Ad integrazione della seconda e terza lezione.
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La complessità delle forme culturali, specifiche della specie umana, non può essere trasmessa che attraverso l’apprendimento, ed esse rappresentano un ingente patrimonio che si evolve e si modifica nel tempo.
Con le forme culturali gli individui sono in grado sia di costruirsi un’appartenenza comune che di differenziarsi dagli altri gruppi umani.
Nel caso degli atti alimentari va anche considerato che la cultura gioca un ruolo determinante fin dalla nascita, perché è in funzione di essa che gli adulti adottano le pratiche alimentari ed educative del bambino ed è sempre in funzione di essa che ne modellano le risposte.
Ma torniamo al ruolo dell’apprendimento.
Come dicono i sociologi l’essere umano è programmato per apprendere e, nel caso specifico degli atti e delle pratiche alimentari, l’apprendimento gioca un ruolo capitale nel suo sviluppo.
Quando nasce, infatti, l’uomo non è in grado di nutrirsi se non attraverso l’assunzione di prodotti lattei e preferibilmente zuccherati.
Al di là di questa iniziale programmazione, che deriva dal nostro patrimonio genetico, tutto il resto è dovuto all’apprendimento, cioè all’utilizzo delle capacità sensoriali e all’acquisizione di quelle che i francesi chiamano les manières de table.
Insomma, tutti gli esseri viventi mangiano, l’uomo cucina, cucinando produce cultura e concorre alla costruzione di quelle istituzioni che gli garantiscono una certa stabilità culturale, soprattutto per quanto riguarda l’equilibrio e la stabilità (nel tempo) delle comunità nomadiche.
È questo il motivo che fa ancora oggi della cucina ebraica un grande elemento della tradizione, così come lo è stato ieri degli uomini del deserto.
Le ricerche effettuate sul comportamento alimentare dei neonati hanno poi messo in luce che il loro apprendimento è molto precoce.
Gli apparati sensoriali, in particolare quelli gustativi ed olfattivi, cominciano a funzionare già in utero, cioè dal quarto mese circa dal momento del concepimento.
Queste forme di apprendimento, va da sé, sono molto rozze e non possiedono un significato coerente, riguardano specialmente la percezione del dolce, dell’acido e di alcuni specifici aromi, tra cui, curiosamente, spicca quello del limone o, meglio, dell’acido citrico.
Nell’analisi fenomenologia dei comportamenti alimentari c’è anche da considerare un fatto che li complica notevolmente.
Infatti, nonostante sul piano sensoriale le sensazioni legate al gusto e all’odorato siano molto importanti, noi non possiamo sapere ciò che prova l’Altro se non attraverso quello che dice, che è capace di esprimere.
Così, il trattamento cognitivo delle informazioni sensoriali ha bisogno di un apprendimento che si dispiega su diversi fronti, non da ultimo, quello dell’adozione di un vocabolario di convenzioni sociali e culturali agite all’interno di una stessa cornice metacomunicativa.
Per quanto riguarda il gusto e l’odorato non esiste per l’uomo una scala di grandezza della loro intensità iscritta nell’organismo.
Diciamo che è l’esperienza che ce lo insegna, assaggiando e confrontando gli alimenti.
Tuttavia, la frazione d’intensità, vale a dire, della stimolazione necessaria per apprezzare queste esperienze, varia da individuo ad individuo e nello stesso individuo in rapporto all’età, allo stato di salute, alle condizioni oggettive di vita, alla cultura.
In genere, questo apprendimento implica il ricorso ad una scala di valutazione personale il più delle volte memorizzata.
In tutti i casi, malgrado le grandi differenze che sussistono tra gli individui, differenze che sono accresciute anche dalle diverse esperienze culturali e dalla contingenza della vita materiale, esiste quella che possiamo chiamare una sorta di consenso che caratterizza il gusto di una comunità.
Questo consenso, nella forma di un apprendimento, ha un’origine culturale, deriva dalle abitudini della comunità in questione ed esso contribuisce alla creazione della sua identità sociale.
Ne deriva, per esempio, che noi tutti riconosciamo certi alimenti come “nostri”, come “loro” o degli “altri”.
La stessa radice etimologica, nelle espressioni di odio e odore, la dice lunga sull’importanza dell’odore nella formazione della sociabilità.
Nel contesto degli atti alimentari, dunque, la sensazione è il primo passo della scala che porta al messaggio sensoriale.
La sensazione rappresenta tecnicamente l’impressione che si riceve per l’intermediazione dei sensi.
Possiamo definirla un fatto psico-fisiologico elementare proprio degli organismi superiori, il risultato dell’azione di un eccitante su un recettore sensoriale (organi del senso, muscoli, viscere…) che per l’intermediazione dei nervi trasmette l’eccitazione ad un centro nervoso.
La soglia di sensazione, invece, è un concetto psicofisico che corrisponde alla quantità minima di eccitazione necessaria per dare luogo ad una sensazione minima in un dato ambito.
Non va confusa con la soglia differenziale, un concetto sviluppato da Gustav Fechner (1801-1887, psicologo tedesco) e che rinvia all’aumento o alla diminuzione dell’intensità necessaria ad una eccitazione perché la sensazione passi ad un grado superiore o inferiore d’intensità.
A questo proposito, la legge di Weber afferma che la soglia differenziale è proporzionata all’intensità iniziale dell’eccitazione.
Wilhelm Weber, medico tedesco, nel 1834 stabilì che la soglia differenziale (deltaR) di ciascun stimolo è una frazione (o, proporzione) costante (K) dell’intensità dello stimolo iniziale R , esprimibile secondo la formula:
Delta R
K= —————
R
Tornando al messaggio sensoriale il suo significato si acquisisce con l’apprendimento, con la ripetizione e con le associazioni che si fanno intorno ad esso.
Quella che chiamiamo la percezione gustativa, invece, si costruisce attraverso la ripetizione delle esperienze e l’assemblaggio dei diversi messaggi in un dato significativo, che dovrà essere memorizzato dalla coscienza.
Come lavoro di formazione delle categorie, la percezione gustativa è, probabilmente, uno degli elementi più importanti che intervengono nelle pratiche alimentari, mettendo in gioco il chi mangia con il mangiato.
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Passiamo, adesso, al mangiato e interroghiamoci su che cos’è un alimento?
La risposta più ovvia è: Tutto ciò che si mangia.
Possiamo aggiungere, ma è un corollario, che apporta delle sostanze nutritive all’organismo, che risponde a certi criteri di sicurezza e di igiene, che da piacere.
Ciò è sostanzialmente vero, ma non è tutto. Infatti, ciascuna comunità o gruppo non consuma che una piccola parte di tutto ciò che è commestibile.
I casi sono numerosi.
In quasi tutte le culture ci sono delle interdizioni culturali e religiose.
Per fare degli esempi che tutti conoscono pensiamo alla proibizione di consumare la carne di maiale presso gli arabi e gli ebrei o la carne bovina presso gl’indiani.
Oppure, al fatto che i latini mangiano carne di cavallo e rane, che non sono considerati appetibili in Inghilterra o negli Stati Uniti.
Che i russi fanno inorridire gli inglesi, mangiando le volpi. Che i vietnamiti e i cinesi, mangiando i cani e le scimmie, fanno inorridire gli occidentali.
Si possono anche fare esempi più esotici, perché c’è chi mangia le meduse, i topi, i serpenti, certe famiglie d’insetti o di larve, che hanno il merito di essere ricche di proteine, le tartarughe, le balene, i delfini.
Tutti questi animali, in pratica, sono degli alimenti per certuni e un abomina per altri, e lasciamo stare i vegetali, le alghe, certi frutti, le muffe e i funghi.
Inciso
Verosimilmente è un fattore economico che ha interdetto all’Islam il consumo della carne di maiale e del vino, esattamente come lo è il divieto di consumare carne bovina in India o, nel medioevo cristiano, di mangiare carne di cavallo.
Del resto, il Corano promette ai fedeli fiumi incorruttibili d’acqua, di latte, di miele e di vino. Sentieri alla rovescia, rispettivamente, della vita, del nutrimento, della dolce saggezza e della conoscenza divina.
In ogni epoca e sotto ogni latitudine, le argomentazioni economiche hanno sempre evaporato a favore della politica o delle convinzioni spirituali. Non fa eccezione il destino del maiale, che s’inscrive in una lotta classica nella storia del progresso, quella tra la campagna e la città per il predominio dei loro contrapposti interessi.
C’è stato un momento, infatti, nelle cronache della fame, in cui l’allevamento diffuso di questo animale era divenuto pregiudiziale al controllo che la politica esercitava sull’individuo e sull’esercizio dei poteri centrali sui mercati alimentari, anche in considerazione della sua dieta integrata con i cereali.
Centralizzando l’ammasso del grano e proibendo l’uso del lardo, in favore dell’olio d’oliva, più facile da commercializzare, si è spezzata l’indipendenza delle comunità di campagna che vivevano, oltre che sulla coltivazione dei cereali, sul consumo del sangue, del latte e delle carni.
C’è poi la questione del nomadismo, tipico delle regioni aride ed ostile a un animale che non cammina, così distante dal modo di vivere dei beduini e così vicino alle culture sedentarie. In queste condizioni era inevitabile che gli stili di vita finissero per diventare distintivi. L’allevamento del maiale per gli ebrei e i mussulmani diventò così la metafora di un cambiamento che poteva, per la sua radicalità, degenerare nel dramma, essendo esso inscritto nell’ambito di un’economia dove l’erba spontanea e i vasti territori abitati dal nulla garantivano un equilibrio tribale.
Di più, c’è da considerare come, dietro la stanzialità, s’intravedesse una tragica concorrenza tra due mammiferi onnivori, con l’aggravante, per uno dei due, di non produrre lana, di non tirare un carro, di non poter essere montato.
Fa eccezione in questa storia la Cina, dove i poteri centrali hanno sempre preferito politiche più liberiste, ma si deve considerare che nelle uniche zone irrigate del Medio Oriente si coltivavano soprattutto datteri, fatta esclusione un tempo per la Siria, la madre dei cereali.
In sostanza, oltre all’influenza della cultura ebraica sulle norme alimentari islamiche, le ragioni dell’interdizione della carne di maiale sono più vicine all’intrigo politico che a quelle dell’etica religiosa.
(Nella religione ebraica, invece, Dio non si spiega con i suoi figli, né direttamente, né con i suoi profeti, “il-così-è” non ha né una causa né una logica, ma appare come una rappresentazione del nome della legge, la cui ragione è essenzialmente il limite, la mutilazione del godimento che”la” esalta.)
Ne deriva che, tra gli uomini, il consumo di un alimento non è sempre il frutto di un processo razionale o di una scelta imposta esclusivamente da un imperativo economico e non è sufficiente che un prodotto sia biologicamente assimilabile per l’organismo perché sia accettato sul piano culturale.
In pratica, sia considerato un cibo.
Imparare a mangiare significa, allora, apprendere a riconoscere la cornice argomentativa entro la quale i prodotti sono accettati e considerati come commestibili.
Questa cornice argomentativa, questo repertorio culturale ha, per gli individui, dei punti in comune, ma anche dei punti di divergenza.
Infatti, imparare a conoscere un repertorio alimentare significa anche socializzare.
È un po’ come apprendere una lingua per poter comunicare meglio.
A questo proposito osserviamo che da tempo l’antropologia e le scienze sociali riconoscono che il ruolo dell’alimentazione e della cucina è simile a quello del linguaggio, di creare uno spazio comune di comunicazione.
Spazio che può essere più o meno ampio, profondo e intrecciato da riti o da cerimonie.
Gli atti alimentari, come la lingua parlata, permettono di costruire dei legami di appartenenza e, per conseguenza, di classe e di distinzione sociale.
La distinzione, infatti, nelle scienze sociali identifica il segnale destinato a far riconoscere immediatamente l’appartenenza di un individuo ad un gruppo generalmente considerato come superiore. Più in generale, essa descrive le maniere di essere e i fatti socialmente determinati, cioè, gli “habitus” e li riassume negli stili di vita.
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Il problema è riconoscere l’identità del mangiato.
In questo ambito assume una grande importanza il concetto di gusto, ma è un’espressione polisemica.
Nel linguaggio comune significa una sensazione connessa ad un insieme di proprietà. Nell’ambito alimentare, per metonimia, indica il sapore stesso, acido, amaro, zuccherato, salato. Gusto, poi, è anche sinonimo di appetito.
Questa sensazione sul piano cognitivo, può essere abbastanza facilmente identificata, nominata, padroneggiata ed è per questo che noi apprendiamo fin dalla più piccola età a nominare i sapori e a riconoscere gli alimenti.
Sul piano affettivo, invece, questa sensazione richiama, anche nostro malgrado, il piacere o il disgusto.
Prima di procedere spendiamo due parole sull’espressione di self, un’espressione con la quale nella lingua inglese si identifica l’identità dell’individuo nelle relazioni face to face.
È un concetto molto usato anche in psicologia e in psicanalisi, da cui è stato mediato.
Didier Anzieu, un decano della psicoanalisi francese, a questo proposito, ha scritto una quindicina d’anni fa un libro sui confini del self, intitolato, Lemoi–peau, (L’io-pelle).
Perché è importante la nozione di self?
Perché gioca un ruolo decisivo nel rapporto che noi abbiamo con il nostro corpo e il corpo degli altri.
Non solo, perché il self caratterizza anche il modo con cui noi percepiamo la sostanza corporale con la quale siamo fatti e che non si limita a un po’ d’acqua, lipidi, aminoacidi, eccetera.
La nostra esperienza della vita quotidiana ci dice che la percezione della nostra sostanza corporale cambia di contenuto davanti ai nostri occhi quando supera i limiti del self.
In questo modo il self si è rivelato un concetto molto importante per studiare il gusto e il disgusto e il modo di percepire la prossimità con gli altri.
Facciamo qualche esempio. noi non abbiamo disgusto della saliva che si trova nella nostra bocca, ma se la raccogliamo in un bicchiere molto difficilmente riusciremo a rimetterla in bocca e inghiottirla. Perché?
Perché quando le nostre secrezioni superano il limite del nostro io–pelle ci diventano estranee, e simmetricamente, quelle degli altri ci provocano disgusto più si avvicinano a noi.
É come se le vivessimo in modo intrusivo, è come se dovessimo difenderci da esse.
La stessa cosa si può dire per il sangue, a noi non da fastidio succhiare il nostro sangue, che esce da un dito che ci siamo feriti affettando del pane, ma se questo sangue lo raccogliamo con una garza, difficilmente avremmo poi una disposizione a succhiarla.
Di contro, il self diventa tollerante con le relazioni di vicinanza derivate da un’attrazione emotiva.
Nelle relazioni intime il self diventa, di fatto, un acceleratore dell’intimità, come nel caso della saliva del bambino che non è ripugnante agli occhi della madre, così come non lo sono le secrezioni dei nostri partner sessuali, ma che, attenzione, tornano ad esserlo se l’intimità viene spezzata da una separazione o da un contrasto. .
Con il self, tra l’altro si possono spiegare anche molti dei meccanismi del feticismo, che trasformano la distanza e la familiarità degli oggetti che appartengono al soggetto amato.
In questo senso l’intimità come la tenerezza contaminano positivamente gli oggetti avvicinandoli a noi, facendoli diventare familiari, esattamente come il disgusto li allontana.
Qui, c’è un altro interessante tema che si affaccia, anche se non abbiamo il tempo di esaminarlo in extenso. Il tema della contaminazione che, insieme alle tesi sul pensiero magico, sono stati studiati da un grande antropologo inglese in un’opera famosa. Stiamo parlando di Il ramo d’oro di James (George) Frazer (1854-1941).
La nozione di self, poi, serve anche a completare il paradigma della prossemica, intesa come quel capitolo della semiologia che studia il significato del comportamento umano (gesti, posizioni, distanze posture) dal punto di vista dei processi comunicativi.
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Si può dire, in sostanza, che gli alimenti ci appaiono in funzione delle idee che uno si è fatto delle loro virtù, tanto che si può parlare di una identità ideale del mangiato.
C’è un’intera letteratura sulle virtù dei brodi ristoratori che attraversa l’Ottocento, brodi che oggi ci appaiono disgustosi con i loro occhi di grasso giallo…
Di fatto, l’Ottocento, nonostante i progressi positivi delle scienze e della fisica, appare permeato dal fascino barocco dei fluidi, dalle condense bianchicce e nebbiose degli alambicchi, dalla natura metafisica delle essenze, dalle intemperanze della “grascia”, del piacere del masticare.
Si ritiene che le qualità motrici del corpo umano nascono dagli umori e si trasformano in forza muscolare. La parola d’ordine è una sola, ci vuole più carne. Un alimento che asseconda l’edonismo un po’ rozzo dei nuovi padroni del mondo che aspirano alle virtù della bonne chère scambiata per la douceur de vivre.
La gastrosofia romantica dell’alimentazione, che identificava nel mondo rurale e contadino un universo ideale, è adesso considerata una predicazione pericolosa e malsana, troppi amidi, troppi vegetali, le fibre fanno volume, imbarazzano, esattamente come imbarazza la castità, in un secolo che ha preteso di confrontarsi con la perversione.
L’epoca vittoriana era ossessionata dalla sessualità esattamente come la nostra dal “privato”.
Alla resa dei conti l’ordine fisiologico doveva rispecchiare l’ordine politico-economico dominante come se fosse uno stile di vita.
Questa svolta scientifica, a cavallo tra igiene ed economia, che investe la nutrizione e ricama con l’unto dei suoi intingoli metafisici gli incubi delle fami metropolitane, ha i suoi prodromi nel diciottesimo secolo, con la scoperta delle gelatine e le ricerche di laboratorio sui “succhi nutritivi”.
La fisiologia era allora convinta del principio dell’unicità nutritiva, da raggiungere con la gestione e la trasformazione degli alimenti. Un sogno fin troppo prossimo alle chimere dell’alchimia per poter apparire credibile, ciononostante molti s’industriarono ad identificare questa sostanza nella forma della gelatina, che più tardi si rivelerà ricca di aminoacidi essenziali, a causa della sua natura mucosa.
È il trionfo dell’apparenza e del potere suggestivo delle descrizioni razionali. Gli alimenti sono farinosi, mucillaginosi, zuccherati, acidi, oleosi o grassi, caseosi, gelatinosi, albuminosi e fibrosi.
Nasce la sperimentazione sugli animali, le prime vittime sventrate dimostrano che il consumo di sostanze azotate è indispensabile alla vita. Dopo che si riuscì a ridurle a degli albuminoidi presero il nome di proteine. Successivamente si arrivò alla distinzione tra protidi, lipidi e glucidi. La base essenziale dell’alimentazione ideale dei mammiferi era gettata, la costituivano tre gruppi di sostanze ben distinte, le materie albuminose, quelle grasse e i saccaroidi.
Spetterà al barone Justus von Liebig, titolare della cattedra di chimica a Giessen e imprenditore fortunato nel Sud America, sottolineare l’importanza degli elementi azotati nella formazione della carne, li chiamerà, poeticamente, gli elementi plastici della nutrizione, da non confondere con gli alimenti respiratori, quelli che si bruciano, fonti di calore e di energie.
L’euforia neo-liberista del secolo travolge anche l’alimentazione, l’analisi sensoriale e il gusto non interessano più nessuno, tutto diventa una questione di valore, il valore classifica, costruisce gerarchie, la chimica sperimentale consente di costruire liste di alimenti che rivelano le loro capacità energetiche.
Le calorie diventano, in nome della combustione, il principio nutritivo del sangue, con esse il corpo umano si garantisce il calore costante e, per conseguenza, il funzionamento degli organi e la vita dei tessuti. Un altro esito dei loro processi di valorizzazione è l’interscambiabilità e la combinatorietà, a peso uguale tanto da tanto.
Il grasso fornisce tre volte più calore delle fecole e sei volte di più delle sostanze ricche di albuminoidi.
Per gli scettici ci sono gli esperimenti di laboratorio. Si brucia di tutto e si misura tutto. In questi esperimenti il cibo ideale, quello che tutti prendono in considerazione per i raffronti è la carne rossa, il pollame, infatti, è anemico, meglio, semmai, le viscide e pesanti carni della selvaggina.
È una corsa a chi stabilisce prima e con prove inoppugnabili la quantità ideale per un uomo tipo in un regime di clima temperato.
A circa trecentocinquanta grammi di un buon manzo basta aggiungere un chilo di pane e due litri d’acqua. L’analisi chimica, su questo punto, è perentoria. Dal lungo elenco degli alimenti analizzati emerge l’inutilità o lo scarso valore energetico di molti di essi, come la frutta, i legumi, gli aromi e le spezie. Ai maestri di scuola si distribuiscono analisi, tabelle e conclusioni, un’alimentazione carnea e un po’ di ginnastica svedese sui quadrati fanno miracoli a livello antropometrico.
Gli erbaggi, in genere, hanno un ruolo ausiliario, consentono di variare la forma e i sapori delle preparazioni alimentari e, in subordine, ci permettono di ingurgitare dei liquidi e dei sali minerali.
Quanto alla frutta. Carl Anton Ewald, fondatore della Berlin klinische Wochenschrift, è perentorio. Anche se ispira fiducia dal punto di vista della salute ed è in qualche caso adatta a variare la dieta, non deve farci dimenticare che le sue sostanze nutritive sono inquinate dalla dovizia dei principi acidi in essa contenuta.
Il giudizio sulle spezie è più conciliante, non servono a nulla, ma possono giocare un ruolo positivo sul sistema nervoso, meglio, possono attenuare la ripugnanza per certe preparazioni cucinarie, peccato che molte di esse riscaldino.
Sul clima sociale e culturale della prima parte dell’Ottocento c’è un libro che può essere consigliato anche perché è di piacevole lettura. Si tratta di uno dei romanzi sociali di Eugène Sue (1804-1857), I sette peccati capitali. Precisamente il capitolo dedicato alla “gola”.
Si può poi passare al suo capolavoro. I misteri di Parigi.
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