Allegato alla prima lezione 2007-08

FOOD-DESIGN. Allegato alla prima lezione.

 


Le regole di un menu non sono in se stesse più o meno insignificanti delle regole del verso,
 a cui un poeta si sottomette.
(M. Douglas)

Una considerazione introduttiva sul gusto e i segni.
Il nostro cervello è una macchina insaziabile che divora in continuazione, elaborandoli, glucosio, segni e senso.
Nella modernità, tra questi tre “alimenti”, ce n’è uno che ha preso il sopravvento sugli altri due: sono i segni.
Lo intuirono per primi i futuristi, senza rendersene appieno conto, quando definirono la pastasciutta una “assurda religione gastronomica italiana”. Un’apologia di segni significanti!

Il fatto che negli atti alimentari tutto tende a trasformarsi in segno comporta due cose, che l’immaginazione diventa uno degli stimoli formativi del gusto, che la coltivazione dei segni modifica, ancora una volta, la relazione tra la sostanza delle cose e la cultura materiale che le alleva.

In questo modo, l’origine e la natura del “mangiato” finiscono per essere devalorizzati rispetto agli aspetti formali che lo accompagnano ed acquista un’importanza sempre maggiore l’arte di manipolare e comunicare questi aspetti.
Non solo, si compie anche una importante metamorfosi strategica, questi aspetti formali avvolgono i segni con un valore etico derivato da quello estetico.

Lo si constata sul registro della qualità dove da tempo i suoi parametri tradizionali appaiono superati o si è alterata la scala della loro importanza.

Forma, colore e struttura sono ora sempre più essenziali alla formazione del gusto e all’innovazione cucinaria ed esse si coniugano con le cerimonie conviviali dando vita ad un vero e proprio teatro gourmand.
Un teatro capace di svaporare la sostanza del desiderio dentro la sua forma letterale, come nel caso della giovinetta Meret Oppenheim, servita a tavola in più di un’occasione ai suoi scapoli immaginari, come nel “cannibalismo” dei futuristi o di certo cinema americano degli anni ’20, dove tutte le ragazze sono sugar o honey

In ultima analisi il gusto, liberato dalla sua millenaria guerra contro la lesina, si è rivelato avido di metafore, immagini, figure retoriche, finendo così per collocare le parole sopra i sapori e le sensazioni.
La scena alimentare è ora il luogo dove i nuovi commensali non vedono che segni e gli affamati non vedono che cose, o per altri versi, questa nuova cucina semiotica rovescia ciò che a suo tempo aveva notato Claude Lévi-Strauss: essendo buona da pensare non può non essere buona da mangiare.  

Sulle tavole della socialità questo eccesso della dimensione simbolica dilata la “significazione” e il senso e da nuove dimensioni al gusto, soprattutto, fa lievitare la posizione della comunicazione a livello di espressione di questi.

Così, la comunicazione del “mangiato” è diventata essenziale all’esperienza di colui che mangia ed essa avviene a spese di ciò che un tempo era il cibo, direttamente nell’immaginario.
Anche il sapore degli alimenti ha subito una svolta, non è più separabile dal legame sociale che crea la commensalità.
Un legame che si vincola al contesto attraverso il segno inscritto in una cornice metargomentativa, quella del senso gourmand

Nella modernità il mondo del senso e quello dei sensi appare così sempre più intrecciato con il segno, tanto che ne deriva una pratica alimentare che fa della parola una “cuciniera” della sensibilità culturale, dove, scriveva Piero Camporesi, la res coquinaria si trasforma in una ermeneutica totalizzante della storia.  

Dentro questa cornice il teatro gourmand appare come un teatro dell’esperienza dello spazio alimentare e, al tempo stesso, di quella comunicazione che mette in “forma” l’alchimia del gusto, tra ciò che in esso è frutto dell’estetica e ciò che gli deriva dalla dissoluzione dell’ars magirica

In questo teatro, al dunque, domina il processo permanente della significazione dietro il quale si condensa l’identità del “mangiato” e il ruolo degli attori sociali, con il risultato di dare una forma alle parti variabili degli atti alimentari e di prefigurarli “all’ordine dell’interazione” (Erwing Goffmann) a cui appartengono.

Questa forma – che comunica – ha per gli attori un carattere normativo, in pratica costituisce un modello canonico di organizzazione che la distingue dalla semplice consumazione alimentare.
Di più, ha una funzione d’iniziazione per gli attori che, per suo tramite, si possono, con un neologismo barbarico, “performare”, possono “vivere” la tavola e la sua liturgia.

In questo modo è inevitabile una drammatizzazione degli atti alimentari che fa emergere le implicazioni sociali della recitazione, il ruolo degli attori e le loro competenze.
Dunque, mettersi a tavola significa sempre più entrare in una rappresentazione, perché colui che mangia ne vive la retorica.

L’immaginario alimentare, del resto, non si limita alla “gustazione” e al piacere orale, ma attraverso essi tende a rivelare tutta una serie di valori, un’identità, il ruolo dell’alterità, le vie che conducono alla simbolizzazione della scena alimentare che, nel suo significato primario, fu portata alla luce da Lévi-Strauss con la formula del triangolo culinario.

Appare chiaro come il “commensare” rappresenta, in tutte le epoche e in tutte le culture, una delle forme più vitali del legame sociale, tanto che il suo significato rituale e simbolico tracima sempre ben oltre il bisogno, dando vita alla liturgia della commensalità, che qui possiamo intendere come l’apice materiale delle forme della convivialità.

Al centro della commensalità c’è la tavola, nelle sue diverse configurazioni, come un oggetto inscritto in un ambiente ed attrezzato per uno scopo, come riflesso della natura e della qualità dei cibi, come luogo d’incontro e di scambio.

Paradossalmente il problema, sul piano simbolico, non è mai il mangiare, ma il saper mangiare nel “nome del padre che si fa legge”.

Solo a questa condizione la commensalità è nomos, nutre, aggrega e crea coesione, così come, allo stesso tempo, la comunità che la esprime si forma, si ritrova e si riconosce.
Esterna la sua unità, i suoi legami, la sua capacità di trasformarsi, di aprirsi, di proteggersi e di divertirsi.

Verticalizzandosi, poi, la commensalità manifesta la gerarchia, l’ordine, i ruoli, i ranghi, le forme del potere, le posizioni amicali e familiari, il distacco e, insieme, il bello, il gusto, la capacità di cogliere le nuances del sublime ed esprimere gli stili di vita.

Essa è, come tutto, unificante e trascendente, esprime la follia festiva e struttura le forme sociali, rivela le libertà di dicembre e l’interdetto. 
Diventa la Calicut delle passioni e garantisce la stabilità delle relazioni umane, così come, allo stesso tempo, può rivelare la crisi di tutto ciò.
Vale a dire, annunciare la fine di ogni tradizione e la glaciazione della scena alimentare (per usare una efficace espressione di Jean-Paul Aron), rivelare l’asepsi delle pratiche cucinarie, i nomadismi del consumo, le crisi identitarie, i radicamenti reazionari ad un territorio, la necessità di sensazioni forti o smemoranti.

Va notato, en passant, che la funzione simbolica del cibo appartiene anche al mondo animale, dove non è difficile constatare come spesso esso sia preso in comune e diviso.
Tra gli insetti sociali, per esempio, è un legame biologico che serve a costruire la loro società. Negli uccelli è un legame maternale condiviso.
Tra i mammiferi che vivono in gruppi è uno strumento che gerarchizza la loro struttura sociale.

Tra gli uomini si stima che il fenomeno della simbolizzazione alimentare sia comparso circa cinquecentomila anni fa.
Questa data corrisponde grossomodo a quando la preparazione del cibo ha cominciato a svolgersi intorno ad un fuoco e si è diffuso il suo consumo in gruppo.
Elementi che hanno favorito lo svilupparsi di una radice funzionale della convivialità e, di conseguenza, il nascere di luoghi privilegiati da adattare alla cucina e all’incontro.

A causa delle dinamiche sociali è anche facile immaginare che la scelta degli alimenti, che non poteva essere indifferente, ha prodotto da subito le prime ineguaglianze o, se si preferisce, la costituzione delle prime élite.

L’ineguaglianza ha poi agito da volano sui processi di simbolizzazione, accentuandoli.
Come ha osservato Lèvi-Strauss, l’umanizzazione corre parallela alla cucina del simbolico.

In altri termini, da subito il banchetto è apparso carico di contenuti magici e, comune a quasi tutte le culture, l’abitudine di dividere con le divinità gli animali uccisi.
Abitudine che, giocoforza, si è andata rafforzando in presenza di avvenimenti eccezionali come le nascite o le morti.
Questa cucina del simbolico ha due livelli.
Il primo è quello dell’incorporazione, vale a dire, dell’ingestione di valori positivi o negativi legati al cibo.
Il secondo è quello in cui il valore simbolico degli alimenti si costituisce in una forma di legame tra coloro che mangiano insieme, perché la commensalità si manifesta sia come azione del cibo sull’individuo che come condizionamento delle scelte alimentari.

La cucina di maiale nel medioevo europeo ha espresso la funzione di simbolo distintivo nei confronti del mondo islamico e degli ebrei, così come il vino, che ha marcato il distacco dalle regioni del sidro e della fermentazione dei cereali.
Dentro questa dimensione le pratiche conviviali sono una vera rappresentazione del cum vivere, anche ai suoi livelli più materiali.
Ci sono molte culture in cui condividere un pasto significa contrarre un legame o un impegno, ciò che unisce può anche separare, a cominciare dagli dei.
I greci offrivano loro le ossa lunghe, il grasso, che brucia bene e le viscere. I romani uno spezzatino di avanzi.
Nel symposion i primi coltivavano l’arte di bere, i secondi preferivano dividersi le carni.
Alcune culture nel banchetto ricercavano, attraverso la possessione dionisiaca, l’erotismo, la profezia, la poesia.
Altre, l’ascetismo e la legge.

Bere nella stessa coppa ha significato per secoli stringere alleanze, annunciare la fratellanza, così come impegnarsi davanti agli dei.
La commensalità spesso invita all’oblio, ma sa circondarsi di regole. Rispettarle distingue il coltivato dal barbaro. I legami simbolici che essa crea sono possenti, ma possono essere disfatti, in un attimo, dalla perversione.
Se il cibo abbonda la tavola è il luogo della disponibilità, se il bere abbonda l’ebbrezza favorisce la confidenza o la congiura.
Intorno alla tavola si stringono spesso patti scellerati, si tradisce, si stipulano alleanza più o meno tacite, soprattutto, si recita.
Un tempo era lo spettacolo intorno ad essa che misurava la sua teatralità, oggi è essa stessa il luogo di un teatro gourmand che, in qualche modo, realizza l’invito di Jean-Jacques Rousseau a fare spettacolo con gli spettatori.
La sua forma decide la cerimonia e i ruoli. Quella rotonda è con il pane e il vino il fondamento eucaristico del nostro immaginario, i fasti e le feste che la storia ha inventato, mostra la dimensione del suo significato simbolico.

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Esotismo e globalizzazione. Il mondo in cima ad una forchetta.

Anthelme Brillat-Savarin diceva, fammi vedere come mangi
e ti dirò da dove vieni.

L’esotismo oggi è penetrato nella nostra vita corrente sia come valore che abitudine legata agli atti alimentari.

Anche al di fuori dei centri urbani delle grandi città molti prodotti e piatti esotici sono oramai a disposizione della nostra tavola.
I motivi per i quali questo modo di mangiare attrae sono diversi.
– L’esotismo alimentare consente di variare il nostro menu.
– Ci permette di consumare prodotti sui quali abbiamo fatto un investimento salutare se non addirittura terapeutico.
– Ci fa viaggiare con la fantasia o ci ricorda il tempo di vacanza. 

Che cos’è l’esotismo lo sanno tutti, definire la parola è più difficile.

Alla base della parola esotico (dal greco exôtikos) c’è la radice greca exo, che significa “al di fuori” e che forgia l’espressione greca che indica ciò che è straniero.

Dal greco, poi, questa parola passò nel latino (exoticus) e successivamente nelle lingue moderne, modificando in parte il suo significato che diventò quello di una “distanza geografica”, di una “seduzione” che deriva dall’alterità culturale.
La parola esotico, che compare addirittura in François Rabelais (nel 1548) a proposito di certe “merci esotiche”, divenne usuale solo a partire dal 1700, dunque, due secoli dopo la scoperta delle Americhe e sei secoli dopo le crociate, che ci fecero conoscere le arance, i limoni, i datteri, le banane e i fichi.

Nella seconda metà dell’800, poi, l’esotismo si mutò in un carattere che evoca costumi e paesaggi lontani e si coniugò con le imprese coloniali agendo in un contesto dove l’etnocentrismo era pensato e vissuto come un’evidenza morale, religiosa, politica e culturale dell’Europa.

Anche nel costume l’esotismo mostrò il suo fascino, le cineserie trionfarono nella porcellana e negli accessori di moda.
Claude Monet ha struggimenti per tutto ciò che è giapponese.
I cubisti s’inspirano all’arte africana.
Paul Gauguin si vanta di dipingere l’”autenticità” polinesiana.
Lo stile egizio dominò i salotti della buona borghesia.

Non è un vero e proprio riconoscimento dell’altro lontano, ma piuttosto una civetteria.
L’Occidente ha sempre definito l’esotismo come un richiamo ai sapori, ai sensi, alle atmosfere, mai ai saperi.
Fu vissuto all’inizio della modernità come qualcosa di secondario, di periferico, di superfluo e in qualche modo d’inessenziale.
L’esotismo, alla resa dei conti, non riuscì mai ad essere più di un’attitudine. 
Come da più parti si è sottolineato, nell’Ottocento europeo e in buona parte nel Novecento, è nella sostanza, “un elogio nel disprezzo”, o meglio, un elogio nell’ignoranza dell’altro che ci resta sconosciuto o tutt’al più ridotto a stereotipo.

In questo contesto nacque anche una sua variante, l’orientalismo, che è un genere di esotismo che amalgama tutto ciò che sta all’est dell’Europa e nel nord dell’Africa.

Naturalmente l’esotismo è un concetto instabile nel tempo, più la cultura degl’altri è conosciuta, in particolare, la loro cultura materiale e le loro abitudini alimentari, meno questa cultura resta straniera e misteriosa. Più ci è vicina, meno è esotica. 

Al tempo dell’espansione coloniale i prodotti alimentari rappresentarono un terreno sul quale l’esotismo dilagò dando vita ad una vera e propria corsa ai prodotti coloniali.
Ancora oggi in Europa (Milano compresa) ci sono negozi che anacronisticamente inalberano l’insegna di “La Coloniale” o di “Compagnia delle Indie”, con riferimenti espliciti alle spezie, al rum, al caffè, alle banane, al cioccolato, alle arachidi.

Oggi, sia pure con valenze diverse, il carattere di esteriore di straniero di esotico è ancora molto usato per classificare, attirare e vendere.
Ciononostante si è anche prodotta una forte spinta all’assimilazione, vale a dire, si tende sempre di più a consumare i prodotti stranieri nello stesso contesto dei prodotti nazionali, assimilandoli nelle procedure cucinarie che ci sono familiari.

Questa assimilazione, frutto di strategie commerciali, ha come conseguenza la provincializzazione dell’esotico.
Un ossimoro che indica come in un’epoca dominata dalla globalizzazzione non c’è più nulla di “straniero” nel couscous o nel taboulé, come nell’uso del curry.
Non c’è più nulla di stravagante nella cucina cinese o nel fatto che si diffondono ristoranti con menu etnici.
Semmai è stravagante il modo con il quale queste cucine sono re-interpretate.

In breve, il significato di esotico ha perso il suo contenuto di indigeno, per istallarsi saldamente all’interno del villaggio globale così come è stato a suo tempo definito da McLuhan.

C’è anche da osservare che oggi la cucina, in cui domina di più una preoccupazione estetica che il suo bilancio proteico, se vuole essere voluttuaria o gratificare le spinte naturiste ha sempre più bisogno di prodotti provenienti da altri territori e questo ha contribuito a crearne un mercato in costante espansione.

Ma che cos’è esotico rispetto a noi?
Una ricerca di qualche anno fa di Faustine Régnier – che dirige il laboratorio di ricerche sui consumi francesi – e sulla quale ritorneremo in seguito, ha rilevato che da un punto di vista geografico per le massaie francesi sono esotici i paesi dell’Europa del sud, da cui ricavano circa il ventotto per cento delle ricette della loro cucina, i territori francesi d’oltremare, con un undici per cento di ricette e, poi, l’Europa Occidentale, gli Stati Uniti, l’Estremo Oriente, le Indie e via di seguito fino all’Africa Nera e all’Indonesia che partecipa con un meno dell’uno per cento con i suoi piatti alla tavola d’oltralpe.

Se poi si osservano questi dati in dettaglio, per le massaie francesi, il sessantacinque per cento delle ricette esotiche del sud dell’Europa sono italiane.
Questo rivela come l’esotismo è soprattutto un’opinione o meglio un’opinione che fluttua con le mode.

Oggi, con il turismo di massa l’esotismo cucinario si è espanso e rafforzato.
Rinvia sempre ad un altro luogo che l’immaginazione ci fa credere misterioso o poco conosciuto.

Come osserva Régnier, l’esotismo seduce perché permette di viaggiare il tempo di un pasto, si situa agli antipodi del mondo quotidiano ed appare seducente tanto più è diverso da esso.

Tzvetan Todorov, un filosofo bulgaro che vive in Francia ed esperto di filosofia del linguaggio, ha elaborato una regola, detta di Omero, secondo la quale il paese più lontano è sempre il migliore.

In cucina questa “lontananza dalle solite cose” non è però negativa, combatte la passività e la noia e spesso ha un effetto paradosso, perché sollecita a ripensare la tradizione.

Di solito si parla di esotismo per indicare delle strategie che permettono di viaggiare nello spazio, ma esso può ugualmente farci viaggiare nel tempo.

Yvonne Verdier, una grande antropologa francese morta prematuramente nel 1989, parlava di un esotismo storico.
Di un tempo delle origini che evoca ed affabula e che ritroviamo soprattutto nella cucina della tradizione popolare e contadina.

Un esotismo che le mode riconducono spesso ad una aneddotica superficiale che si mescola con il folclore e che rende piacevoli le immagini del passato accrescendone la seduzione.    

Da qui il crescente successo, anche politico, di fiere, sagre, carnevali, rassegne ed altro, che scavano nei localismi e in qualche modo resuscitano ricette, cibi, preparazioni desuete, cerimonie.

Ancora, l’esotismo non è solo un viaggio nello spazio e nel tempo, è anche un viaggio nelle parole.
Come diceva la Verdier, sono i nomi che fanno la differenza e creano somiglianze e distanze che giocano sui registri più diversi.
Un celebre aforisma di Claude Lévi-Strauss, dice che un cibo non può limitarsi ad essere buono solo da mangiare, deve essere buono anche da pensare. In questo senso l’uso e l’abuso in cucina di espressioni straniere ha il solo scopo di accrescere il mistero e l’aura di un piatto, soprattutto quando, di queste espressioni, non ne conosciamo la traduzione.

La Régnier fa il caso della marmite criolla, un test realizzato con una rivista femminile.
La ricetta di questa preparazione, quando fu pubblicata, attrasse molte lettrici che ne ignoravano la provenienza e il significato del nome.
Quando poi fu ripubblicata con l’indicazione che era una preparazione della cucina argentina e che la parola criolla significava creola, cioè, rinviava alla cucina dei bianchi nati in America Latina, l’interesse scemò e tornò ad essere una zuppa speziata di crostacei con verdure.

All’esotico, come ideologia della lontananza straniera, si contrappone un’altra ideologia, anch’essa molto forte, quella dei localismi e della nostalgia.

I nostalgici considerano il tempo che fu come un modello di equilibrio, in opposizione allo spettro dell’industria agro-alimentare nociva alla salute, alla gastronomia, ai costumi e alle tradizioni.
Siccome i cibi sono dotati di un significato di ordine sociale, morale ed economico molti vedono nel fallimento dei localismi il fallimento anche politico delle tradizioni regionali.

Tutto questo ha poi contribuito a riaprire la discussione sul modo nel quale la nostra epoca attribuisce un senso ai nostri cibi.
Molti nostalgici sono così divenuti preda della nostomania, come si definisce la nostalgia quando diventa una patologia.  
Preda cioè di quei sentimenti umorali che evocano con dolore l’attaccamento alla terra natale, le stagioni, il tempo, i colori del paesaggio.

Se li analizzate sono sentimenti senza un vero contenuto reale, ma esprimono il bisogno di dogmi e di simboli.
Il cibo di una volta è figurato come un nutrimento divino in cui si traducono molte speranze fallite, spesso manipolate dall’industria dei prodotti locali e biologici che, molto spesso non esitano a cavalcare la contestazione.
Così il mito del territorio arriva molte volte a rivendicare identità gastronomiche che sono vissute come se fossero di una volta, anche se non sono altro che invenzioni di oggi.

In questo contesto, paradossalmente, saper tracciare una linea di demarcazione tra realtà e finzione, storia locale e mito significa sapere ciò che si mangia.

Va osservato che questo attaccamento alla tradizione alimentare antica è ancorata a dei valori sociali simbolici, morali e religiosi che fanno perno sull’attività agricola.
Un attaccamento che se vogliamo possiamo addirittura far risalire alle Bucoliche di Virgilio o a un certo “realismo rustico” tipico della poesia di Teocrito (324c.a.-250), il poeta greco nato a Siracusa ed autore, tra l’altro, degli Idilli, trenta componimenti in esametri sulla vita quotidiana.

Più vicino a noi ricordiamo l’Emile di Jean-Jacques Rousseau, un’operetta, in questa ottica, che possiamo definire politicamente scorretta che fustiga la decadenza industriale, la crisi dei costumi e della morale, per difendere attraverso un ritorno alla terra, la riabilitazione di un’autentica ortodossia morale fondata sull’organizzazione rurale.

Insomma, la nostalgia e i localismi aureolano la terra di proprietà e di virtù, bagnate dal sudore contadino, e fanno del mistero della semenza un’apologia dell’origine e della creazione, atrocemente uguale, sia pure su un altro registro, a quell’apologia artificiale della creazione delle grandi compagnie che producono organismi geneticamente modificati. 

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