Bevande, fermenti, vini ed ebbrezze.
(Traccia delle lezioni di martedì 27 e giovedì 29 maggio 2008. Bozza non relazionata.)
Charles Baudelaire, ne I Paradisi Artificiali, definisce il vino:
“questa voce dello spirito che non è intesa se non dagli spiriti”.
Preambolo.
Ma, più in generale, che cosa sono le bevande?
Sono liquidi nutritivi che si bevono soprattutto per dissetarsi e spesso per piacere.
Gli animali non bevono che l’acqua, a parte i mammiferi, uomini compresi, che da cuccioli bevono anche il latte per potersi nutrire.
L’acqua è una bevanda di origine minerale.
Il latte e le bevande lattee, miele compreso, con cui si prepara l’idromele, sono di origine animale. Anche il sangue animale è una bevanda soprattutto mescolato al latte o ad altre bevande. L’idromele, invece, è probabilmente la bevanda fermentata più antica e senz’altro quella che fu più popolare. Lo si trova ovunque ci siano delle api, dall’Egitto alla Scandinavia.
Tutte le altre bevande sono di origine vegetale.
Sono preparate a partire dalla frutta, dai grani, cereali in particolare, dalle foglie, dalle scorze, dalle radici, dalle infiorescenze delle diverse specie di piante. I procedimenti per arrivare a produrre queste bevande sono diversi, per pressione, centrifugazione, infusione, macerazione, fermentazione, distillazione, percolazione, eccetera.
L’acqua è la bevanda più diffusa, non apporta nessun elemento nutritivo e nessun elemento energetico. Qualche volta, come nelle acqua così dette minerali, contiene dei sali.
Tutte le altre bevande possono apportare delle calorie sotto forma soprattutto di zuccheri e di alcol, delle proteine e delle materie grasse.
Tra le bevande sono annoverati anche i liquidi alimentari, come gli oli, gli aceti, i brodi, le zuppe liquide e i potage.
Certe bevande, di contro, sono così ricche di componenti nutritive che sono a cavallo tra una bevanda e un alimento, per esempio, le cioccolate o il kéfir.
Ci sono poi bevande al limite delle medicine, come le infusioni.
In genere le bevande si assumono nei bicchieri, nelle tazze, o in altri recipienti che possono contenerle, e si consumano da sole, durante i pasti, prima di essi o dopo.
Per molte bevande è importante la temperatura di servizio che può essere calda, a temperatura ambiente o refrigerata.
Oggi, nei laboratori di fisiologia applicata, sia per fini scientifici che commerciali, e studiata sia la risposta fisiologica, metabolica e ormonale nell’assunzione di liquidi, che le risposte psicosensoriali che possono influenzare l’assunzione volontaria.
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Prima d’iniziare a parlare del vino, dell’alcool e della degustazione delle bevande, un avvertimento che potete anche ignorare, ma non potete non conoscere.
L’alcool ingerito, salvo in rarissimi casi, fa sempre male. In nessuna sua forma gli altri componenti che con lui, in genere, formano una bevanda, possono giustificare la sua ingestione.
Il consumo di vino, soprattutto se è elevato, vale a dire più di qualche bicchiere a pasto, provoca effetti tossici, in particolare per il fegato.
L’alcool etilico, inoltre, è cancerogeno per diversi organi e tossico per l’embrione.
Chi afferma il contrario mente e chi mente in genere lo fa per due motivi, per tornaconto o per ignoranza.
Non dimenticatevi che il vino è una delle voci dell’agro-alimentare tra le più consistenti.
Non solo è quella che genera più reddito, ma è anche quella che più facilmente contribuisce a modellare gli “stili di vita” delle élite. Dunque, la loro emulazione, con il conseguente risvolto economico, politico e sociale.
Questa nota, più in generale, vale per tutte le sostanze che alterano il NSC.
Con questo, naturalmente, non voglio condannarvi ad essere astemi, anche perché questa parola merita una spiegazione.
Questa espressione fu utilizzata all’origine dalla chiesa, si applicava ai preti che un’avversione per il vino impediva loro di farne uso durante la celebrazione della messa.
Per questo erano dispensati dal berlo. La decisione fu approvata dai calvinisti, ma mandò su tutte le furie i luterani che considerarono questa dispensa un sacrilegio. Non a caso Lutero era un gran bevitore di birra e Calvino un asceta.
La parola, poi, divenne di uso generale nel XVIII secolo.
Dal punto di vista etimologico l’astemio è colui che si priva del temetum.
Il temetum come il merum erano nella Roma antica i vini puri usati per le libagioni sacre, capaci
Di provocare il furor, vale a dire la potenza guerriera e la follia. Cioè, fa uscire dall’uomo ciò che egli non vuole dire.
Detto questo, andiamo avanti.
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L’origine del vino si confonde con la storia stessa dell’uomo, come tutte le sostanze psico–attive, e spesso affonda nelle tecniche terapeutiche tradizionali, quali quelle dello sciamanesimo.
Possiamo affermare che scoprono le sostanze psicotrope solo i popoli che le cercano e che ogni popolo cerca quelle che gli sono più congeniali culturalmente.
Non a caso la cucina delle sostanze psicotrope naturali condensa millenni di errori e di esperimenti.
C’è poi anche da considerare che nelle società tradizionali l’effetto delle sostanze psicotrope corrisponde quasi sempre ad una rappresentazione della divinità o all’epifania di qualche essere mitologico.
Le sostanze psicotrope naturali, come i cactus San Pedro o peyotl (Il primo spontaneo in Ecuador e Perù e in genere in tutte le regioni andine, contiene mescalina, il secondo diffuso soprattutto nel Messico settentrionale.)
Le radici di iboga, un arbusto molto grande che cresce in Gabon, Camerun e Congo e produce effetti euforizzanti e afrodisiaci, oggi usato nei processi di disintossicazione da oppio o eroina.
Le foglie di tabacco, coca, marijuana, l’infiorescenza della canapa, o hascich.
Le liane come la Yage, una specie di vite di cui si beve il decotto della corteccia, molto diffusa in Brasile, Colombia ed Ecquador, e soprattutto i frutti e i cereali fermentati, come l’uva, i fichi, la segale, il riso, solo in rari casi hanno qualcosa a che vedere con la tabella delle sostanze stupefacenti o psicotrope del Ministero della Salute.
Di contro, invece, gli dei, che da queste sostanze prendono vita, s’inverano, hanno sempre una personalità psicotica, favoriscono l’atarassia, come l’oppio, la frenesia, come l’iboga, l’euforia come l’alcool e l’hascich, o inducono alle allucinazioni, come il peyotl.
(L’atarassia è un concetto elaborato dalle filosofie dell’esistenza, come l’epicureismo o lo scetticismo, indica l’assoluta imperturbabilità davanti alle emozioni e alle passioni.)
Gli psicotropi naturali sono raramente degli “alimenti”, in genere sono succhi, e sono bevuti come tisane, oppure, fumati o masticati.
La parola alcol deriva dall’arabo al kohl, un’espressione che serve ad indicare sia lo spirito del vino, che il fard per abbellire gli occhi, così… come non vedere nell’alcol qualcosa che abbellisce la visione e trasforma il modo di guardare il mondo?
Tra l’altro, nelle culture in cui gli psicotropi sono considerate delle sostanze magiche, queste hanno la capacità di:
“far vedere”,
di “far viaggiare” nello spazio o nel tempo,
di “insegnare delle tecniche”,
di “guarire”.
Solo il vino, invece, non serve che a dimenticare.
En passant. Anche gli animali – a modo loro – cercano l’ebbrezza. I miei gatti, per esempio, amano la Nepeta cataria, cioè, l’erba gatta. Li fa sognare e stimola il loro comportamento sessuale. Vediamo qualche caso.
Il fenomeno più vistoso è quello legato al locoismo (dall’inglese Locoween), cioè dell’erba pazza, un erba selvatica dei campi che fa impazzire mucche, muli, cavalli pecore e, perfino, i conigli, molto diffusa in America.
Gli elefanti hanno una vera passione per l’alcol e divorano molti frutti fermentati, soprattutto di palma.
I babbuini, invece, si inebriano con i frutti rossi delle Cycadaceae. Sono piante simili alle palme, ma di fatto sono piante antichissime che hanno conosciuto i dinosauri, molto vicine alle conifere.
I mandrilli del centro Africa, come gli uomini, mangiano le radici allucinogene dell’iboga. Così fanno anche i cinghiali.
Infine le renne. Quelle siberiane si drogano con l’amanita muscaria, il fungo allucinogeno per definizione.
A questo proposito c’è qui una strana alleanza tra animali ed uomini. Siccome il principio aattivo dell’amanita muscaria finisce nell’orina in Siberia c’è una gara tra renne ed uomini a bersi le orine, della propria specie e dell’altra. A questa gara, tra l’altro, partecipano anche gli scoiattoli e le mosche, ma queste probabilmente senza volerlo.
Nelle società tradizionali o, come si diceva un tempo, primitive, l’uso delle sostanze psicotrope è legato alla nozione di metamorfosi, cioè, di trasformazione più o meno evolutiva da qualcosa a qualcosa d’altro.
Se lo spirito è anche dentro una pianta, allora, deve esistere un ponte tra l’universo vegetale e quello animale.
(Da qui la credenza di molte società sciamaniche che la specie umana deriva da certi vegetali, che i viaggi a ritroso dello sciamano, attraverso la tappa animale, possono vedere.)
Nella stessa tradizione greca, Dioniso, il dio delle vigne, il dio-vino, spesso è rappresentato nella sua natura vegetale che è quella del grappolo d’uva.
Dal punto di vista del food–design l’alcol ha, oggi, molti significati culturali tra i quali spiccano, da una parte, quello di mediatore culturale, dall’altra, di panacea sociale.
Come mediatore culturale esprime le difficoltà di molti uomini e donne a posizionarsi nell’ambito di una cultura che privilegia le classificazioni sociali e su queste classificazioni impone una scelta. Si è bambini o grandi, uomini o donne, morti o vivi, ricchi o poveri, fortunati e sfortunati, pro o contro, dicotomie che sono, allo stesso tempo, fondamentali e risibili.
L’alcol come panacea consente, al pari dei sogni, di sostituire il determinato con il possibile. Mette a nudo le sconfitte della vita corrente, ma consente la persistenza della speranza.
Se poi pensiamo all’alcol sotto l’aspetto della psicologia sociale esso ci appare come uno strumento di teatralizzazione della scena sociale.
Una scena sulla quale esalta i processi primari, quelli che regolano la vita culturale e la coesistenza tra l’oggettivo e il soggettivo o se preferite, tra l’azione e il sentire.
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Non sono stati i greci ad inventare il vino, tuttavia essi hanno fatto molto per questa bevanda. Gli hanno attribuito un dio, Dioniso, rendendola una bevanda immortale.
Di fatto, ancora oggi non sappiamo con precisione di dove sia originaria la vitis vinifera, cioè, l’unica pianta che produce i grappoli con i quali facciamo il vino.
La Bibbia (Genesi, 9, 20s.) fa risalire la cultura della vite e il vino a Noè, che è separato da Adamo ed Eva da sole dieci generazioni ed è descritto come un ubriacone ed anche molto famoso, perché lo stesso dice il Cantico dei Cantici. A suo favore S. Ambrogio scrive che Noè coltivò la vite cercando il voluttuario perché Dio gli avrebbe dato il necessario.
Un altro grande ubriacone biblico è Loth, nipote di Abramo, che beve si ubriaca ed ha una relazione incestuosa con le sue due figlie.
Va tenuto presente però che, nell’Eclestiastico, la vite è un simbolo di sapienza.
Ancora oggi il sabato ebraico inizia con un atto di benedizione che si fa salmodiando mentre si beve un sorso di vino da un unico bicchiere passato da mano in mano tra i membri della famiglia.
(En passant. Il vino Kasher non deve contenere ingredienti proibiti come grassi, vitamine, conservanti ricavati da animali proibiti. Non deve essere corrotto da sostanze lievitanti. Deve essere lavorato esclusivamente da ebrei.)
Sempre a proposito della Bibbia c’è in Isaia una nota sui Cananei, che vivevano in quella regione che comprende grossomodo Libano, Palestina, Israele, Siria e Giordania, soggiogati dagli israeliti che però assorbirono la loro lingua e parte della loro religione.
Si racconta di una cerimonia detta marzeah, una cerimonia bacchica e orgiastica durante la quale costoro “ barcollano per il vino e le bevande inebrianti, hanno allucinazioni, (e) sulle loro tavole c’è vomito dappertutto…”.
Il Libro dei proverbi dice, “(il vino) morde come un serpente, pizzica come una vipera” (24).
Una nota. Quello che qui diremo sul vino si basa su due forme di testimonianza.
– le fonti letterarie ed epigrafiche dirette e indirette, cioè notizie riportate da altre opere.
– i ritrovamenti dell’archeologia rurale, soprattutto per quanto riguarda la coltivazione delle viti e dell’uva e gli strumenti per la loro lavorazione.
Per esempio, sono numerose le evidenze archeologiche sulla produzione del vino testimoniata dai pigiatoi in pietra o dalle parti in pietra dei torchi. Così come sono importanti per comprendere il commercio del vino e il suo trasporto le anfore, contenitori che con i loro timbri ed epigrafi consentono spesso di determinare la datazione e le città di provenienza.
Dato poi il carattere ideologico–religioso del consumo del vino nel mondo antico è di notevole interesse il vasellame usato soprattutto durante i banchetti.
Un altro indicatore interessante si ritrova, poi, nelle tombe, in particolare maschili, costituito dall’associazione anfora-cratere-kylix.
I crateri erano recipienti di notevoli dimensioni usati per mescolare il vino con l’acqua.
I kylix – da cui il latino calix, calice, era il recipiente più comune per bere a forma di coppa piatta con gambo e piede circolare.
La vite, anche se non sappiamo di che tipo, cresceva già in Europa a partire dalla fine del Miocene, cinque milioni di anni fa, lo provano alcune impronte di foglie di vite nel tufo trovate vicino a Montepellier.
Per convenzione e a stare alle tracce più antiche, i primi documenti sulla vite coltivata risalgono a settemila anni fa e la collocano nel Caucaso meridionale, tra la Turchia, l’Armenia e l’Iran.
Di contro, i primi documenti sul vino sono egiziani e risalgono a circa tremila anni fa, in particolare, ci sono dei basso-rilievi, di duemila e cinquecento anni fa, che mostrano delle scene di vendemmia e di pigiatura.
Semi di un grappolo d’uva che possiamo definire provenienti da una vite prae–vinifera sono stati trovati a Castiona, in un sito mesolitico, vicino Mantova. Hanno più di seimila anni.
Nel 1996, nel villaggio neolitico di Hajji Firuz Tepe, sui monti Zagros, nell’Iran settentrionale, sono state scoperte sei giare di circa trenta centimetri d’altezza, una delle quali conteneva una sostanza secca, resinata, proveniente da grappoli d’uva schiacciati.
Documenti sulla coltivazione della vita sono stati rinvenuti nel sito dell’antica Ebla, una cittadina vicino ad Aleppo in Siria.
Mentre la citazione più antica sul commercio del vino via mare risale al secondo millennio prima dell’era comune e si riferisce alle città–stato di Canaan, che lo spedivano attraverso l’antico porto di Ugarit, in Siria, ai confini con la Turchia.
Oggi, per riassumere, si tende a fissare l’età del vino e, soprattutto, la sua produzione su larga scala a circa quattromila anni fa. Sono comunque date da considerare con cautela.
La storia viticola nel Mediterraneo italiano ha un inizio letterario: Il canto IX dell’Odissea.
Dalla descrizione dell’isola dei Ciclopi e dell’ubriacatura di Polifemo si comprende che nel Mediterraneo c’erano perlomeno due viticulture.
Quella orientale, che produceva vini forti e scuri, quale il vino di Ismaro prodotto in Tracia regalato ad Ulisse da Marone e che fa ubriacare Polifemo perché non era abituato a questi vini ad alta gradazione.
Quella rappresentata dall’isola dei Ciclopi, oggi identificata con la zona di Aci Trezza, in Sicilia. Era una viticoltura quasi spontanea fondata sulla raccolta dell’uva selvatica.
Del resto, il culto mistico di Dioniso (Bacco) non si diffonde nell’Italia meridionale se non dopo la seconda guerra punica.
Dioniso è il dio della forza produttiva della natura, il portatore della civiltà e l’amante della pace.
Egli compare sempre assieme alle Baccanti, che sono donne a lui devote, che suonano i tamburelli e i cimbali e si abbandonavano a danze sfrenate.
Danze destinate ad invocare la fertilità dei campi e ad esaltare lo spirito religioso dell’uomo. In breve, sono le protagoniste di feste a scopo propiziatorio che oggi conosciamo come baccanali.
Con l’avvento del cristianesimo queste feste divennero religiose, molte delle quali in forma di processione come ringraziamento per i buoni raccolti.
In questo senso, per fare un esempio, la festa della Madonna del Pollino è una festa che s’innesca su un baccanale, esattamente come la festa di Piedigrotta a Napoli.
Il vino prodotto allora era assolutamente diverso da quello che conosciamo oggi. A causa della bollitura a cui veniva in genere sottoposto era sciropposo, dolce e molto alcolico. Ecco perché si allungava con l’acqua e lo si speziava o lo si tagliava con il succo di bacche rosse, come quelle di rovo.
Le vigne allo stato selvaggio o, lambrusche, erano diffuse sia in Europa che nelle Americhe, quelle americane sono poi evolute verso la specie fox grape, quella i cui acini hanno un vago sentore di volpe e che noi chiamiamo uva americana.
Tra l’altro, è proprio a questa vite, resistente alla filossera, che dobbiamo il salvataggio dei vigneti in Europa a cavallo tra Ottocento e Novecento.
La storia a raccontarla è un pochino più tortuosa e, volendo, si potrebbe definire uno dei primi danni collaterali del progresso perché tutto cominciò con la navigazione a vapore.
Con questo sistema, infatti, la durata della traversata atlantica si ridusse ad una decina di giorni, un intervallo di tempo sufficiente alla filossera – di fatto è un afide, un pidocchio delle piante – per sopravvivere.
Si ritiene che arrivò dall’America nel 1865, sbarcò dapprima in Francia per poi diffondersi in tutta l’Europa distruggendo, di fatto, tutte le vigne, finché non si capì l’origine americana dell’infezione e si constatò che la convivenza secolare di questo afide con le viti in America aveva portato queste ultime a sviluppare delle forme di difesa.
La soluzione, all’apparenza semplice, fu di innestare le viti europee su una radice di vite americana, ma per arrivare a ricostituire il patrimonio vinario europeo ci vollero decenni e molti vitigni sparirono per sempre.
In concomitanza con questi avvenimenti si diffuse l’uso di prodotti fitosanitari sempre più aggressivi, a partire dallo zolfo con cui si prepara il verderame.
(I puristi si fanno ancora oggi delle domande oziose. Che tipo di vino avremmo se non ci fosse stata questa battuta di arresto? E il rimedio? Siamo sicuri che non ha modificato per sempre le nostre viti?)
In ogni modo, la domesticazione” della vite si ottenne attraverso una lunghissima selezione della specie selvatica che portò a selezionare dei ceppi (cépages) più o meno nobili.
In genere i profani tendono a confondere il nome del ceppo con il nome dell’uva o del vino anche perché i vino spesso si classificano in funzione del vitigno.
I vitigni più diffusi al mondo sono, tra i vini rossi, il Cabernet-Sauvignon, il Cabernet Franc, il Merlot, il Pinot noir, il Syrah, tra i vini bianchi, il Sauvignon blanc, lo Chardonnay, il Muscat e il Riesling.
Per fare qualche esempio, il Pinot nero e lo Chardonnay sono i due principali ceppi dei vini di Borgogna.
Il Riesling sta alla base dei vini dell’Alsazia e del Reno.
Il Cabernet sta alla base di tutti i vini del bordolese.
Il Nebbiolo è il padre, insieme al Barolo e al Gattinara di tutti i vini del Nord d’Italia.
Il Groslot è alla base dei vini della Loira o, meglio, di quell’isola che non c’è l’Ile de France.
Altri vitigni italiani famosi sono il Nero d’Avola, la Barbera, il Sangiovese e, tra i bianchi, il
Trebbiano, la Vernaccia, il Vermentino.
Poi naturalmente ci sono gl’incroci e le clonazioni tra vitigni, così come vini che sono il risultato della mescola di altri vini al fine di elaborare un gusto nuovo o stabilizzare la produzione di un vino-prodotto.
Quanto alla tecnica dell’innesto è molto antica. Nelle forme che la conosciamo oggi risale all’epoca romana.
L’altro elemento fondamentale per la produzione del vino, dopo, il ceppo, è il terreno o meglio la sua conformazione geografica e geologica, latitudine, longitudine, altezza sul livello del mare, temperature dell’aria nei diversi momenti dell’anno, esposizione al sole, composizione del terreno.
Le influenze ambientali sono così importanti che lo stesso ceppo può dare vini completamente diversi, come nel caso del Cabernet in Francia da cui si ottiene sia il Medoc che il Graves rouges. Il primo vino si ottiene da vitigni sulla Garonna a Nord di Bordeaux, il secondo dai vitigni a Sud.
Torniamo agli dei.
Dioniso è colui che ha fatto conoscere il vino agli uomini, nella tradizione greca sposò Erigone figlia di Icario, giardiniere dell’Attica. Per sedurla si trasformò in un grappolo d’uva, non a caso il figlio che ebbero si chiamo Stafilo, cioè, grappolo d’uva.
Poi tutto precipita nella tragedia, perché la morale dei miti e delle religioni non può non istituire un parallelo tra vino e sangue, considerato il fenomeno della fermentazione.
Allora questo fenomeno non era comprensibile o meglio non era accettabile se non ricorrendo alla mitologia.
Ma chi ha inventato il vino?
Tutti e nessuno, come accade per certe invenzioni. In ogni modo apparve per la prima volta tra il mar Nero e il golfo Persico.
In queste terre c’era l’abitudine di schiacciare le ciliegie e l’uva per ricavarne il succo, dal succo alla scoperta della fermentazione il passo fu semplice, anche se per compierlo ci vollero molti secoli.
Poi da queste terre la vite migrò verso l’Egitto e dall’Egitto arrivò in Europa attraverso la Sicilia.
Nell’altra direzione emigrò verso l’India, anche se non riuscì a penetrare in questo paese.
Nel XII secolo in Europa ci sono già dei vigneti fino al 50esimo grado di latitudine, grossomodo appena sotto la Bretagna.
Solo nell’Ottocento la vite è riuscita a salire più in alto. In Norvegia, per esempio, nell’Ottocento si coltivava in serra. Naturalmente era per produrre uva da pasto e non vino.
Oggi, la vigna più a settentrione si trova a Remshow Hall, vicino Sheffield, è grande un ettaro, pressappoco alla stessa latitudine c’è una vigna anche in Russia a Latira. Sono vigne che possono produrre, se tutto va bene, circa settecento/ottocento bottiglie a vendemmia, ma anche zero, perché dipendono da quando ghiaccia il territorio.
Il vino ha una lunga storia anche in Cina considerato che la vite è documentata a partire dal terzo millennio prima dell’era comune. Era una vite selvatica usata per le sue qualità terapeutiche.
Tuttavia la sua coltivazione o, meglio, la sua domesticazione non iniziò che un paio di secoli prima dell’era comune – si racconta ad opera del grande generale Zhang Qian (jang–cian) che si spinse con le sue campagne militari fino in Afghanistan – ma solo intorno al sesto secolo, sotto la dinastia Tang, la sua diffusione fu completata.
Il tipo d’uva più menzionato nei testi cinesi è quello detto – a causa della sua forma allungata – “capezzoli di cavalla”. Era di color porpora e divideva la sua popolarità con un’altra uva chiamata “perle di drago”.
L’uva era stimata anche come frutto e valutata un ottimo farmaco per rafforzare l’organismo e potenziare i flussi vitali.
Il “vino” più antico della Cina, tuttavia, è quello ricavato dalla fermentazione dei cereali, soprattutto dal riso.
Di fatto era più una birra, che si otteneva con il liquido di cottura dei cereali, fermentato con il lievito di farina.
La leggenda narra che fu la figlia dell’imperatore Yu il Grande, “colui che dominava i fiumi”, ad inventare il vino quattromila anni fa. Per questo, si racconta, suo padre la lodò per l’eccellenza della bevanda e poi la punì per aver aggiunto un altro male nella vita degli uomini.
In realtà il vino di cereali è molto più recente ed è attribuito a Du Kang, che visse durante la dinastia Zhou (770—256 prima dell’era comune.)
In Cina ancora oggi ci sono dei templi costruiti in suo onore e il suo nome è sinonimo di bere. Oggi è anche il nome di un liquore molto forte e popolare, venduto in tutto il mondo.
Più prosaicamente alcuni testi della dinastia Zhou menzionano quattro tipi di bevande alcoliche, tre ottenute dai cereali ed una dal latte. Molto probabilmente questa bevanda è una variante del kumiss mongolo.
Huang jiu (vino giallo) è il nome generico del vino di riso o di miglio in Cina. La sua gradazione alcolica non supera i venti gradi e, di fatto, può avere anche altri colori – beige chiaro, giallo-marrone o bruno-rossastro – ed è classificato secco, semi-secco, semi-dolce, dolce ed extra-dolce.
Molti di questi vini possono essere molto vecchi, cioè, possono essere affinati per ben cinquanta anni e più.
A livello internazionale, oggi, il vino di riso più conosciuto è lo Shaoxing jiu (il vino di S…), di colore rosso, grazie al lievito di riso rosso.
Ma torniamo al vino d’uva.
In America la vite entrò in due tempi.
La prima volta si ritiene che furono i vichinghi ad importare la vite sulle coste del Massachusetts, una terra che loro chiamarono Vineland.
Successivamente furono gli spagnoli, nel XVI secolo, in particolare, i missionari, che la diffusero dappertutto a partire dalla California.
Così come sono stati i missionari a diffonderla in Sud d’America a partire dall’Argentina.
Quello che si deve notare è che in quasi tutto il mondo il vino ha alla sua origine o una dimensione divina o è attribuito a divinità agrarie o ad eroi.
Lo stesso Noe, dopo il diluvio, pianta subito le viti, beve felice e si ubriaca. Siamo intorno al quarto millennio prima dell’era comune.
Storicamente c’è una stretta relazione tra il vino e l’acqua.
Tutte le cronache antiche, infatti, parlano di grandi vitigni impiantati sulle terre alluvionate, così come molti, in passato, hanno visto una stretta relazione tra la vite, il mare e la luna.
Per esempio, gli egiziani, ne approfittarono per istituire una festa dell’ebbrezza chiamata “A lei che ritorna”.
Si teneva sul delta del Nilo in un giorno particolare della luna nuova.
È Erodoto (484-425), il grande storico autore di Istoriai (Storie) che ci racconta queste cose, precisando che in Egitto solo i preti e i nobili potevano berlo, al popolo era consentita solo la birra.
Per questo popolo il vino era un’invenzione di Osiris, padre di Horus e dio dell’agricoltura.
Come abbiamo visto, per i greci è invece Dioniso ad aver fatto conoscere il vino agli uomini, a cominciare dai cretesi.
Lo proverebbe l’etimo di vino, oïnos, cioè, vino nel dialetto di Creta.
Poi da questa isola invase il mondo.
In latino è vinum, da cui ha origine il Wein della lingua tedesca, il wijn di quella olandese, il vin in svedese e danese, in wine inglese, il vino spagnolo il vin francese e il vinho dei portoghesi.
In particolare, la vite coltivata crebbe rigogliosa nel paese di Canaan o Cananea, (questo territorio corrisponde al Libano più Israele e parti della Siria e della Giordania).
Un paese fondato dal figlio di Cam, maledetto per aver mancato di rispetto a Noè ubriaco, deridendolo.
A Canaan si celebrava la festa dei tabernacoli con orge e abbondanti libagioni.
Molti, sulla scorta di queste notizie, fanno derivare la parola vino da vena, una parola sascritta che vuol dire amare da cui deriverebbero anche la parola Venere.
La derivazione è scorretta, ma mostra bene l’intenzione di legare il vino agli “altered states of consciousless” delle passioni amorose.
Alcune ricerche hanno dimostrato che questa festa dei tabernacoli, come molte altre feste famose dell’antichità, prima di essere celebrate con il vino lo erano con la birra.
Anzi, qualcuno ha avanzato l’ipotesi che Dioniso ha cambiato il suo nome quando è diventato il dio del vino, ma che già era conosciuto con il nome di Sabazio, che è quello arcaico di un dio della Tracia e protettore della birra.
Facciamo un passo avanti.
L’uva da tavola, quella che si mangia come una frutta, è abbastanza recente.
La sua coltivazione comincia ad essere migliorata solo a partire dal Rinascimento, ma in pochissime quantità, spesso solo per motivi decorativi.
La cultura specifica dell’uva da tavola risale ai primi anni del ‘900, per motivi squisitamente economici. Possiamo dire che sono le crisi del settore vinicolo di quegli anni che spingono ad una diversificazione della produzione.
Anche se si tratta di uva, il mercato dell’uva da vino è diverso da quello dell’uva destinata alla tavola.
Nel primo caso parliamo di un prodotto che entra in un processo di trasformazione di tipo artigianale o industriale.
Nel secondo caso, invece, l’uva segue la filiera della frutta fresca, a cominciare dalla sua distribuzione.
L’Italia è, con la Spagna, il più grande produttore in Europa di uva da tavola, ci sono, di quest’uva, almeno una ventina di vitigni.
La più popolare e, insieme, la più antica, la più diffusa e quella con il chicco più grande, è l’uva Regina che i francesi chiamano “dattero di Beiruth”.
In ogni modo il consumo pro-capite è di circa tre chili e mezzo ad abitante, vale a dire, il dieci per cento del totale del consumo di frutta fresca, agrumi a parte.
Quanto al volume di produzione l’Italia ne produce annualmente tra le ottantamila e le novantamila tonnellate.
Della vinificazione, cioè del passaggio dall’uva al vino, diremo solo che si apprese seguendo gli errori e i successi dell’esperienza.
L’uva, per la piccola chimica, diventa vino sotto l’influenza di certi lieviti, i saccaromiceti.
Se si fanno crescere in un recipiente chiuso dove è stato messo il succo dei grappoli spremuti, si moltiplicano in modo straordinario.
Questa fermentazione che dura da cinque giorni a cinque settimane, colora il vino e lo carica di tannino, in cui è racchiuso parte del suo bouquet.
Una nota. Gli esperti e i poeti distinguono l’aroma – che è l’insieme dei principi odorifici del vino giovane – da bouquet, che è l’odore acquisito con l’invecchiamento e che non si manifesta che alla lunga.
Il sauvignon bianco, originario del bordolese, dice l’esperto, possiede un aroma fiorito, leggermente muschiato, con delle nuances di foglie strofinate. Il vino di Colmar, invece, è un vino etereo, che esala un aroma di rosa secca e lascia in bocca il gusto della vigna in fiore.
Bouquet, invece, è un’altra cosa, in esso si avverte l’artificio. Si avverte l’infusione di odori delle donne mature. Odori che si allargano come un ventaglio e rivelano tutta la loro pienezza carnale.
La fermentazione trasforma lo zucchero dell’uva in alcool, secondariamente produce anche glicerina e acido succinico.
La fermentazione si manifesta anche con la produzione di gas carbonico.
Se è abbondante si dice che è una fermentazione tumultuosa, comunque non deve produrre fermenti acetici per evitare di trasformare il vino in aceto.
Questa fermentazione, poi, si arresta quando tutto lo zucchero è stato trasformato in vino con una gradazione massima di quattordici o quindici gradi.
I modi di fermentazione, oggi, sono molti ed agiscono principalmente sul mosto sia con la temperatura, che con la pressione.
Ritorniamo brevemente, invece, sul significato simbolico del vino.
Con il pane e la carne è uno degli alimenti più carico di simboli, un elemento fondamentale nei sacrifici e nelle offerte.
San Clemente d’Alessandria (che visse a cavallo tra il secondo e il terzo secolo) ha scritto che il vino sta al pane come la vita contemplativa e la gnosi (la conoscenza) stanno alla vita attiva e alla fede.
Di fatto, non c’è cultura nel Mediterraneo che non abbia visto il vino come simbolo e strumento dei processi di iniziazione.
Un fatto facilitato anche dal suo colore, definito spesso sangue della vigna.
Il suo ruolo, però, non è legato solo ai processi d’iniziazione, ma anche a quelli di celebrazione.
Il vino è uno strumento importante delle manifestazioni sociali festive ed è spesso associato all’amore dell’altro, alla lealtà, alla giustizia che rimedia ai torti.
In questo senso è una bevanda da comunione, che diventa da meditazione alla fine del secolo scorso, un’espressione che mostra la sua estetizzazione.
Se la cultura islamica ha prescritto il vino è perché ha visto nei pericoli del suo abuso un nemico dei suoi valori sacri, ha visto nell’ubriacatura degli sciocchi un attentato alla grandiosità dell’ebbrezza da riservarsi al paradiso.
Del resto, nella cultura islamica molti mistici definiscono il vino la bevanda dell’amore divino.
I sufisti, come il grande mistico ibn Arabi (1165 1240), autore di molti trattati tra cui Le Gemme della Saggezza, hanno definito il vino come “simbolo della scienza degli stati mentali”.
(…è stato il grande avversario di Averroè, il razionalista.)
In persiano, la parola dem significa allo stesso tempo, vino, soffio vitale e tempo.
In questo, l’Islam non fa che riprendere la Bibbia, che prescrive l’ebbrezza per gli stessi motivi.
Nell’ebraico antico i caratteri che designano il vino (yaim) e il mistero (sâd) hanno lo stesso valore numerico, il 70, il numero dell’universalità o meglio, della moltitudine.
Nella cultura ebraica i numeri sono una delle chiavi della conoscenza.
Per esempio. Nella Torà il nome di dio è citato 1820 volte, cioè, 70 per 26, il numero dei Patriarchi. Da laici potremmo dire che le congetture eccessive se non generano mostri insegnano a pensare.
La vigna, l’uva e il vino sono parte integrante del messaggio di Cristo, non solo perché è il suo sangue, ma anche perché il vino è il soggetto del suo primo miracolo, quello delle nozze di Cana, un miracolo atipico sul quale sono infinite le interpretazioni.
Ancora oggi, del resto, la vigna rappresenta il regno di Dio.
Esistono almeno due grandi feste del vino nella cristianità. San Vincenzo il 22 gennaio, e San Martino l’11 novembre.
Nella sola Francia ci sono ben trentasette santi protettori del vino e, ancora oggi, si festeggia San Vincenzo, per via del suo nome.
Infatti se leggete in francese “vincenzo” si pronuncia come “vin sans eau”, vino senz’acqua!
Due parentesi.
Com’era il vino di Cana?
Il vino di Champagne, tra storia e leggenda, in breve.
François de Pierre de Bernis (1715-1794), poeta, ecclesiastico e diplomatico, in questa veste fu un protetto della Pompadour, famoso per aver affermato che, nonostante l’aria del paradiso sia da ritenere eccezionale, egli dopo morto avrebbe preferito l’inferno per le sue frequentazioni, non diceva messa se non poteva farlo con un vin de Meursault, un Bourgogne della Côte de Beaune, uno dei migliori vini bianchi di Francia, il cui vitigno risale al decimo secolo, dal bouquet caratterizzato dall’aroma di mandorla, mela verde e nocciola, l’unico che a suo parere poteva essere accostato a quello di Cana.
Naturalmente la preoccupazione del de Bernis era altruistica, “non avrebbe mai osato costringere nostro Signore a fare le smorfie al padre con un vino diverso”.
(Ricordiamo che il vino da messa ha smesso di essere rosso a partire dal quattordicesimo secolo, ufficialmente perché quello bianco è più difficile da adulterare, in realtà perché era diventato sempre più imbarazzante per la chiesa, che lo considerava il sangue di Cristo, giustificare le macchie rosse che finivano inavvertitamente sulle tovaglie degli altari.)
Una curiosità. Da qualche tempo a questa parte si è ricominciato a produrre il “vino di Cana”. Lo si deve ai Salesiani di Betlemme con l’appoggio tra l’altro dell’Istituto agrario di San Michele all’Adige. Questa iniziativa si chiama Cantina di Cremisan, dal nome della località dove sorge il monastero salesiano e si trovano i vitigni.
De Bernis faceva un’eccezione per il vino di Champagne, un vino dalle molte geniture.
Vediamo qualcosa della sua storia.
Il primo a scriverne è Plinio, che apprezzava i vini della Gallia, in particolare quali quelli della campagna intorno a Reims.
Più tardi, gli stessi vini compaiono nel banchetto che Carlo VI offre a Venceslao di Boemia, nel maggio del 1397, sono quelli di Ay di cui Enrico IV si vanta di esserne re.
(Ay è un piccolo comune vinicolo della Marna.)
Sono gli stessi che Madame de Pompadour, a metà del Settecento, si faceva spedire a panieri per la sua tavola, molto spesso rossi, che una moda consigliava di bere accompagnandoli con fette di pane bianco di Gonesse strofinate con l’aglio. Un pane bianco più conosciuto come pain mollet de Gonesse, era una specialità di questa cittadina dell’Île-de-France.
La tradizione reale dei vini di Champagne s’incrina con Luigi XIV a cui il medico glieli aveva proibiti, aprendo una querela che ha nella Défense des vins de Beaune contro le vin de Champagne, scritta dal decano dei medici di Bearne, il suo culmine.
Nell’Ottocento i vini di Champagne si riprenderanno la loro rivincita.
Lo Champagne che conosciamo oggi non è molto diverso da quello che Dom Perignon, procuratore dell’abazzia di Hautevilliers, a un tiro di schioppo di Epérnay, mette a punto nelle sue cantine.
Autore di una mémoire sur la manière de choisir des plants de vigne convenables au sol, sur la façon de la provigner, de les tailler, de mélanger les raisins, d’en faire la cueillette, et de gouverner les vins, questo monaco è anche l’inventore della flûte e del tappo legato, che sostituisce lo stoppaccio intriso d’olio usato fino ad allora.
Ma la leggenda del vino di Champagne non tiene conto di come sono andate le cose, perché il fenomeno dell’effervescenza è un’invenzione inglese accidentale.
Già nel 1600 l’Inghilterra importava vino dalla Francia in barrique e i negozianti inglesi che lo imbottigliavano si erano accorti che durante il viaggio in nave si arricchiva di “bollicine” o di perle, come si dirà più avanti.
Con l’invenzione delle bottiglie di vetro resistenti alla pressione, verso la metà del secolo, questo perlage (o, effervescenza, dovuta all’anidride carbonica) diventa un pregio. A Parigi, le prime bottiglie di questo vino compariranno solo a partire dal 1695.
Le date, qui, sono significative, perché Dom Perignon è nato nel 1638.
Nel 1715 quando muore affida all’abate Golinot, canonico della metropoli di Reims, uno dei suoi segreti per rendere le “bollicine” ancora più delicate e seducenti.
Occorre aggiungere al vino, una volta effettuato il dégorgement, un liquore composto filtrando un infuso di zucchero di canna, pesche snocciolate, cannella, noce moscata ed acquavite.
Nella regione vinicola dello Champagne c’è un piccolo paesino, ricco di storia, che si chiama Bouzy.
A Bouzy fanno un vino con lo stesso nome su un vitigno di Pinot Nero.
La vinificazione e normale o in bianco.
Questo vino entra nella composizione dei vini che fanno gli Champagne migliori.
A proposito di bottiglie.
Il padre della moderna bottiglia di vetro è considerato l’inglese Sir Kenelm Digby (1603-1665). Scienziato, filosofo, cortigiano, corsaro, spia, alchimista, inventore ed autore di un famoso libro di cucina: The Closet of the Eminently Learned Sir Kenelme Digbie Knight Opened. In realtà scritto da un suo servitore dopo la sua morte, considerato, oggi, una eccellente fonte per la cucina e le bevande dell’epoca.
Le sue bottiglie erano, grazie alla lavorazione in una fornace apposita, a forma di tunnel e alla miscela delle materie prime, più resistenti, di color scuro e molto simili nella forma a quelle che conosciamo oggi.
Ma vediamo dalle origini il buon uso del vino.
Il vino, sostenevano i greci, è una bevanda civilizzata, anche se l’allungavano con l’acqua, il miele o lo zucchero di canna.
Veniva conservato e trasportato con le anfore e le giare, alcune delle quali arrivavano fino a tre metri d’altezza.
Erano imbevute di resina per evitare l’eccessiva evaporazione.
Ma non quella che i greci usano ancora oggi, bensì, di terebentina o resina di Bordeaux.
(La terebentina ha l’odore del pino ed è un liquido incolore, oggi si usa solo nell’industria delle vernici. )
Il vino pronto al consumo, invece, si conservava in otri di pelle di capra o nelle vesciche dei maiali.
Va da sé, il suo sapore ne risentiva, ma era sempre una bevanda da signori, i poveri se potevano bevevano birra, altrimenti decotti di orzo o di erbe, qualcosa di simile a quello che oggi chiamiamo tisane.
In Grecia, si beveva anche nel corso delle cerimonie funebri, ma queste libagioni erano regolate da leggi suntuarie.
Non più di dieci litri circa a cerimonia.
Lo sappiamo perché sono state ritrovate delle anfore nei sepolcri con il nome del commerciante e le disposizioni del magistrato.
L’obiettivo di queste disposizioni era di garantire uno stile di vita comune regolato dall’Euphonia, cioè, dalle buone leggi.
Sul piano economico occorre notare che il vino era, di fatto, la prima voce nelle esportazioni della Grecia, seguito dal olio e dal grano, ed era soprattutto il vino che le apportava prestigio.
Di contro, non tutto il vino bevuto dai greci era prodotto in patria.
Gli intenditori bevevano vino libanese, della Palestina, dell’Egitto e soprattutto dal Sud d’Italia.
Un celebre atleta greco, Milone di Crotone, vissuto cinque secoli prima dell’era comune, pugile imbattuto, si racconta che ne bevesse dieci litri al giorno e solo di quello calabrese.
Quel vino, tra l’altro, esiste ancora ed è il vino di Cirò.
In generale, possiamo dire che fino ai Medici, cioè, fino al 1400 circa, il consumo di vino greco in Italia era rilevante, dopo questa data, invece, cominciò a prendere piede il vino italiano.
Prendiamo in considerazione, adesso, la relazione delle donne con il vino. Una questione annosa, complessa e ricca di paure maschili.
PublioTerenzio Afro, vissuto intorno al secondo secolo, afferma:
Sine Cerere et Libero (Baccho) friget Vénus.
Terenzio è un drammaturgo illuminato, a Roma il vino fu per lungo tempo assolutamente interdetto alle donne sotto pena di morte.
Marzio Porcio Catone, detto il “censore” arriva ad affermare, “se vedi la tua donna bere, uccidila!”
Per la verità c’è da notare che, di fatto, le donne a Roma esercitavano un grande potere occulto sulla politica e queste proibizioni non impedivano alle matrone di allestire banchetti e di tramare, oltre che bere.
Ufficialmente potevano bere solo il passum, cioè, un decotto di uva secca, ma perché questa prescrizione?
Le ragioni sono molte, tutte connesse ad una visione maschilista dell’esistenza.
La prima diceva che se il vino è il sangue della vigna e la donna è essenzialmente una mater genitrix, allora se beveva il vino diventava un adultera, cioè, mescolava il suo sangue.
La seconda ragione è che il vino veniva considerato una sostanza abortiva, perché un sangue scaccia l’altro.
Come abbiamo già visto altrove sono quattro i liquidi sacrificali, dunque magici, latte, sangue, acqua e vino.
In quest’ottica se lo scopo primario della donna è la procreazione non ha bisogno della magia dell’ebbrezza per farlo.
Il vino liquido sacrificale. C’è un divertente aneddoto a questo proposito. Lo racconta Sante Lancerio, cameriere segreto e cantiniere di Paolo III, il papa che promosse il Concilio di Trento, che approvò nel 1540 l’ordine dei Gesuiti, che affidò a Michelangelo l’esecuzione degli affreschi della Sistina. Ebbene, racconta Lancerio, Paolo III amava così tanto il vino moscato di Creta e credeva così tanto alle sue virtù che si lavava ogni mattina le genitalia con esso.
Ma torniamo all’ebbrezza, si riteneva che spingesse le donne al delirio e il delirio è da temere perché a volte è profetico!
In ogni modo l’ebbrezza era vista come una possessione e se non era di origine divina, allora era diabolica.
La possessione, nell’antichità, era considerata alla stregua di uno stupro e una donna stuprata non poteva più essere considerata casta.
A Roma queste idee erano così radicate che aveva preso piede un usanza che è arrivata fino all’800, i mariti baciavano al loro rientro le mogli che erano uscite per verificare che non avessero bevuto… altro che gesto affettuoso.
Una tesi curiosa sulla decadenza di Roma, di cui è difficile valutare la portata, sostiene che essa fu provocata anche dall’avvelenamento di piombo. Un metallo che i romani usavano in cucina, per le tubature idriche e nella cosmesi.
Il piombo ingerito in dosi superiori al milligrammo per giorno provoca stitichezza, perdita dell’appetito, paralisi, sterilità maschile, aborto e perfino la morte.
Ebbene, i romani per meglio conservare e dolcificare il vino aggiungevano del succo d’uva non fermentato che era stato bollito e decantato in recipienti rivestiti di piombo.
Così facendo mentre tentavano di sterilizzare il vino, per ironia del destino, finivano per sterilizzare se stessi.
All’ebbrezza si può contrapporre il brindisi.
Cioè, il bere motivato da un pensiero, come tale, diverso dalla furia delirante che procura l’ebbrezza.
Non a caso nell’iconografia l’ebbrezza è sempre femminile mentre gli uomini brindano.
Da un punto di vista agricolo è solo intorno alla fine del secondo secolo (cioè, a più di sei secoli dalla fondazione di Roma) che si può parlare di vigneti italiani.
Questa diffusione capillare della vite fece anche nascere la moda dei vini bianchi, che cominciarono ad essere preferiti a quelli rossi.
Per soddisfare questa domanda di vini bianchi si arrivò perfino a decolorare quelli detti “neri” con i vapori di zolfo.
Con i vini bianchi, tra l’altro, si preparava anche un aperitivo, il mulsum (molso, in italiano) si otteneva mescolando dieci chili di miele con tredici litri di vino e facendo poi stagionare per un mese, al fresco di una cantina, questa pozione. Si bevevo con gli antipasti o, riscaldato, come digestivo.
Anche se i bicchieri esistono da circa seimila anni, le bottiglie in vetro risalgono alla fine del primo secolo.
Una curiosità. Nel 1979, ad un asta inglese furono vendute poche gocce di un vino che risaliva al terzo secolo, probabilmente d’origine siriana, a più di seimila euro. Queste gocce furono trovate in una bottiglia ritrovata in uno scavo.
In ogni modo con le bottiglie appaiono anche i tappi e in qualche modo le etichette dei produttori con l’indicazione del vitigno e dell’anno di vendemmia.
Cambiamo ancora una volta il punto di vista.
Vediamo qualcosa sull’estetica del vino.
Perché il vino costituisce un campo di elezione e di attrazione degli atti alimentari?
I motivi non sono solo nella sua storia e nella sua simbologia.
Piuttosto è già nella sua fisica e nella sua chimica che per molti nascono le sue specificità grazie alla complessità del processo di fermentazione che ne configura l’aspetto finale.
Per queste ragioni il vino è da molti avvicinato, da un punto di vista fenomenologico, ad un’opera d’arte.
Mentre la vita di un piatto è contenuta in un tempo molto breve e di esso non resta traccia se non nella memoria o, a partire dalla ricetta, come traccia della sua riproducibilità, il vino è un oggetto conservabile.
Per questo, da molti, la cantina è percepita come una sorta di museo e la bottiglia, un oggetto trasportabile e comodo, come un’opera d’arte che favorisce non solo la sua comunicabilità, ma anche la sua vita nel tempo.
Insomma, come osserva la semiologia, oggi il vino in bottiglia esprime una sensibilità per il gusto di cui la bottiglia stessa, come confezione, è il vettore.
In questa esperienza del vino, poi, il giudizio su di esso può vantare una ragione in più, perché il buono per il palato si avvicina anche all’idea del bello.
Non per caso, il vocabolario della degustazione e della valutazione si è sviluppato moltissimo, connettendo in un unico linguaggio la qualità del vino con la sua rappresentazione come prodotto mercantile.
Una breve parentesi tecnica sull’estetica del vino.
La prospettiva estetica si legittima appena il vino non viene più considerato una cosa (un mero oggetto), né un semplice alimento, un farmaco o una merce, ma un oggetto estetico.
Cioè, un oggetto dotato di un valore estetico.
Il processo che mira a cogliere il valore estetico del vino è la degustazione.
La degustazione può esprimersi in due forme.
Una forma emotiva che tende al godimento del contenuto estetico del vino.
Una forma razionale, che mira al giudizio, cioè, alla conoscenza del vino come valore.
A grandi linee questa ricerca di un valore è fondata su tre elementi.
La perfezione del prodotto.
L’integrità del suo essere vino, che si riflette sui suoi caratteri organolettici.
I valori estetici, che fanno riferimento alla sua bellezza. (Non vanno confusi con i valori artistici!)
Naturalmente le motivazioni che ci avvicinano al vino sono diverse, come sono diversi i giudizi conseguenti.
Si può essere enologi, consumatori abituali, bevitori occasionali, commercianti, ma solo la motivazione dell’assaggiatore competente è quella ce costruisce il paradigma del vino come valore estetico…se questi è onesto.
Infatti, l’enologo guarda al vino come una sostanza chimica con dei caratteri organolettici specifici, il consumatore abituale lo considera un alimento di una certa piacevolezza, il bevitore occasionale è spesso interessato alle qualità psicotrope dell’alcol, per il commerciante è una merce.
Dunque, solo la posizione dell’assaggiatore competente è quella deputata a scorgervi un valore.
In altri termini, solo assumendo il vino come un oggetto di valore e non una mera cosa si può arrivare a considerarlo un oggetto estetico.
Ricordiamo che il paragone del vino con un’opera d’arte non è di oggi.
Lo scrittore Mario Soldati (1906-1999) in un libro intitolato Vino al vino, del 1971, nel cercare di definire l’essenza del vino lo paragona a tre oggetti. Un manufatto. Un’opera d’arte. Una cosa che vive.
Il vino è un’opera d’arte perchè possiede i cosiddetti “valori di perfezione”, cioè, armonia, eleganza, finezza, struttura, eccetera.
Sono valori che trascendono la razionalità, valori che in qualche modo esaltano il mistero dell’indicibile attraverso la suggestione.
In questo senso alcuni studiosi del vino come una forma di arte avanzano delle analogie con la danza, perché sia il vino che la danza esprimono il movimento di ciò che è vivo.
In questo senso, un’interpretazione suggestiva del vino si trova anche nelle pagine di un filosofo spagnolo, José Ortega y Gasset (1883-1955) un campione del pensiero reazionario europeo, che si compromise con il franchismo, ma anche un acuto osservatore di certi fenomeni di costume.
In un piccolo saggio, Tres cuadros del vino (Tre quadri del vino), del 1911 – i tre quadri sono, Il baccanale di Vecellio Tiziano (1490-1576), Il baccanale di Nicolas Poussin (1594-1665), Gli ubriachi di Diego Velásquez (1599-1660) – mette in relazione il vino con la danza.
Il tema dei baccanali è molto popolare nella pittura europea del rinascimento e del barocco, questi stessi tre artisti ne hanno dipinti più di una versione. In ogni caso, quello di Poussin si rifà a quello di Tiziano, mentre quello di Velásquez e molto più moderno.
Una relazione che Ortega y Gasset intreccia con quella che lui ritiene la natura divina del vino, a cominciare dagli acini del grappolo, definiti “piccoli tumori di luce”. “il vino”, scrive, “fa brillare le campagne, esalta i cuori, illumina le pupille e insegna la danza ai piedi. Il vino è un dio saggio, fecondo e ballerino. Bacco, Dioniso sono un rumore di festa perduta che attraversa, come un vento caldo, le profonde selve vive”.
In particolare, commentando Il baccanale di Tiziano, conclude, “il tempo è un’occulta logica che risiede nel muscolo (di colui che balla), il vino è la potenzia e fa del movimento una danza”.
Dunque, il vino si esperisce in molti modi.
Esso è alimento energizzante e psicotropo, come abbiamo visto, elemento di convivialità, socializzazione, degustazione e conoscenza.
Il vino, quando è degustazione può, secondo molti, avvicinare l’esperienza estetica a quel continuum temporale tipico della contemplazione delle opere.
Esistono i collezionisti di vini come esistono i collezionisti di quadri e, curiosamente, i maggiori collezionisti si trovano in paesi in cui il vino non è una tradizione locale importante.
Basti per tutti l’esempio della Gran Bretagna che annovera gli studiosi e i sommeliers più preparati al mondo.
Per conoscere i vini occorre conoscere la viticoltura e la profonda interazione della pianta e dei suoi frutti con il luogo, il suolo, il clima, il microclima, il tempo.
Poi ci sono delle tecniche e delle decisioni che sono specifiche dell’esperienza pratica, come per esempio, l’assaggio degli acini, una pratica fondamentale che non può essere sostituita da strumenti deduttivi o scientifici. Così come scegliere il momento esatto della vendemmia.
La stessa vinificazione appartiene al sapere enologico, è una sorta di cucina del vino.
La fermentazione degli zuccheri in alcoli e gli altri processi rappresentano una vera e propria trasfigurazione dell’uva in bevanda.
Sulla scelta delle temperature, sulla fermentazione e sulla macerazione, sui lieviti che si possono usare, sulle capacità di previsione, si costruisce l’ordito che fa esatta la scienza enologica.
Una scienza che riflette l’arte dei vignaioli i quali a loro volta con il loro estro “crescono” il vino.
Non per caso nella lingua francese l’affinamento del vino si dice élevage, allevamento, a sottolineare un’analogia tra la maturazione del vino e la crescita degli animali domestici.
Alla fine il vino ha anche un nome proprio a sottolinearne l’unicità, scrive Karen Blixen, nel racconto sul pranzo di Babette:
Cosa c’è la dentro, Babette? Spero che non sia del vino. Del vino, signora? Esclama Bebette. No di certo! È del Clos-Vougeot 1846.
Non possiamo però chiudere il nostro discorso sul vino senza un po’ di polemica
San Francesco di Sales (1567-1622), vescovo di Ginevra, nel suo Traité de l’amour de Dieu afferma: Solo i capezzoli di Santa Teresa sono meglio del vino.
Possiamo credergli, sia perché le immagini lattiformi hanno sempre dilagato nell’immaginario primitivo e tra le nevrosi ossessive, sia perché la fonte della suzione rimanda al seno, cioè, ad uno degli objets (petit) a, che nella psico-analisi lacaniana identificano la jouissance.
In ogni modo, nella modernità, le statuette paleolitiche dai seni ipertrofici sono state sostituite dalla barrique, una voce celtica che sta per botte da duecentoventicinque litri.
Arnold Van Gennep (1873-1957), un grande studioso del folclore della mitteleuropea, ha dimostrato che sono numerosi i miti in cui il soma è estratto dal frutto dell’albero lunare attraverso un processo di fermentazione.
Un’osservazione che, in qualche modo, mette sul medesimo registro il vino, le sostanze che alterano la coscienza e le cerimonie, cioè, le procedure di produzione che sono, allo stesso tempo, rivelazione e iniziazione.
Due righe sull’albero lunare.
La rappresentazione della divinità lunare più antica è una pietra a cono o a pilastro. A volte, poi, era di origine meteoritica. Anche il colore variava, dal bianco al nero. Poi, accanto a questa pietra si ergeva un pilastro di legno e spesso sulla pietra era inciso qualcosa che ricorda un albero con i suoi rami. In un tronco di legno fu seppellita la dea Osiride. Anche Diana era accostata ad un albero e così Attis, figlio ed amante di Cibale, veniva celebrato nella sua resurrezione legato ad un tronco di pini senza rami.
L’albero lunare spesso era ricoperto di fiori e frutta ed intorno ad esso si danzava. C’è chi ha visto in questo albero l’antenato del nostro albero di Natale.
In ogni caso la psicoanalisi ci suggerisce che questa cerimonia era una metafora della castrazione, soprattutto quando quest’albero veniva tagliato in forma di giaciglio. Perché simbolo di castrazione? Ce lo suggerisce Lévi-Strauss, il passaggio dalla natura alla cultura è segnato dal tabù dell’incesto.
Gaston Bachelard (1884-1962) il filosofo che ha rivoluzionato l’epistemologia moderna, fa derivare il vino, legandolo alle stelle, da un destino zodiacale che, “nel più profondo delle cantine ricomincia il cammino del sole nella casa del cielo”.
Un modo poetico per dire che per comprendere meglio il vino e le bevande fermentate in genere occorre far penetrare nel simbolismo alimentare le immagini cosmiche e cicliche di origine agraria, che ne hanno ispirato, all’origine, la nascita.
L’esito di tale penetrazione è evidente, il vino fiorisce come la vite e il vignaiolo è il suo guardiano.
A che cosa fa la guardia il vignaiolo?
Al segreto della bevanda, “acqua di giovinezza”.
Mircea Elide (1907-1986), un antropologo rumeno e grande studioso delle religioni, nel suo Traité d’histoire des religions, scrive che nella tradizione semitica la madre era anche chiamata “ceppo di vite”.
In un antico racconto mesopotanico compare la dea Siduri, la “donna del vino”, definita la signora della fermentazione.
Corrisponde ad un’altra dea, la ricciuta Circe dell’Odissea, che abita al centro dell’ombelico del mare, maestra dell’ebbrezza che smemora.
È su sentieri narrativi come questi che il vino ha finito per conquistare un ruolo nel discorso mitologico diventando il simbolo della vita nascosta e della giovinezza trionfante, ed è così che esso riabilita la grevità del sangue che sgorga dalle ferite e vince ogni anemia del tempo non vissuto.
Ma è ancora così?
In un documento sulla salute nel mondo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità si legge che l’alcol provoca direttamente o indirettamente il dieci per cento di tutte le malattie, il dieci per cento dei tumori, oltre il sessanta per cento delle cirrosi epatiche, circa l’otto per cento delle malattie croniche, ma anche il quaranta per cento degli omicidi e più del quaranta per cento degli incidenti. È la causa di morte di un giovane su quattro tra i quindici anni e i ventinove e i problemi che provoca costano, ai paesi del mondo occidentale, circa il tre per cento del loro prodotto interno lordo.
Un tempo, invece, il whiskey gaelico, il maie–i-shebab persiano, il geshtin sumerico erano simbolizzati dall’acqua-di-vita che congiungeva nello stesso isomorfismo la sessualità alla suzione.
Un isomorfismo tanto evidente che, a questo proposito, Gilbert Durand, un grande studioso francese delle strutture dell’immaginario, ha osservato come “il latte (che riflette la natura) e il vino (frutto dell’artificio) si confondono sempre nel godimento dei mistici”.
Una tesi che è presente anche in San Giovanni della Croce, un mistico spagnolo del XVI secolo, così come nella saggezza di Omar Khayyam (1048-1131), il nome con il quale conosciamo uno dei più grandi eruditi iraniani, matematico, astronomo, poeta e filosofo, che esalta le virtù dell’ebbrezza e paragona il vino al sangue delle vene di Cibele, una divinità anatolica capace di spingere i suoi sacerdoti a culti orgiastici, che si celebravano durante l’equinozio di primavera.
Oggi, invece, il processo di simbolizzazione mitografica delle bevande alcoliche, e del vino in particolare, deve essere sorretto da un certo immaginario scientifico, cioè, da una sorta di critica d’arte chiamata “analisi sensoriale”.
Un’analisi che ha anche il compito pratico di pareggiare i punti di vista addomesticando, per così dire, la dimensione “gustativa”.
Così, combinando le rappresentazioni simboliche, il piacere psico-sensoriale della bevanda e l’attività pseudo-educativa degli esperti si costruisce un ethos del vino in senso letterario, cioè, un paradigma di costume e di cerimonie la cui funzione è permettere di legare insieme la presentazione teatralizzata della bevanda con l’investimento emotivo del bevitore.
In altri termini, il vino, nella modernità, ha raggiunto e consolidato soprattutto una funzione ed un uso sociale.
Il meccanismo simbolico dell’incorporazione che lo caratterizza come bevanda, provoca nel contesto culturale della società dei “distinguo”, cioè, delle inclusioni, delle esclusioni e delle complicità solidali in base agli stili di vita.
In breve, il vino concorre ad enucleare le disparità sociali perché ha una dimensione di classe e financo, per usare il gergo della cultura femminista, sessista.
Una disparità evidente che si manifesta come distinzione.
Come sedicente fonte di benessere, poi, il vino pone il problema dell’eccesso.
Da un lato, soprattutto tra le classi con più reddito, è vissuto come una pozione magica che fa bene.
Dall’altro, invece,“brucia” la vita ed eccita l’aggressività, con i suoi cerimoniali, con le sue gare, giocate sul filo della virilità, su chi resiste all’affondamento, al passaggio dall’ebbrezza alla sbornia.
Un risvolto che da tempo caratterizza la sua traiettoria socio-culturale tra le periferie urbane.
Per gli aristocratici ieri e i grandi borghesi oggi bere è un’arte per affermare il savoir–vivre.
Abbiamo anche un’inversione dialettica del principio d’incorporazione, è il prestigio del bevitore che fa la reputazione del vino.
Ai poveri, invece, provvede l’esperto, il più delle volte dai palcoscenici televisivi, veri è propri, théâtre gourmand, dove tutto si risolve nell’atto di guardare.
Sono oramai lontani i tempi in cui il vino, sull’onda dei grandi flussi d’inurbanizzazione, si divideva tra vin agrément e vin aliment.
A metà dell’Ottocento il consumo di vino nelle grandi città europee, come registrano le prime tavole statistiche, era intorno ai cinquanta litri pro-capite.
Alla vigilia della prima guerra mondiale il suo consumo era salito del centosessanta per cento, legando in un unico processo il mito del vino alimento all’apparizione del proletariato urbano.
In questi ultimi anni il suo consumo è precipitato del cinquanta per cento, ma si è imposta l’immagine del vino come piacere.
Un vino, come si dice in gergo “griffato” che già da una decina di anni batte, in volumi di produzione, il cosiddetto vino da tavola.
Insomma, l’immagine del vino fonte di calorie è definitivamente tramontata per lasciare il passo a nuove mitologie, nelle quali è sempre più rilevante il ruolo femminile e la possibilità di accedere ad una distinzione sociale e a stili di vita presi a prestito dalle categorie sociali più prestigiose.
Prima della modernità, come abbiamo visto, l’asimmetria del consumo tra i maschi e le femmine era la conseguenza di tre pregiudizi:
Quella del vino bevanda viva, dunque, che feconda.
Del vino metafora del sangue divino, lontano dalla perfidia di quel altro, rosso e diabolico, che cola dal sorriso verticale della donna, così potente da suggerire l’interdizione alle cantine alla femmina mestruata, che non monta.
Del vino tentazione, che allenta i vincoli morali, cala le braghe e sopprime l’auto-censura della domesticazione sociale.
Sul pregiudizio mestruale il marketing e l’astuzia mercantile hanno ha poi costruito (montato) una grande opera di mediazione a favore del consumo estensivo, fino a femminilizzarlo, cioè, ad occultarne la fermentazione, che rappresentava un tempo il suo lato vivente, incontrollabile e affascinante.
In altri termini, la fermentazione è drasticamente controllata e non viene più considerata importante nella divulgazione dei caratteri organolettici del vino.
Da tempo, le nuove mode hanno imposto un vino che si beve primeur, nouveau, giovane.
La donna strega che popolava il medioevo si è tramutata in una fata che trasforma i vini giovani in barriere contro l’invecchiamento.
È diventata un’ape operaia. Da “riproduttrice” o infetta, secondo il ciclo riproduttivo, è rinata come protagonista di nuovi marketing, tanto che per lei si è arrivati al punto di modificare diverse delle caratteristiche classiche del vino e a progettare un nuovo vocabolario descrittivo che ha finito per raddoppiare i testi sulle etichette, sempre più poetici ed ermetici.
È nato un nuovo vocabolario, che insiste ossessivamente sull’aspetto fruttato e acidulo di questa bevanda che, come tutti sanno, non ha niente a che fare con i succhi di frutta.
Siamo arrivati così al paradosso che non è più l’uva il frutto caratterizzante, ma il lampone, il cassis, la banana, la mora, la fragola, le mele (acerbe o mature, di diversa qualità, delizia, renetta, cotogna), la pera Williams, la marasca, il ribes, la pesca, il limone, l’albicocca.
Per non parlare degli odori di fiori, delle erbe aromatiche e dei sentori organici, dalla pelliccia alla buccia di formaggio, allo sterco di pollo, passando per quello più perturbante, l’odore di benzoino, lo stesso dei guanti con il quale, scrive François Rabelais, la madre di Pantagruel si masturbava.
In breve, tutti questi riferimenti hanno un solo obiettivo, di rimuovere lo spettro dell’alcolismo, farlo sparire dall’orizzonte del consumatore, anche se naturalmente, non è così.
Per questo il marketing insiste molto sulla leggerezza e l’emozione gustativa, piuttosto che sui risultati organolettici di un buon invecchiamento, con la conseguenza di legittimare, anche nell’arte di bere, il piacere immediato e acritico.
Tutto questo poi s’intreccia con i miti pitagorici del cibo leggero e con l’edonismo di un corpo avviluppato nel narcisismo, che non deve essere “disturbato” dal grasso superfluo o dall’alcolemia.
Chi lo garantisce?
Gli acronimi che disegnano i parametri della qualità e che segnano il passaggio dal vino da tavola al vino definito e millesimato, senza dimenticare, per i bio-salutisti, la moda del vins de pays.
(Questi acronimi vanno da VLQPRD, Vini liquorosi di qualità prodotti in regioni determinate, a
VQPRD, Vini di qualità prodotti in regioni determinate, a DOCG, Vini a denominazione di origine controllata e garantita, a IGT, Vvini da tavola coon indicazione geografica tipica, eccetera…).
L’illusione di una autenticità di ciò che s’ingurgita, come sappiamo, diminuisce l’ansietà ancestrale dell’animale onnivoro.
Un’ansia che, sottolinea la sociologia degli atti alimentari, esprime l’angoscia e la crisi della funzione regolatrice dell’alimentazione, accentuata, nella modernità, dall’ignoranza che accompagna la natura e la lavorazione degli alimenti.
Dove ci porta tutto questo a proposito di vino?
Al vino che si trasforma in bene economico.
Un bene in crisi come prodotto per gli attori e la filiera, ma diventato come merce un prodotto di ben mirate speculazione favorite anche da una certa pubblicistica patinata e corrotta.
In pratica il suo valore d’uso si trasforma in valore di scambio, disegnando una merce da sfruttare che genera, sul piano dell’inconscio, secondo sia la vulgata marxiana che la psicologia, insoddisfazione. Cioè, la necessità di ripetere in modo compulsivo il consumo.
È da tempo popolare l’aneddoto di Talleyrand (1754-1838), un grande diplomatico e un grande camaleonte politico, che insegna ad un suo ospite, precipitoso nel portare un bicchiere di vino alle labbra, di fermarsi ed osservarlo con cura. “E dopo?, replica l’ospite, Lo si beve?” “No”, risponde Talleyrand, “dopo, lo si rimette sulla tavola e se ne parla!”
Davanti al rischio indecente dell’ubriachezza l’arte di bere tende sempre di più ad imporsi prima di tutto come volontà d’ordine ed esperienza estetica.
Il vino, così, diventa una forma che obbedisce a dei criteri di progetto o, meglio, di classicità.
Proviamo ad ascoltare gli esperti.
Il buon vino è ben strutturato, equilibrato, armonioso, austero, carezzevole, di razza.
Il cattivo, invece, è molle, piatto, con delle difformità ed irregolarità che lo fanno angoloso, senza equilibrio, cedevole, non convincente.
Che appartenga alla donna o al “maligno” la seduzione del vino implica, come abbiamo visto, che esso sia un “essere vivente” e, a questo titolo, in qualche modo, vive, può essere giovane o giovanile, invecchia, ha un’attività, perché lavora, poi, deperisce, diviene senile e muore.
Ad esso si riconosce, con il carattere, anche una certa moralità, perché può apparire piacevole, amabile, sincero, nervoso, austero, franco e generoso.
Molte volte si usa il gergo medico, è quando il vino appare sano o malato, affaticato, febbricitante, spesse volte lo si giudica anemico, bisognoso di un matrimonio all’italiana, con i maschi vitigni del Sud, assolati e babbei.
Questo ultimo aspetto tradisce la sua antica natura di pharmakon, al tempo stesso rimedio e veleno.
Ma il vino ha anche un “corpo” e, se ha un corpo, ha necessariamente anche un “sesso”, sul quale l’esperto rovescia il non-detto del proprio erotismo.
Significative sono le immagini che gli assegnano una sessualità, si parla di vino maschile, virile, oppure che possiede le grazie della femminilità. Allora è carezzevole e ci da’ amore.
Qui, la figura della metonimia è evidente e denuncia l’attività erotica dell’ebbro, che accarezza la bottiglia o la bacia, salvo poi bere a garganella, espressione plastica finale di un’oralità infantile che riaffiora prepotente.
Charles Baudelaire (1821-1867), il poeta de I fiori del male, in Du vin et du haschisch, afferma che, quelli che non bevono mai del vino sono degli imbecilli o degli ipocriti.
Ma Baudelaire, non conosceva gli esperti, cioè, coloro che vogliono educare la soggettività capricciosa al buon gusto della doxa.
Coloro che vogliono trasformare il mangiare e il bere nell’arte di gustare.
La formula pedagogica è la stessa che ha ridotto l’erotismo e le sue arti in una conquista sulla sessualità azzoppata.
Perché gestire il gusto significa banalizzarlo.
Se si vuole un parallelo, c’è quello degli odori. Oggi si temono a tal punto da considerare primitivi coloro che li apprezzano.
Gli esperti del gusto sono continuamente alla ricerca di un consenso che umili l’apparente soggettività della sensazione incomunicabile.
Ecco perché i vini devono essere stabilizzati, per consentire il lavoro della lingua.
L’iniziato alla degustazione deve essere un soggetto di buona volontà, deve imparare a nominare, classificare, testare, annotare, valutare, giudicare e, soprattutto, comunicare.
In altre parole, questo lavoro della lingua si fonda su una messa in ordine simbolica del corpo.
All’inizio dell’apprendimento non si tratta di bere o di bere del vino, ma di bere un vino qualificato, determinato, e di rendersi capaci di un discorso sul godimento che provoca, come di una valutazione che si confronta con le parole degli altri.
Questa educazione pone un interrogativo.
Si tratta forse di una sublimazione? Se è così si deve ammettere ciò che abbiamo già intuito, una complicità intima del gusto con la pulsione orale.
Pulsione che, regolando, ab initio, la vita del neonato, è all’opera da sempre nei meccanismi della sessualità.
Sublimazione mette insieme un’espressione derivata dall’arte, l’idea di sublime, con una derivata dalla chimica, sublimare, cioè, passare dallo stato solido allo stato gassoso.
Sigmund Freud l’impiega per rendere visibile un tipo particolare di attività umana che trae la sua forza dalla pulsione sessuale per diventare un investimento su un oggetto socialmente valorizzante.
La sublimazione, in questo senso, è una dimensione narcisistica dell’io che nella modernità, come ha dimostrato Cornelius Castoriadis in L’institution imaginaire de la société, è diventata un fatto sociale, una narcosi per le ultime speranze di una rivoluzione evolutiva della società.
Alla fine, da dove trae il suo successo la cerimonia degustativa?
Platone direbbe da una realtà misurata con gli stereotipi, da un’estetica della somiglianza.
Quando l’esperto giudica un vino di quel cru, di quel clos, di tale millesimazione, egli fa appello alla memoria per decidere ciò che deve essere in conformità con un modello già conosciuto.
Una tale operazione equipara il vino ad un’opera d’arte, ad un prodotto culturale vivente distrutto dalla fruizione.
Un motivo in più perché l’immaginario e il simbolico tracimino nel mistico.
Non per caso si dice che, per fare del buon vino, ci vuole l’illusione di un bene salvifico, l’amore.