Nota non redazionata, a circolazione interna. Aprile 2008.
Il design alimentare e il marketing.
Da tempo, nell’agro-alimentare, ma non solo, il problema non è più quello di offrire prodotti, ma di creare attraverso di essi del “senso”, o meglio, una “significazione” che consenta a chi mangia di sperimentare qualcosa di unico o, almeno, d’illudersi di farlo, esattamente come i grandi chef non vendono più solo pasti, ma opere d’arte che coinvolgono tutti i sensi del commensale e spesso la loro sensibilità estetica.
Attraverso il cibo nel mondo occidentale si è accentuata, a partire soprattutto dall’ultima decade del Novecento, una tendenza ad evocare emozioni, a stimolare l’immaginazione, a suscitare ricordi.
Oggi, chi si occupa di food-design è di fatto un creativo dell’immaginario alimentare.
Di questo processo progettuale molto si gioca sul piano dei segni immateriali e sul modo in essi si relazionano al mondo reale, in pratica sulle strategie di quello che è definito come concept foods.
In altri termini, da come si seleziona il nome di un prodotto,
la storia che lo racconta,
gli aspetti visivi,
i sapori che evoca,
le textures che lo strutturano,
la sonorità che possiede,
tutto tende ad un solo obiettivo, sedurre il consumatore sul prodotto che cambia perché il cambiamento fa parte delle moderne strategie alimentari di massa legate ai consumi, anche se questo cambiamento, a volte, può avere dei risvolti negativi sul processo delle intenzioni che guidano all’acquisto.
Quale è, allora, il problema chiave del food design o, meglio, quali sono i suoi limiti progettuali?
Il problema sta nella gestione dell’eventuale dissonanza tra la forma progettata e le reazioni cognitive ed emozionali dell’individuo.
In questo senso, nel food design si deve tendere ad analizzare con la massima attenzione sia le risposte edononiche del soggetto-consumatore che gli esiti delle rappresentazioni mentali suscitati dal prodotto progettato.
Queste rappresentazioni, in genere, si producono nel momento in cui il soggetto-consumatore confronta ciò che vede con ciò che ha memorizzato o che gli suggerisce l’esperienza.
In questo modo, il food-design o, più in generale, il design nell’agro-alimentare finisce per articolarsi su quattro step:
– il prodotto di per sé
– la grafica di presentazione
– il packaging
– il progetto di prodotto e l’eventuale progetto ambientativo nel quale viene inserito.
In altri termini, il design qui è un congegno di gestione che agisce a livello
delle strategie d’innovazione,
di comunicazione e
d’immagine della marca.
Di fronte alla standardizzazione dei prodotti dell’agro-alimentare, in parte imposta dalla globalizzazione, le marche ricorrono con sempre maggior frequenza di un tempo, dal punto di vista dei caratteri percepibili, a quelli che sono chiamati gli “assi di differenziazione” che sono sempre più simbolici ed affettivi.
Così, nell’ambito del nostro paradigma, costituito dal food-design, si definisce concept design tutto ciò che consente al produttore di creare senso e nuove significazioni che hanno il potere di trasformare il prodotto in un concept food.
Da quando la fame per molti paesi a capitalismo avanzato è un ricordo, la “risposta estetica” è la prima reazione di giudizio sul prodotto.
Essa concorre a formare la predisposizione ad un piacere associato alla forma disegnata del questo prodotto, alle formazioni immaginarie che lo circondano e agli stati emozionali che si provano.
Nel complesso il concept design può anche indurre a nuove a nuove opinioni, a nuove credenze, a nuove rappresentazioni e influenzare le preferenze.
Nella pratica gli stimoli estetici hanno l’obiettivo di favorire la formazione di una fantasia mentale che la psicologia definisce una rappresentazione.
Dentro questa rappresentazione il food design agisce come un aggregato di unità significanti al quale i consumatori associano dei significati e delle interpretazioni.
In genere, i prodotti alimentari sono percepiti dal consumatore secondo le quattro categorie chiave di buono, cattivo, industriale, naturale.
In questo modo, per forzare i termini di un’espressione, si “confeziona” la memoria e le si consente di effettuare delle deduzioni e di prendere delle decisioni.
Il food–design – dalprodotto in sé allo scenario che lo contiene – consente dunque di estendere la percezione della rappresentazione del prodotto verso altre classificazioni che, in prima istanza, sono meno evidenti:
– il confort
– la freschezza
– la qualità.
In questo contesto, in cui il ruolo della percezione è primario, occorre ricordare che la vista è il senso più importante e, in particolare, il colore è una delle prime modalità ad essere elaborate dal cervello.
La vista, tra l’altro, favorisce i processi di simbolizzazione e, per conseguenza, di estrapolazione di certe proprietà e sensibilità.
Per esempio, l’intensità dell’aroma di limone tende ad aumentare quando aumenta la concentrazione del colore giallo.
Sempre in questo contesto, come è stato provato, anche il contenente – dal punto di vista della forma, del colore e della texture – gioca un ruolo formativo nella percezione del gusto.
Il test tipo, a questo proposito, è quello detto della zuppa.
La stessa zuppa, servita in una tazza di terraglia o di terracotta, in una ciotola di porcellana, in una fondina, in un recipiente di vetro verde, cambia totalmente la percezione del suo gusto nei soggetti sottoposti al test, perché la dimensione visiva in chi l’assaggia ha un peso determinante nella valutazione delle qualità gustative.
Ma perché i prodotti alimentari sono così suscettibili di agire sulle rappresentazioni mentali?
Tutto deriva dal fatto che i prodotti alimentari sono incorporati.
Insieme alle medicine sono i soli beni di consumo che entrano nel corpo umano e i loro effetti sono praticamente irreversibili.
Gli individui sanno che la loro vita dipende da questi beni, così, inevitabilmente focalizzano su di essi gli eventuali tratti negativi della loro consumazione, adattando per reazione dei comportamenti irrazionali che possono essere in parte compresi “decifrando” quello che questi prodotti appaiono dal punto di vista della rappresentazione.
Gli esperti rintracciano le motivazioni di questi comportamenti in quello che gli antropologi chiamano pensiero magico.
Una forma di pensiero, come abbiamo visto, presente in tutte le culture che si basa sul meccanismo della rappresentazione e sul principio dell’incorporazione secondo il quale il passaggio di un alimento in un corpo implica un inevitabile transfert di proprietà fisiche, comportamentali, morali e simboliche.
A questo proposito, alcuni test hanno dimostrato che un piatto preparato da una persona che, chi deve consumarlo ritiene ostile, può risultare disgustoso e perfino indigesto.
Due leggi sono sottese a tutto questo.
La legge del contagio per la quale avvenuta la contaminazione questa rimane in ogni caso.
La legge della similitudine secondo la quale per un riflesso di sopravvivenza il cervello interpreta gli oggetti per quello che sembrano.
In uno studio condotto su un gruppo di studenti universitari la maggior parte di essi ha dichiarato che gli era ripugnante mangiare del cioccolato che aveva la forma di un escremento di cane.
In materia di food–design esistono anche delle preferenze che sono innate.
Per esempio, la legge della proporzione e dell’unità, elaborata al principio del Novecento dalla teoria della Gestalt, induce a preferire le forme che appaiono più simmetriche ed armoniose di altre.
Non solo, troppa uniformità nella forma di un oggetto o di un prodotto genera noia.
Un disordine che sia appena accennato stimola l’interesse.
Una certa incongruità rispetto a ciò che già conosciamo attira l’attenzione.
In altri termini, anche per quanto riguarda il cibo, gli onnivori, prima di scegliere la soluzione che preferiscono o che li tranquillizza, sono attirati da ciò che appare loro curioso.
Questo atteggiamento ha dato vita al paradosso dell’onnivoro, per il quale da una parte c’è un atteggiamento neofilo, che spinge a variare gli alimenti che si consumano o a desiderare di sperimentarne di nuovi, dall’altra, c’è un atteggiamento neofobo, rappresentato da una certa resistenza culturale a non poter mangiare che alimenti conosciuti, identificati, condivisi e valorizzati.
In termini di design questo paradosso da vita ad una dissonanzacognitiva più o meno accettata, che richiama una teoria molto nota nel marketing, del bisogno di stimolo.
Una teoria per la quale ogni individuo ricerca costantemente un livello ottimale di eccitazione nel quale si sforza di situarsi.
Nella pratica, il confronto con un prodotto che non ci è familiare aumenta la volontà di provarlo, ma se l’eccitazione supera il livello ottimale della stimolazione scatta il meccanismo contrario, si diffiderà di esso.
Il design del food deve dunque costantemente bilanciare con molta cura forma, colori e textures, anche perché, paradossalmente, una reazione di affettività può anche essere generata da un elemento dissonante.
Dunque, da una parte il design tende a produrre un arricchimento del potenziale di stimolazione del prodotto alimentare, anche in termini di confronto con altri prodotti uguali,
dall’altra, se gli attributi del prodotto non sono in grado di stimolare il ricordo, perché irriconoscibili o troppo innovativi, può prodursi una dissonanza cognitiva.
Nel caso del cibo, se questa dissonanza è eccessiva, l’istinto di sopravvivenza spinge inevitabilmente l’individuo a sottolineare di esso soprattutto le conseguenze negative dell’incorporazione, fissandole sugli aspetti organolettici, igienici e nutrizionali.
Alla fine, la percezione del rischio può indurre a pensare che questo cibo ammali, che abbia un gusto pessimo, che metta a disagio, che il suo consumo susciti riprovazione sociale, che non valga quello che costa.
Alla luce di queste considerazioni, si parla di design strategico quando esso favorisce la congruità tra la rappresentazione del prodotto che abbiamo davanti e ciò che questo prodotto rappresenta per la nostra memoria e le nostre emozioni.
Siccome però l’innovazione è sempre portatrice di una certa incongruità, questo design non deve farla apparire né troppo forte e né troppo debole.
Come abbiamo visto, una leggera incongruenza tra un nuovo prodotto e le categorie di questo prodotto che abbiamo nella memoria induce quasi sempre ad una valutazione favorevole.
Per riassumere:
– Il design, come progetto, favorisce le rappresentazioni mentali dei prodotti alimentari.
– L’immaginario alimentare funziona quasi sempre a partire dal colore e dalla forma.
– Il design è una sorgente d’inferenza per il consumatore. Vale a dire il design agisce come se fosse una conclusione tratta da un insieme di fatti e circostanze.
(L’inferenza è il processo con il quale da una proposizione accolta come vera, si passa ad una proposizione la cui verità è considerata contenuta nella prima.)
– Le rappresentazioni mentali che scaturiscono dal food-design partecipano alla formazione delle attese.
– Quando il design accentua la dissonanza cognitiva gli effetto di questa dissonanza tendono ad apparire (nell’ambito dei prodotti alimentari) esagerati e a generare inquietudine.
– La sensibilità estetica e le tendenze neofile favoriscono l’accettazione di un prodotto alimentare, anche se è poco noto.