite.
Come si osserva sono temi che ancora oggi costituiscono (o, dovrebbero costituire) la spina dorsale delle democrazie occidentali.
Temi che si raccordano con la contemporaneità che viviamo.
Secondo i sociologi e i politologi questa società contemporanea si caratterizza per almeno tre aspetti:
– Una spinta globale all’interconnessione attraverso dei sistemi di rete sempre più estesi all’intero pianeta.
– Una evoluzione degli stili di vita sempre più rapidi e profondi che sono, per la prima volta nella storia dell’uomo direttamente legati all’innovazione tecnologica post analogica.
– Una trasformazione dell’ambiente e dell’habitat di un’ampiezza senza precedenti dovuta a dei fattori evolutivi di natura sociale, culturale, economica e tecnologica.
Quello che più conta è che questi mutamenti sono di natura irreversibile e coinvolgano direttamente tutti, sia pure in modi differenti, a partire dal quotidiano, cioè, dal nostro modo di concepire la convivenza umana.
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Qualche nota sul concetto di cultura.
Prendiamo adesso in considerazione un concetto chiave degli studi sociologici. Il concetto di cultura.
Prima di esaminarlo, vediamo come l’UNESCO l’ha definita nella “Dichiarazione di Messico City” sulle politiche culturali del luglio-agosto 1982.
La cultura nel suo significato più ampio è considerata come l’insieme dei tratti distintivi, spirituali, materiali, intellettuali ed affettivi, che caratterizzano una società, un gruppo sociale o un individuo.
Subordinata alla natura essa ingloba, oltre che l’ambiente, le arti e le lettere, i modi di vita, i diritti fondamentali dell’essere umano, i sistemi di valore, le tradizioni, le credenze (in buona sostanza le religioni) e le scienze.
Di fatto, si volle riconoscere che ogni società umana possiede una propria cultura che si distingue dalle altre e va rispettata.
Questa cultura, però, deve saper ammettere l’esistenza delle altre culture e al limite accoglierle.
Questo multiculturalismo è l’espressione di una speranza, che le culture siano riconosciute, s’incontrino, si mescolino, si misurino e, soprattutto, si trasformino e si evolvano.
Il problema è che in questa fase della globalizzazione digitalizzata nessuno sa ancora dire se questa evoluzione si muoverà verso una maggiore diversità, verso delle nuove diversità o verso una omologazione delle culture più o meno importante.
A parte questo, la definizione di cultura nelle scienze sociali è sempre stata oggetto di ampi dibattiti.
Il motivo non è difficile da comprendere perché i suoi diversi significati non riflettono solo una diversa visione del concetto di cultura in sé, ma una differente valutazione della realtà.
Al centro del significato di cultura, nel corso della seconda metà del Novecento, ha guadagnato importanza da una parte il concetto di vita corrente (vale a dire dei ruoli, delle aspettative, delle credenze, dei miti, dei riti e di tutte le pratiche che strutturano l’agire quotidiano), dall’altra, la sua natura di congegno cognitivo per dare un significato al mondo e farne emergere le identità che lo compongono, sia pure nelle loro diversità.
Gli sviluppi recenti degli studi sul concetto di cultura hanno poi posto l’attenzione sui limiti delle definizioni di natura statica perché, se da una parte sono in grado di descriverne gli aspetti, dall’altra acuiscono e moltiplicano le differenze, facendo sembrare le culture delle entità astratte nelle quali appare svalutato lo spazio che possiedono le autonomie individuali o i piccoli gruppi.
James Clifford, un antropologo americano della corrente definita de-costruttivista (insegna storia della conoscenza in California) ha introdotto, sulla scia di queste osservazioni, l’ipotesi che la cultura non è un bagaglio di modelli definiti, ma un insieme di possibilità e vincoli che strutturano la realtà in un processo dinamico, una realtà che si alimenta di una continua ibridazione anche con altre culture.
NOTA: Il decostruzionismo statunitense. − Risale alla metà degli anni Sessanta (1966, anno del convegno organizzato dalla Johns Hopkins University su The languages of criticism and the science of man, con interventi, tra gli altri, di G. Poulet, L. Goldmann, T. Todorov, R. Barthes, J. Lacan, J. Derrida, N. Ruwet) l’interesse più marcato della critica statunitense verso le posizioni teoriche di Derrida e di altri esponenti del post-strutturalismo europeo, soprattutto francese, che dà vita, nell’ambito della critica letteraria, alla cosiddetta ”scuola di Yale” o Yale Critics: un gruppo di docenti − P. de Man, G. H. Hartman, J. H. Miller, H. Bloom − presenti in quegli anni a Yale, generalmente accomunati nell’indirizzo decostruzionistico pur provenendo da esperienze culturali diverse ed esprimendo istanze metodologiche assai differenziate.
Il quadro di riferimento entro cui si colloca la multiforme esperienza decostruzionistica nel mondo accademico statunitense degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta è costituito da un lato dal distacco se non dall’aperta polemica contro il New Criticism degli anni Venti e Trenta (J. C. Ransom, A. Tate, C. Brooks, R. P. Warren, W. K. Wimsatt), il cui influsso perdura negli USA fino agli anni Cinquanta, dall’altro da una dichiarata insoddisfazione nei confronti del formalismo critico di ispirazione strutturalistica. In linea di massima, la messa in discussione delle teorie e metodologie della critica letteraria, dal formalismo allo strutturalismo, dai new critics alla fenomenologia e alla critica simbolica e archetipica, contrassegna il d. statunitense, in sintonia o in dialogo anche polemico con le tesi derridiane che ne costituiscono comunque il punto d’avvio, comportando, sul versante più propriamente critico, una massiccia rivalutazione del Romanticismo e della letteratura romantica angloamericana.
In sostanza si è passati da una visione di cultura come “roots” (radici) ad una come “routes” (percorsi).
Una definizione analoga è quella elaborata dell’antropologo americano Clifford Geertz (1926-2006), il quale accomuna, per analogia, l’idea di cultura a una rete di significati che gli individui hanno creato e continuano incessantemente a ricreare, trasformandola.
Una rete nella quale essi sono allo stesso tempo i protagonisti e i compromessi.
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Un approccio critico alla nozione di cultura è quello rappresentato dalla Scuola di Francoforte (tra coloro che ne fecero parte ricordiamo tra gl’altri, Adorno, Horkheimer e Marcuse) che, su questo tema, ha elaborato i concetti di industria culturale e di cultura di massa.
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La Scuola di Francoforte è costituita da un gruppo di studiosi che indirizzarono i loro sforzi intellettuali, intorno agli anni Trenta del secolo scorso, verso i temi della filosofia e della sociologia in riferimento alla vita corrente. Il luogo nel quale svilupparono le loro ricerche fu l’Istituto di Ricerche Sociali, con sede all’interno dell’Università di Francoforte.
Il tema centrale, oggetto di studio dell’Istituto, fu definito la teoria critica della società.
Con questa espressione è indicata quella elaborazione intellettuale tesa a criticare l’ideologia capitalistica, evidenziandone le falle interne, con l’intento di offrire modelli d’interpretazione alternativi.
Theodor Adorno, come la maggior parte dei suoi colleghi, dovette abbandonare Francoforte in seguito alle politiche repressive naziste, fuggì prima a Parigi e successivamente a New York. Assieme a Horkheimer scrisse il libro Dialettica dell’Illuminismo.
Il pensiero sociologico che elaborarono ruota attorno a tre punti:
– il concetto di razionalità strumentale, ovvero l’abuso degli ideali illuministi da parte del capitalismo, con lo scopo di aumentare il consenso e il controllo sull’uomo.
– l’industria culturale, cioè la sistematica opera di omologazione e appiattimento delle diversità degli uomini, al fine creare bisogni sempre più uguali con l’aiuto indispensabile dei massmedia.
– il mito della personalità autoritaria, a partire da alcune tesi di Horkheimer, che dà alla famiglia la responsabilità maggiore nella creazione di un consenso acritico al sistema.
Molti autori della Scuola di Francoforte focalizzarono la loro attenzione sul concetto di industria culturale per indicare la produzione omologante di modelli culturali, attraverso i media e l’industria, che favorirebbero una cultura e una società massificata, ovvero uniformata, senza stimoli, priva di creatività. Una cultura destinata a raggiungere il maggior numero di persone, e quindi per logica di cose omogeneizzante.
Un’altra importante scuola di sociologia, quella di Chicago, partendo dall’analisi dei modelli culturali degli emigrati studiò i processi d’ibridazione culturale, arrivando a mettere in luce la loro relativa dinamicità e autonomia nell’ambito di quel fenomeno che va sotto il nome di meltingpot.
Questa Scuola dellEcologia Sociale Urbana, nota come Scuola di Chicago, dalla sua sede, è stata la prima negli USA indirizzata allo studio delle scienze sociali. .
Essa riunì un ampio numero di studiosi che operarono soprattutto nei primi tre decenni del XX secolo.
La nascita ufficiale della scuola risale al 1924, quando Robert Park si insediò nel Dipartimento di sociologia dell’università.
Essa affrontò uno studio sistematico della città dal punto di vista sociologico attraverso la ricerca sul campo dei caratteri della società urbana.
In particolare Robert Park, studiò la diversa incidenza di fenomeni come la devianza, la criminalità, il divorzio, il suicidio tra le aree urbane e quelle rurali, dimostrando che i rapporti sociali e culturali sono strettamente condizionati dall’ambiente di appartenenza.
Si può dire che dagli anni venti fino agli anni trenta, la sociologia urbana fu prevalentemente sinonimo del lavoro della scuola di Chicago.
I sociologi dalla seconda metà del ventesimo secolo hanno poi sollevato più di una critica sul suo approccio gnoseologico che enfatizza la dimensione politica.
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Per riprendere il discorso diciamo che, in linea generale
gli sviluppi più recenti della sociologia della cultura, in relazione
soprattutto alle trasformazioni sociali, si concentrano oggi su due concetti
fondamentali: globalizzazione
informatizzata e post–modernità.
In quest’ottica la cultura viene oggi concepita come una rete di significati
continuamente riformulata dalle interazioni e dalle pratiche sociali in un
confronto serrato con quel fenomeno definito della post-modernità.
Com’è facile intuire ogni definizione di cultura riflette gli orientamenti e gli obiettivi di chi la propone, non è un caso che siano un centinaio almeno quelle più conosciute.
A noi basta elencare alcuni punti salienti per una sua comprensione.
La cultura, essendo acquisita e non trasmessa biologicamente, non può essere ricondotta ad una base biologica o psicologica, così come non può essere riportata ad una semplice dimensione sociale, questo perché non è tanto la socialità che contraddistingue l’uomo, ma il fatto culturale in sé o, se si preferisce, la sociabilità, che possiamo definire come l’attitudine a vivere in società.
Con la sociabilità,
soprattutto in etologia, si studia il modo in cui gli individui della stessa
specie si organizzano in comunità, sviluppando un modello di socialità.
Per le scienzesociali la socializzazione può essere definita come l’insieme dei
processi grazie ai quali gli individui sono integrati nella società in modo
tale da condividerne le norme e i valori.
In questa prospettiva l’acculturazione non
è altro che uno strumento specifico dei processi di socializzazione.
La socializzazione è un fenomeno complesso che possiamo riassumere dicendo che è un processo di apprendimento che permette agli individui di acquisire i modelli culturali della società nella quale vive.
Di per sé, poi, la socializzazione definisce l’insieme dei meccanismi attraverso i quali l’individuo interiorizza le norme e i valori del suo gruppo di appartenenza e costruisce la sua identità sociale.
Si può distinguere tra una socializzazione primaria ed una secondaria.
– La prima è quella che si elabora all’interno della famiglia, della scuola o con i mezzi di comunicazione.
– La seconda è quella che si sviluppa a partire dalle grandi tappe della vita, matrimonio, nascite, lutti, eccetera.
La socializzazione è importante anche perché si intreccia sia con i processi d’interazione sociale, che con il fenomeno della riproduzione sociale.
La riproduzione
sociale è quel meccanismo sociologico di mantenimento della posizione sociale e
dei modi di agire, di pensare e di sentire di una famiglia o di un gruppo
chiuso.
Un esempio può illustrare la definizione.
I figli delle famiglie medio-basse hanno la tendenza a non intraprendere studi molto lunghi o costosi.
Di contro, le famiglie delle classi dominanti cercano di mantenere il loro posto nello spazio sociale e, di conseguenza, sono portate a usufruire dell’istruzione migliore o elitaria al fine di riprodurre e aumentare il loro capitale culturale.
Come si vede, la natura della riproduzione sociale) è il risultato della ineguale ripartizione del capitale economico, culturale e sociale tra le classi.
Per concludere diciamo che l’analisi del concetto di cultura, da un punto di vista storiografico, è stato nel corso del Novecento, soprattutto tra gli anni ’30 e la fine della seconda guerra mondiale, uno dei dibattiti centrali delle scienze sociali.
A questo proposito, uno dei libri più interessanti di questo periodo è Patterns of Culture (1934) scritto da Ruth Benedict, un’antropologa americana, allieva di Franz Boas (1858-1942), un etnologo tedesco che lavorò anche negli Stati Uniti, e che, con Edward Burnett Tylor, è considerato uno dei fondatori della moderna antropologia culturale.
In sintesi, a quali conclusioni si arrivò in questo periodo?
– che il comportamento culturale è determinato
socialmente.
– che la
natura umana non stabilisce in modo univoco le risposte che l’uomo da ai propri
bisogni.
– che la
cultura è costituita non tanto da comportamenti individuali, quanto da
comportamenti di gruppo, per cui è essenziale analizzare la struttura e il
processo di formazione di questi comportamenti.
È in questo contesto che Ruth Benedict nel 1929 definì la cultura come “la totalità che include tutti gli abiti o i comportamenti acquisiti dall’uomo in quanto membro della società.”
°°°
Apriamo una breve parentesi su alcune distinzioni che
possiamo fare all’interno del termine cultura dal punto di vista delle sue configurazioni.
La prima è
quella che distingue tra cultura dominante,
subcultura, controcultura.
Se intendiamo per cultura dominante la cultura egemone in un dato momento in una data area, la subcultura è un aggregato tendenzialmente omogeneo di conoscenze, valori, credenze, stili di vita e modelli di vita capaci di contraddistinguere un gruppo sociale.
Fattori come la classe sociale, l’età, la provenienza etnica, la religione, la lingua, il luogo di residenza e perfino l’orientamento ideologico e politico possono, infatti, combinarsi tra di loro e creare identità culturali in grado di differenziarsi significativamente dalla cultura dominante.
Gli studiosi di questo fenomeno hanno notato che i membri di una subcultura tendono spesso a differenziarsi dal resto della società con uno stile di vita (che si manifesta nel modo di esprimersi, di vestire, mangiare, celebrare le festività, fare un attività sportiva, ecc…) alternativo a quello dominante.
Per questo lo studio delle subculture si concentra soprattutto sullo studio dei simbolismi collegati a queste forme di espressione esteriore e sullo studio di come queste vengono percepite dai membri della società dominante.
Di fatto, tanto più una collettività è differenziata tanto
più facilmente sarà possibile rintracciare al suo interno delle subculture che
producono propri valori.
Tuttavia,
più questi valori sviluppandosi si strutturano, più si fa problematico e
complesso il fenomeno dell’integrazione sociale, in sostanza, lo sviluppo di
una stabilità e di una convivenza pacifica.
A questo proposito in Europa fino a qualche tempo fa si distinguevano principalmente due modelli d’integrazione sociale, quello francese, fondato sui principi laici dell’illuminismo, e quello inglese, basato sul rispetto formale delle differenze culturali.
Negli Stati Uniti d’America, invece, dove da tempo si sono mescolate subculture provenienti dalle più svariate parti del mondo (come una conseguenza dei numerosi processi migratori che hanno interessato questa nazione), si definisce meltingpot il fenomeno della convivenza che si è venuta a formare.
Una convivenza pragmatica, con caratteri suoi propri, al tempo stesso fragili e funzionali.
Va notato che l’uso dell’espressione subcultura non implica necessariamente una situazione conflittuale con la cultura dominante, il più delle volte costituisce soltanto una variante o un elemento ereditato storicamente.
L’espressione di controcultura è,
invece, più recente, indica una radicalizzazione delle diversità,
essa va intesa come un rifiuto etico e comportamentale dell’insieme dei valori
e delle norme dominanti.
Nella seconda metà del Novecento è stata soprattutto un fenomeno legato alla
contestazione giovanile, oggi invece ha caratteri più ampi con compromissioni
linguistiche, religiose, politiche e soprattutto economiche, aggravato dal
fenomeno della globalizzazione e delle nuove migrazioni.
Un altro modo di dividere le varie componenti della cultura è quello di
distinguere tra cultura
materiale e cultura
non-materiale.
La cultura materiale, in questo contesto, è la cultura delle cose, composta
da oggetti,
manufatti, prodotti diversi, merci, a cui si possono contrapporre i significati,
i valori,
i simboli,
i linguaggi,
e tutti quei prodotti umani non-materiali.
Di fatto è una distinzione di comodo, perché sia le cose materiali che i valori immateriali hanno un senso solo se è noto il significato culturale che viene loro attribuito.
Consideriamo, ora, un compito importante che svolge la cultura dal punto di vista delle scienze sociali, la funzione di mediazione.
Questo perché le forme espressive che attraverso il linguaggio e le forme della comunicazione si configurano come rappresentazioni della realtà (siano esse rappresentazioni religiose, artistiche, scientifiche, filosofiche, giuridiche, o del comportamento) costituiscono altrettanti modi attraverso i quali l’individuo media il rapporto con se stesso, gli altri, il suo mondo e le cose.
Per la sociologia la mediazione
è il processo con il quale il pensiero generalizza i dati dei sensi e estrae
dalla conoscenza sensoriale – che è una sorta di conoscenza immediata – una
conoscenza astratta e intellettuale, che possiamo definire una conoscenza mediata.
In questo senso la cultura svolge una
funzione implicita fondamentale, perché la mediazione s’impone agli
uomini come il fondamento della prevedibilità sociale.
Vediamo, ora, il tema delle strutture
sociali.
L’importanza dell’analisi delle strutture sociali deriva
dal fatto che non è possibile isolare una dimensione pura ed autonoma della
soggettività come se fosse un’identità sociale e questo perché gli attori
sociali (individuali e collettivi) rappresentano, allo stesso tempo il motore e
il prodotto
che in qualche modo rappresentano queste strutture.
Il termine fu coniato e definito per la prima volta da Herbert Spencer, uno studioso di scienze sociali inglese, nel 1858.
Spencer mise in luce il fatto che in una struttura sociale, le parti che la compongono s’identificano con le relazioni fra le persone e, di conseguenza, come l’insieme organizzato delle parti può essere inteso come una rappresentazione della società nel suo complesso.
Spencer identificò poi nella durata una
delle caratteristiche più importanti di una struttura sociale.
Vale a dire, tutte le strutture sociali hanno una vita più o meno lunga e, in
generale, la loro durata depone a favore della loro importanza.
Questo studioso si pose anche una domanda: Le strutture sociali si basano sul consenso o sulla coercizione?
Da convinto funzionalista e liberista – la società era per lui paragonabile un organismo vivente nel quale tutte le parti contribuiscono a mantenerlo in vita – in questo senso le strutture sociali non dovrebbero produrre conflitti e non dovrebbero fondarsi sulla coercizione.
Di diverso avviso, tra i suoi contemporanei, erano i movimenti politici d’ispirazione socialista o riformista, per i quali, invece, la modernità è l’esito di un perenne conflitto tra le classi.
Oggi a questa domanda, se ne sovrappone un’altra: In che modo le strutture sociali sono in grado di favorire il mutamento sociale?
Una società che non muta, infatti, è una società che non cresce o cresce male e così facendo tende a ripiegarsi su se stessa o a implodere.
Per rispondere va anche tenuto presente il fatto che la società è condizionata dall’ambiente naturale e dalle forme di sociabilità che riesce a sviluppare.
Così come le sue strutture sociali sono determinate anche dalla storia sociale dei suoi attori, siano essi gli individui come i collettivi.
Va poi rilevato che le strutture sociali dipendono in modo stretto dalla qualità dell’ambientenaturale nel quale si realizza lo sviluppo della società.
È un tema che nel Novecento ha coinvolto molti autori, tra i quali Èmile Durkheim, Max Weber e Georg Simmel.
In questo contesto l’ambiente naturale è il complesso delle possibilità nei confronti delle quali si sviluppa l’azione degli uomini, sia come individui che come gruppi agenti o comunità.
Com’è risaputo non c’è nulla di pre-definito offerto dalla natura all’uomo.
C’è solo la capacità dell’uomo all’adattamento naturale e le sue capacità di agire su di esso.
Per comprendere questo punto va considerato che le strutture pubbliche e politiche – che contribuisco a disegnare le forme urbane, i loro servizi e a tracciare le vie di comunicazione – influiscono in maniera rilevante nel condizionare lo spazio sociale della persona, la sua libertà di scelta e di movimento e il suo grado d’interazione sociale.
Verso
queste strutture e per le ragioni più diverse si sta diffondendo una nuova
sensibilità che coinvolge in modo radicale i problemi dell’equilibrio tra
l’uomo e il mondo.
una sensibilità
che ha messo in luce la grande responsabilità dell’azione umana sia nella
conservazione che nella distruzione dell’ambiente.
Da qui la constatazione – per concludere – che l’adattamento all’ambiente non può essere all’insegna del mero sfruttamento della natura, ma deve tener conto del fatto che gli interessi dell’uomo non possono infliggere all’ambiente dei danni irreparabili o superiori ai vantaggi.
°°°
Vediamo adesso qualcosa a proposito di un altro importante elemento che lega l’uomo alla natura:
il tempo.
Il tempo rappresenta una delle dimensioni
della realtà che abitiamo o, se si preferisce, dello spazio sociale.
Di conseguenza, la temporalità, che definisce
ciò che è
iscritto nel tempo, deve essere considerata come un carattere
essenziale delle relazioni sociali.
Il tempo, da un punto di vista gnoseologico, rappresenta un’infrastruttura strategica dell’azione e dell’interazione sociale, è ciò rende visibile il carattere processuale e storico di ogni attività umana, con una particolarità, la drammatizza, perché il tempo è irreversibile.
In sociologia, il primo ad occuparsi del tempo sociale
è stato Durkheim
nel 1912.
Con questa espressione si sottolinea la dipendenza del tempo individuale
da quello più ampio del gruppo o della comunità che funzionalmente lo
comprende.
Ma, qual è la funzione del tempo sociale?
Attraverso
la sua percezione gli uomini organizzano e ritmano la loro vita privata e
collettiva, ma quello che più conta è che questa percezione ne assicura il suo coordinamento e la sua sincronizzazione.
Nella ricerca sul tempo sociale una delle tecniche più utilizzate in sociologia è quella indicata con l’espressione di time-budget (bilancio del tempo).
Storicamente, questa tecnica fu inizialmente elaborata dalla sociologia sovietica per studiare le problematiche della vita quotidiana degli operai.
Oggi, invece, è adoperata per descrivere i modi e gli stili di vita e per disegnare le cosiddette mappe dei comportamenti abituali.
Attraverso il tempo o, meglio, attraverso l’esperienza del tempo, noi stabiliamo una continuità narrativa tra passato, presente e futuro.
Come ha notato Alfred Schütz, un famoso filosofo e sociologo di lingua tedesca, il tempo è un fattore essenziale per la comprensione dell’agire umano.
Esso rappresenta una risorsa sociale, la cui disponibilità è diversa da individuo ad individuo e tra comunità e comunità.
Che cosa significa?
Che il tempo degli operai non è quello degli imprenditori.
Che il tempo di una comunità di monaci non è quello di un collegio
universitario o di una squadra di calcio, ma non è tutto.
Il tempo viene percepito anche come un bene, soprattutto economico. Un bene diversamente valutabile e valutato.
Karl Marx lo definì come un qualcosa che, nella cultura
occidentale, possiede un valore economico.
In altri
termini, il tempo è una variabile dei
processi di produzione e, di conseguenza, esso costituisce un importante fattore nei processi di
razionalizzazione della modernità.
Ci sono poi altri temi sensibili intorno alla relazione ambiente, individuo, natura.
Uno di questi temi, che compare sempre più spesso nel capitolo dedicato alle condizioni dell’ambiente naturale, è la nozione di corpo.
Oggi la sociologia del corpo è una disciplina indirizzata soprattutto alla costruzione di modelli esplicativi relativi al rapporto di reciproca determinazione (o restrizione) tra la società (ovvero i processisociali) e la corporeità (intesa come un’unitàpsicosomatica).
Due autori che si sono occupati in modo specifico del corpo sono Georg Simmel e Marcel Mauss.
Lo hanno fatto in una prospettiva culturalista creando i presupposti di una vera e propria sociologia del corpo o delle culture corporee successivamente sviluppata anche da una grande antropologa inglese Mary Douglas (1921-2007).
Successivamente il corpo, come realtà fenomenologica, ha avuto un rilievo particolare nei lavori di Erving Goffman, Gregory Bateson e David Le Breton.
L’approccio in questi autori è stato essenzialmente di tipo strutturalista o se si preferisce funzionalista.
Viceversa, l’analisi della relazione tra il vissuto, la corporeità, i processi socio-culturali, che li riguardano, è centrale negli studi di due sociologi di origine austriaca, Thomas Lukmann (il cui libro più famoso è La realtà come costruzione sociale del 1966) e Alfred Schütz.
Sempre sul tema del corpo e di ciò che rappresenta sia come elemento del mondo sensibile che espressione dell’individualità ricordiamo due filosofi francesi Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty oltre che lo psichiatra inglese Roland Laing.
Infine, dal punto di vista della filosofia della scienza, di grande importanza sono le riflessioni di altri due grandi pensatori francesi, George Bataille e Michel Foucault a cui dobbiamo la nozione di biopolitica.
In breve, per Foucault la biopolitica è il terreno sul quale agiscono le pratiche con le quali la rete dei poteri costituiti gestisce le discipline del corpo sia in senso individuale che collettivo.
In questo senso rappresenta un’area d’incontro tra il potere e la sfera della vita.
Per molti di questi autori il corpo è inteso soprattutto come una macchina comunicativa.
Una macchina che si può costruire con l’attività fisica, si può modificare con una divisa, si può trasformare con un tatuaggio in medium di comunicazione.
Il discorso sul corpo fa riferimento anche alle cosiddette pratiche centrate sulla “corporeità”, perché queste pratiche servono a delineare, da una parte, gli stili di vita e, dall’altra, hanno un grosso risvolto economico, come sono le attività legate all’industria della cosmesi, alla chirurgia plastica, alle diete, all’abbigliamento, eccetera.
°°°°°°
Cambiamo argomento.
Possiamo definire le istituzioni e le organizzazioni formali come dei sistemi relativamente stabili di relazioni, retti da norme specifiche, che assolvono o dovrebbero assolvere a funzioni e interessi della vita sociale come tale.
In particolare le istituzioni materializzano o, meglio, danno visibilità ai principi giuridici fondamentali della forma di Stato, identificandosi con gli organismi politico-costituzionali che ne sono l’espressione.
Costituiscono delle istituzioni formali i parlamenti, le forze armate, i ministeri, le fondazioni, i tribunali, eccetera.
Le organizzazione formali, invece, hanno una natura più privatistica, come sono un’azienda, una squadra di calcio, un club, un’associazione di volontariato, un partito politico.
Ciò che contraddistingue sia le istituzioni
che le organizzazioni
formali
è il carattere della stabilità.
Esse sono stabili nella misura in cui vengono “accettate”
dagli usi, dal costume, dalle norme, dalle abitudini.
Poi, a misura in cui sono stabili, tendono a caricarsi di valori immateriali, come sono, per esempio, il prestigio o l’affidabilità.
Per le scienze sociali è importante il fatto che le istituzioni e le organizzazioni formali sono profondamente intrecciate al paradigma dell’interazione sociale.
Per definirla conviene partire dall’esperienza che ognuno di noi ha della società e dalla constatazione che questa esperienza si materializza come l’insieme dei rapporti che intratteniamo nel nostro habitat sociale.
Si tratta di un insieme di azioni e di reazioni – da cui il termine interazione – mediante le quali gli individui entrano tra loro in contatto, comunicano, collaborano, giudicano.
NOTA: Anche nel mondo animale esiste qualcosa di simile all’interazione, ma è preformata, molto rigida e rituale e, soprattutto intrecciata con le catene trofiche o alimentari che rappresentano l’insieme dei rapporto tra gli organismi di un ecosistema.
Dunque, l’interazione sociale va intesa come quella sequenza dinamica e mutevole di atti sociali fra individui o gruppi di individui che modificano le proprie azioni e reazioni in relazione alle azioni degli individui e dei gruppi con cui interagiscono. In questo senso può essere intesa come il luogo primario in cui si forma, si ratifica, si trasforma il legame sociale.
Da qui si comprende anche come l’interazione sociale determini l’ordine sociale.
Ordine che non si manterrebbe in equilibrio senza una costante e spesso
lunga e silenziosa
ri-negoziazione dei suoi valori, delle sue norme, dei suoi saperi o delle sue credenze.
Va aggiunto che l’interazione sociale rappresenta il nodo
intorno al quale si sviluppano e si strutturano gli studi sul comportamento
collettivo e individuale.
Molti di questi studi confluiscono oggi nelle microsociologie, come vengono chiamate
quelle sociologie che hanno come argomento principale i cosiddetti rapporti face to face, cioè, i rapporti
intersoggettivi.
Più precisamente le microsociologie studiano soprattutto i legami sociali elementari.
Il primo a comprendere l’importanza di questi legami fu Georg Simmel, che studiò sul campo alcuni micro-fenomeni sociali come sono i segreti, l’amicizia, l’ubbidienza, la lealtà, la fiducia.
Oggi le microsociologie hanno come area disciplinare i comportamenti, i ruoli, le interazioni sociali, i conflitti, le identità e il modo di formarsi dei processi decisionali individuali o dei piccoli gruppi.
Un altro autore che fu sensibile a questi temi fu Alfred Schütz (1899-1959) che dedicò le sue ricerche all’indagine sul modo di formarsi e di sciogliersi delle relazioni tra gli individui nell’ambito della vita quotidiana.
Schütz era austriaco, ma dovette emigrare in America a seguito delle leggi razziali tedesche dopo l’annessione dell’Austria al Terzo Reich e lì, continuò i suoi studi.
L’opera a cui si fa riferimento uscì nel 1932, s’intitola La fenomenologia del mondo sociale, è uno studio nel quale, partendo dalle ricerche di Max Weber, sviluppa le problematiche dell’agire sociale.
Egli definì la vita quotidiana, come l’insieme di azioni, di rapporti, di conoscenze e di credenze familiari all’interno dei quali, per così dire, scorre l’esperienza e si struttura l’esistenza materiale degli individui.
Si tratta di quel insieme di relazioni che, il più delle volte passano per scontate, come salutare un conoscente, prendere un appuntamento, uscire in compagnia di amici, telefonare per informarsi sulla salute di un congiunto, avvertire casa per un contrattempo, mettersi d’accordo per andare ad un concerto, eccetera.
Come Alfred Schütz ebbe modo di dimostrare questi rapporti costituiscono il cemento dell’esperienza sociale di cui cogliamo l’importanza solo quando entrano in crisi o attraversiamo uno stato di eccezione – come furono per lui le leggi sulla razza.
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Vediamo, in questa prospettiva, alcuni caratteri della vita quotidiana.
Il primo di essi è la routine.
Costituisce il carattere più evidente di essa, per molti versi, anche il più
sorprendente quando lo andiamo a focalizzare.
E’ un carattere che esprime la ripetitività e la prevedibilità delle azioni, dei
comportamenti e dei pensieri.
La prevedibilità,
in particolare, agisce sul comportamento abbassando il livello d’interesse
dell’osservatore e/o dell’attore sociale e, così agendo, favorisce soprattutto un
risparmio di energie.
Ma non è così semplice.
La ripetizione e la prevedibilità dei comportamenti possono finire per stimolare risposte automatiche o stereotipate, che abbassano il nostro grado di attenzione verso ciò che ci circonda.
Perché sono così
importanti per la sociologia?
Perché quando ripetitività e prevedibilità finiscono per invadere
massicciamente il tempo della vita quotidiana, siamo in presenza di vissuti che tendono
inesorabilmente a deteriorarsi.
O, come dicono i filosofi sociali, siamo davanti ad una alterazione del qui–ora che induce ad una sorta di smarrimento sociale e, spesso, nei casi più gravi, a forme di angoscia e di disagio psichico.
Questi processi interattivi generano anche un altro fenomeno, le tipizzazioni.
La tipizzazione agisce come uno strumento di previsione del comportamento, è come dire, capovolgendo un proverbio popolare, che l’abito, a dispetto del nostro senso critico, fa il monaco.
La tipizzazione può essere involontaria, ma il più delle volte è il risultato di una scelta consapevole tra i vari modelli di comportamento che l’esperienza sociale ci fornisce.
Perché è
consapevole?
Perché ciascuno di noi sa bene che ad ogni passo della nostra giornata, come
della nostra vita sociale, siamo costantemente osservati, e in qualche modo interpretati
e giudicati.
Perché ciascuno di noi sa che gli altri reagiscono nei nostri confronti secondo
il loro modo di essere, un modo di essere che esprime e interpreta le
situazioni sociali.
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Un altro aspetto importante dell’interazione e ciò che la lega alla rappresentazione sociale,
perché gli individui non solo sono coscienti delle azioni e delle reazioni che questi processi comportano, ma, in genere, sono consapevoli anche dei loro effetti.
Secondo Erving Goffman (1922-1982) a ragione della
consapevolezza che gli individui hanno di influenzare con le proprie azioni
l’opinione che gli altri danno della situazione alla quale stanno partecipando,
questi stessi individui finiscono per comportarsi come se recitassero una
parte, come
se fossero attori su un palcoscenico.
In breve è come
se vivessero dentro una rappresentazione teatrale o uno spettacolo.
Goffman è un sociologo di origine canadese vissuto negli Usa, ha studiato a Chicago.
Ricordiamo questo perché a Chicago ha operato una delle scuole di sociologia urbana più prestigiose degli Stati Uniti.
Uno degli scritti più importanti di questo studioso, uscito
nel 1956,
s’intitola, La vita quotidiana come rappresentazione.
Con quest’opera, Goffman, introduce nella sociologia il concetto di prospettiva drammaturgica.
Più in generale il suo campo di ricerche sono stati gli aspetti trascurati della vita quotidiana, quelli che appaiono banali, ma che in realtà possiedono, in sé, una forte carica recitativa.
Aspetti che, nelle società complesse, come quella Occidentale, sono divenuti oscuri ed equivoci e che, sempre di più, vengono usati per offrire agli altri un’immagine in qualche modo valorizzata di noi stessi.
I sociologi americani definiscono queste situazioni , face to face, perché iflettono le piccole situazioni della vita di tutti i giorni.
Per analizzarle Goffman immaginò la vita quotidiana
come se fosse un gioco di rappresentazioni.
Un gioco nel quale l’identità
dell’individuo – che nella lingua inglese è definita con l’espressione
di self – coincide di volta in volta con le maschere che costui indossa sul palcoscenico della vita corrente.
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Una parentesi. Esaminiamo l’espressione di self con la quale nella lingua inglese si identifica l’identità dell’individuo nelle relazioni face to face.
È un concetto molto usato anche in psicologia e in psicanalisi, da cui è stato mediato.
Didier Anzieu (1923-1999) un protagonista della psicoanalisi francese, scrisse, qualche tempo fa, un libro divenuto un classico sui confini del self, intitolato, Lemoi–peau, (L’io-pelle)1985.
Perché è importante la nozione di self?
Perché gioca un ruolo decisivo nel rapporto che noi abbiamo con il nostro corpo e il corpo degli altri, ma non solo, perché il self caratterizza anche il modo con cui noi percepiamo la sostanza corporale con la quale siamo fatti e che non si limita a un po’ d’acqua, lipidi, aminoacidi, eccetera.
L’esperienza della vita quotidiana ci dice che la percezione della nostra sostanza corporale cambia di significato davanti ai nostri occhi quando supera i limiti del self.
Da questo punto di vista il self si è rivelato un concetto importante per studiare il gusto, il disgusto e il modo di percepire la prossimità con gli altri.
Facciamo qualche esempio.
Non abbiamo disgusto della saliva che si trova nella nostra bocca, ma se la raccogliamo in un bicchiere sterile molto difficilmente riusciremo a rimetterla in bocca e inghiottirla.
Questo perché quando le nostre secrezioni superano (varcano) il limite del nostro io–pelle ci diventano estranee, e simmetricamente, quelle degli altri (che ci penetrano) ci provocano disgusto più si avvicinano.
É come se le vivessimo in modo intrusivo, è come se dovessimo difenderci da esse.
La stessa cosa si può dire per il sangue, a noi non da fastidio succhiare il sangue che esce da un dito che ci siamo feriti affettando del pane, ma se questo sangue lo raccogliamo con una garza, difficilmente avremmo il coraggio di succhiarla.
Di contro, il self diventa tollerante con le relazioni di vicinanza derivate da un’attrazione emotiva.
Non a caso nelle relazioni intime il self diventa spesso un acceleratore dell’intimità, come avviene con la saliva del bambino che non è ripugnante agli occhi della madre, così come non lo sono le secrezioni dei nostri partner sessuali, ma che tornano ad esserlo se l’intimità viene spezzata da una separazione o da un contrasto.
Con il self si possono spiegare anche molti dei meccanismi del feticismo, che trasformano la distanza e la familiarità degli oggetti che appartengono al soggetto amato. L’intimità come la tenerezza contaminano positivamente gli oggetti avvicinandoli a noi, facendoli diventare familiari, esattamente come il disgusto li allontana.
L’identità soggettiva s’intreccia con un altro grande tema a cui abbiamo accennato, quello della contaminazione, in questo caso serve a completare il paradigma della prossemica, intesa come quel capitolo della semiologia che studia il significato del comportamento umano (gesti, posizioni, distanze posture) dal punto di vista dei processi comunicativi.
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La vita di tutti i giorni è dunque analizzata da Goffmann come un palcoscenico sulla quale si recita.
Un palcoscenico con i suoi attori, il suo pubblico, le sue quinte, dietro le quali spesso gli attori affermano il contrario di quello che hanno detto davanti ai riflettori.
Su questo palcoscenico gli attori si mettono in gioco, si fanno conoscere, si alleano, si scontrano s’ingannano, dimostrano la loro capacità d’impersonare un ruolo, s’immergono o prendono le distanze dalle situazioni che li coinvolgono
Occorre persi una domanda: Gli individui sono coscienti di recitare una parte sociale?
Per Goffman lo sono sempre, anche se non sempre ne sono totalmente consapevoli.
In certe occasioni questa recitazione è assolutamente partecipata, in altre è come una parte recitata mille volte, che diventa quasi automatica, in altre ancora è recitata di malavoglia.
C’è poi da considerare come l’Altro da noi o gli altri giudicano chi sta recitando.
Questo perché, in base a come (chi sta osservando) valuta la
spontaneità, o se vogliamo, l’abilità, o la qualità
della recitazione dell’altro o degli altri suoi interlocutori, ne trae delle
conclusioni che, a sua volta, influenzeranno il suo modo di
comportarsi.
Come in una partita a ping-pong, ogni tiro a sua volta provoca una reazione di
tiro, che a sua volta provoca una reazione…e così via. O, più semplicemente pensate alle strategie
di corteggiamento fatte di mosse e contro mosse.
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Passiamo ad un altro argomento cardine del discorso sociologico: i gruppi.
Un tempo sottovalutati da qualche decennio a questa parte i gruppi sono studiati da una specifica disciplina chiamata analisi gruppale.
Il riconoscimento dell’importanza dei gruppi lo dobbiamo soprattutto ad uno psicanalista inglese, Wilfred Ruprecht Bion (1897-1979), che a sua volta lo riprese dagli studi di Maxwell Jones (1907-1990) sulle piccole comunità terapeutiche.
Da subito va detto che non solo un gruppo non si riduce alla somma delle coscienze e delle volontà individuali che lo compongono, ma è più facile il contrario, che il gruppo trasformi l’individuo che ne fa parte.
In sociologia si definisce un gruppo sociale come un insieme di persone che entrano in qualche modo in rapporto reciproco, sulla base di valori o interessi comuni.
O, in una forma più articolata:
Un gruppo è un insieme d’individui che interagiscono fra loro influenzandosi reciprocamente, condividendo, più o meno consapevolmente, interessi, scopi, caratteristiche e norme comportamentali.
Che cosa distingue un gruppo da una folla o da una comunità
di persone?
Il fatto che nella folla, nella comunità o, più in generale, in un’aggregazione
di persone, come è, per esempio, un grande ufficio, una scuola, un quartiere, non esiste un’interazione diretta tra tutti gli individui, o, più semplicemente,
questi individui non costituiscono un insieme organizzato.
Vediamo le tre caratteristiche che distinguono un gruppo.
– I membri del gruppo interagiscono tra di loro in modo strutturato
secondo le norme o i ruoli che il gruppo si è dato.
– I membri del gruppo hanno la coscienza di essere un gruppo o, meglio,
maturano un sentimento di appartenenza al gruppo che, tra l’altro, funziona da barriera nei
confronti degli estranei.
– Il gruppo è
percepito come un gruppo da parte di chi non ne fa parte.
Vale a dire il gruppo ha un’identità esplicita e percepibile
dall’esterno.
Quanto ai gruppi in sé possiamo distinguerli in molti
modi.
La
classificazione più importante è quella tra gruppi
primari e gruppi secondari.
I gruppi
primari
sono anche detti piccoli
gruppi.
Il loro carattere principale è la forte integrazione, tipica, per fare un
esempio, delle famiglie o delle bande.
Per definizione i gruppi primari sono costituiti da pochi
individui.
I gruppi
secondari
o grandi gruppi sono gruppi composti da un numero elevato di
membri.
Sono gruppi nei quali le relazioni interpersonali appaiono neutre e,
spesso, il rapporto tra il singolo e gli altri membri è di natura strumentale,
cioè, funzionale ad uno scopo.
L’esperienza sul campo ha dimostrato che appena il numero dei membri di un gruppo supera i sette/otto elementi c’è una tendenza, che si può definire spontanea, alla formazione di sottogruppi, dove le affinità sono più forti.
Quando, poi, il numero dei membri di un gruppo secondario
supera la dozzina è molto probabile che all’interno del gruppo si formi un
portavoce o che un membro lo coordini.
A questo proposito si è constatato che in qualsiasi gruppo, prima o poi, emerge
la figura di un leader.
La velocità con cui questa figura si forma è proporzionale alla grandezza
del gruppo.
Più il
gruppo e grande e prima si costituisce una leadership.
Nella leadership si possono distinguono
tre
stili:
Quello autoritario, quello democratico e quello improntato al laissez-faire.
Nel primo caso la struttura è molto gerarchica
e si caratterizza per la direzione degli ordini che influenza il comportamento
del gruppo, sempre dall’alto verso il basso.
Questi ordini, in genere, non sono mai messi in discussione, cioè, si
subiscono.
La struttura dei gruppi che possiamo definire democratici è caratterizzata dal consenso della maggioranza, vale a dire da un’accettazione consensuale dei programmi del gruppo.
La leadership dei gruppi improntata al laissez–faire si caratterizza dalla mancanza di una vera dirigenza. In questi gruppi la leadership si limita a far emergere e a gestire le iniziative dei sottogruppi.
A proposito di gruppi. Nelle forme di democrazia rappresentativa, come dovrebbero essere le democrazie moderne, una forma di gruppo di una certa importanza è il gruppo di pressione.
Questi gruppi sono anche detti gruppi d’interesse.
In genere sono strutturati nella forma del collettivo che si mobilita per difendere specifici tornaconti, anche ideali, come sono per esempio i programmi dei gruppi ambientalisti.
Quando i gruppi di pressione sono organizzati e la loro azione è diretta in modo specifico ad agire sui centri di potere, con lo scopo di influenzare pubblicamente determinate scelte politiche, economiche o etiche, si definiscono lobby.
Questi gruppi di pressione organizzati sono tipici dei paesi di lingua inglese, in cui la corruzione (sotterranea) è severamente sanzionata e le lobby sono, in qualche modo, istituzioni formali accettate, se non altro come un male minore che si vede e che si può contenere.
Il tema dei gruppi nelle scienze sociali è legato a un altro grande tema, quello delle gerarchie sociali.
A parte i motivi economici per le quali si formano è un tema
specifico dell’antropologia culturale e delle teorie politiche.
Tuttavia alla sociologia compete lo studio della posizione sociale di
un individuo o di un gruppo all’interno di un sistema di relazioni che formano
la struttura sociale di una società.
Nella cultura occidentale va anche costatato, a partire
dalla seconda metà dell’800, una costante trasformazione dei ceti in classi.
Questa metamorfosi costituisce uno
degli effetti della rivoluzione industriale e delle forme di democrazia che in essa
si sono sviluppate.
La
rivoluzione industriale, di fatto, contribuì a ridurre ogni differenza sociale
ai soli fattori economici e all’effettivo controllo della ricchezza.
I suoi esiti sono ben visibili all’interno delle due classi generali che si affermarono come le due sole classi protagoniste della storia della modernità, la borghesia e il proletariato.
Tuttavia va notato come, da alcuni decenni a questa parte, nei paesi dell’area temperata del pianeta, le classi si stanno disfacendo nella loro forma storica per ridisegnarsi su altri valori, come sono quelli della conoscenza e dell’accesso all’informazione e all’educazione.
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Il digitaldivide o divario digitale è il divario esistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell’informazione e chi ne è escluso in modo parziale o totale. I motivi dell’esclusione
comprendono diverse variabili: condizioni economiche, livello d’istruzione, qualità delle infrastrutture, differenze di età o di sesso, appartenenza a gruppi etnici diversi, provenienza geografica.
Oltre a indicare il divario nell’accesso reale alle tecnologie, la definizione include anche disparità nell’acquisizione di risorse o capacità necessarie a partecipare alla società dell’informazione.
Il termine digitaldivide può essere utilizzato sia per riferirsi ad un divario esistente tra diverse persone, o gruppi sociali in una stessa area, che al divario esistente tra diverse regioni di uno stesso stato, o tra stati (o regioni del mondo) a livello globale.
Il termine è apparso per la prima volta all’inizio degli anni Novanta negli USA in alcuni studi che indicavano come il possesso d uni personal computer aumentasse in modo significativamente differente tra i gruppi etnici.
Il concetto di divario digitale è poi entrato nell’uso comune quando il presidente americano Bill Clinton e il suo vice Al Gore lo introdussero nel gergo politico durante un discorso tenuto nel 1996 a Knoxville, in Tennessee.
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Lo scenario che abbiamo descritto inevitabilmente darà vita ad altre forme di conflitto tra le quali, di una certa importanza, saranno:
– quelle di natura generazionale che coinvolgeranno i cosiddetti nativi digitali.
– quelle tra i localismi.
– quelle legate all’equa re-distribuzione delle risorse naturali, come da tempo è il caso del petrolio e di recente dell’acqua o del controllo climatico.
A questo va ricordato che i paesi della fascia temperata del pianeta terra costituiscono un terzo della popolazione mondiale e consumano più di due terzi dell’energia totale prodotta.
In un rapporto ufficiale, del 2006, delle Nazioni Unite sulla distribuzione del benessere economico si afferma che l’uno per cento della popolazione mondiale detiene il quaranta per cento del patrimonio finanziario e immobiliare mondiale, mentre il cinquanta per cento della popolazione mondiale accede solo all’uno per cento della ricchezza planetaria.
È indubbio che, in questo scenario, uno degli obiettivi delle scienze sociali dovrebbe essere quello di contribuire a rielaborare degli stili di vita che consentano di riequilibrare questo stato di cose prima che sia troppo tardi.
FINE PRIMA PARTE