NABAFLUX – Esercitazione 1

(BOZZA)

NABAFLUX

Esercitazione numero uno.

Milano, mercoledì 17 novembre 2010.

Il divenire e la metamorphosis. Interpretare Fluxus.

Se pensiamo a ciò che l’arte è in sé più che ad una categoria determinata definitivamente essa appare il frutto di una metamorfosi storica che la instituisce. Le opere diventano opere d’arte solo quando la loro metamorfosi è conclusa e la loro singolarità s’invera unica ed imprevedibile.

La difficoltà a pensare l’arte e a cogliere il suo divenire discende soprattutto dal fatto che da qualche tempo a questa parte non è più possibile riconoscere le opere senza conoscere il concetto di arte e lo sviluppo storico delle poetiche che in un tale paradigma confluiscono. Di più, lo statuto ontologico delle opere è cambiato, non è più quello di un oggetto, ma di un’idea che passa per tutti gli stati intermedi dell’esserci, dall’astrazione al concretezza. Un’idea che può esistere solo come una rappresentazione di sensibile ed intellegibile. Da tempo sappiamo anche che l’arte ammette tutte le forme di presenza e che essa è divenuta la rivale del mondo delle cose. Una volta come oggetto sensibile non conosceva che la vista e l’udito, oggi ha conquistato il gusto, il tatto e l’odorato. Ci appare come una perenne sfida ad un corpo a corpo, ad una battaglia di senso in cui è, allo stesso tempo, un’apparenza, e un’apparizione. Ha scritto eloquentemente Victor Hugo: “La forma non è che il fondo che riviene alla superficie.”

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A differenza di altre poetiche che gli sono coetanee, Fluxus – non essendo stato amato dal mondo dell’arte – non ha sviluppato un corpus di opere poeticamente rilevanti ai fini del mercato incoraggiando e costruendo – di contro – una serie di tendenze performative interdisciplinari che oggi si sono rivelate più importanti di ciò che rappresentano le opere (in generale) considerate di per sé e traguardate sul destino ultimo dell’arte moderna.

In questo senso è l’ultima avanguardia compiuta del secolo scorso, ma ancora più importante, ha anche messo fine a ciò che le avanguardie sono state. Il suo fondatore, George Maciunas aveva capito il processo in atto di “estetizzazione” della società o, più semplicemente, aveva fatta sua questa osservazione di Marshall McLuhan: “Da quando Burckhardt intravide che il significato del metodo di Macchiavelli era di trasformare lo Stato in un’opera d’arte attraverso la razionale manipolazione del potere, è possibile applicare il metodo dell’analisi artistica alla valutazione critica della società.” Gli strumenti del comunicare (1964). Questa affermazione di McLuhan è importante se non altro perché restituisce dignità al pensiero critico dell’arte. Dobbiamo dunque ripartire da Maciunas e dal carattere dell’epoca che stiamo ancora imparando a vivere, caratterizzata dall’immaterialità e dal dominio dell’informazione, per conseguenza, esaltare il cardine estetico dell’evento effimero e debole, capace, pur tuttavia, di relazionarsi alla vita corrente. Mostrare come dietro la banalità dell’oggetto artistico c’è l’aurea profonda della cultura materiale.

Fluxus parte dal food, non perché era un circolo di gourmet, ma perché aveva capito la funzione metaforica del cibo, di strumento che trasferisce (trasporta) un senso su un mezzo assolutamente effimero e, all’apparenza, privo di valore. Del resto, ogni forma di trasporto (ogni metafora) non soltanto porta ed è, nello specifico, un’icona, ma traduce e trasforma il mittente, il ricevente e il messaggio.

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Compito dell’esercitazione è quello di realizzare un’opera in divenire sigillata in un cubo di plexiglas (dal lato di quaranta centimetri massimo, con materiali, possibilmente alimentari, che siano in tutto o in parte suscettibili di putrefazione, fermentazione o lievitazione.

I lavori selezionati per questo progetto saranno conservati in vista delle celebrazioni per il cinquantenario di Fluxus che si terranno nella primavera de 2012, solo allora essi saranno considerati delle opere d’arte a tutti gli effetti avendo per quella data esaurito il ciclo delle loro metamorfosi.

La partecipazione può essere individuale o di gruppo (massimo tre studenti). Di ogni opera dovrà essere illustrato con una breve relazione orale il “fato” (destino) che per essa si è scelto.

Saranno conservati dodici lavori, la scelta sarà decisa da coloro che hanno partecipato all’esercitazione dopo una discussione collettiva. Tutte le opere saranno fotografate all’inizio e periodicamente per documentare la “traccia del vissuto” che hanno lasciato dietro di sé.

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Appendice. Da un punto di vista semiologico, ci sono tre configurazioni nella relazione arte/food.

Nella prima il cibo o, meglio, gli atti alimentari, in particolare le forme conviviali e tra queste i banchetti sono l’oggetto delle opere d’arte. Lo divengono nella duplice veste di palcoscenici del cibo, come nei bankjete o nelle nature morte, in principio fiamminghe e poi spagnole, e di tavole imbandite che suggellano, diventandone anche il simbolo, un avvenimento della vita civile, sociale o religiosa.

Nella seconda configurazione, tipica di questi ultimi anni, a partire dalla nouvelle cuisine, cioè, grossomodo dalla fine degli anni ‘70, tanto per indicare una data di comodo, il cibo è realizzato come se fosse un’opera d’arte. Vale a dire si “cucina” e si allestisce cercando di coniugare la forma, o più in generale la sensibilità estetica, con le necessità cucinarie. I due cuochi più famosi di questa tendenza sono il catalano Ferran Adrià e l’inglese Hestor Blumenthal.

Nella terza configurazione, infine, si utilizza il cibo come materiale espressivo a prescindere da ciò che esso è in sé. Si parla genericamente di eat art, anche se oggi appare come un termine restrittivo. Questa espressione fu utilizzata per la prima volta e in modo deliberato da Daniel Spoerri negli anni ’70, come naturale continuazione dei suoi quadri trappola. In realtà essa era stata preceduta da un marcato interesse per il cibo da parte di George Maciunas e di altri artisti Fluxus. (Arthur Coleman Danto, ex presidente dell’American Philosophical Association e presidente dell’American Society for Aesthetics, ha scritto che ciò che distingueva Fluxus negli anni Sessanta era l’uso del cibo come arte. Per Danto la vera novità di Fluxus nell’ambito dell’arte americana di questi anni è contenuta nel manifesto di Maciunas del 1963. In che cosa consiste questa novità? Nell’ennesimo coraggioso tentativo di rimettere in causa le fondamenta dell’arte dal punto di vista della modernità.)

Notiamo che il discorso del cibo come materiale espressivo coinvolge da qualche tempo a questa parte anche i designer. Il food è penetrato nell’abbigliamento e nei suoi accessori, nelle arti del corpo, nelle forme della rappresentazione, in pubblicità come nel teatro, nel cinema, nella musica, nell’arredamento d’interni.

Se vogliamo, c’è poi una quarta configurazione che sta emergendo in questi anni, è quella che lega il cibo alle funzioni corporali e/o alle sue patologie. Si può definire una sorta di body-food art, che va dal body-sushi alla simulazione o alla sperimentazione dell’anoressia, della bulimia e, soprattutto del vomiting.

Glossario:

Divenire. Se lo pensiamo in contrapposizione con “statico” indica il cambiamento che l’affetta e lo modifica. In opposizione ad essere – eterno ed immutabile – il divenire, afferma Eraclito, è il movimento, ne consegue che la realtà, anche se possiede una singola sostanza, è il risultato della lotta dei contrari.

Fluxus. Prima di essere una delle ultime avanguardie artistiche del Novecento “fluxus” è lo scorrere di un liquido. Una diarrea. Una marea che sale. In senso figurativo è l’abbondanza. In economia indica la somma degli scambi effettuati dagli agenti finanziari. In astratto definisce il movimento in opposizione allo stato di posizione. Nell’emanatismo, una delle tante dottrine neoplatoniche, è una teoria dell’irradiamento o del fluire da cui tutto cola ed ha origine, come nella metafora dell’acqua o della luce. In sé è un’alternativa idealistica alla creazione come evento catastrofico.

Dove la poetica di questa avanguardia si riconnette al senso generale della modernità? Nel punto in cui le illusioni postmoderne privilegiano i flussi alla stabilità e al suo modo di essere asservante.

Fermentazione, putrefazione, lievitazione. In senso stretto la fermentazione è un processo ossidativo anaerobico svolto da numerosi microrganismi a carico soprattutto dei carboidrati come capita nella preparazione di numerosi alimenti. Il termine deriva dal latino fervere, cioè, ribollire, come avviene con il mosto. Prima della nascita della chimica biologica i processi fermentativi si confondevano con quelli putrefattivi, fu Louis Pasteur a cominciare a fare chiarezza identificando i fermenti contenuti nei lieviti. La putrefazione è la decomposizione delle proteine sotto l’azione di microrganismi anaerobici, si presenta soprattutto nella forma di ammine che conferiscono un odore sgradevole ai tessuti che contengono. La lievitazione è l’azione del lievito in un ambiente acidificato da un complesso di lieviti e batteri lattici.

La trasformazione agroalimentare. Lo scopo delle trasformazioni alimentari è quello di creare un valore aggiunto ai prodotti del settore. Le trasformazioni possono essere fisiche, quando il prodotto subisce delle manipolazioni meccaniche, fisiche, chimiche o biochimiche che lo trasformano nell’aspetto, nella consistenza e nelle proprietà organolettiche. Temporali, quando il prodotto subisce delle manipolazioni destinate a preservarlo. Queste trasformazioni sono definite di conservazione. Spaziali. Sono in genere le trasformazioni che attengono alla commercializzazione. Le trasformazioni possono essere spontanee o controllate, fisiologiche o provocate e sono sempre il frutto di fenomeni metabolici.

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Qualche osservazione sulla ricerca sociale – prima parte

QUALCHE OSSERVAZIONE SULLA RICERCA SOCIALE.   

Qualche osservazione sulla ricerca sociale

Partiamo da alcune semplici constatazioni che valgano anche come premessa.  Un argomento ricorrente nelle conversazioni di tutti i giorni (della gente comune) è ciò che la gente comune fa o pensa.  Si può affermare che in ogni momento siamo coinvolti in discussioni attraverso i quali si esprimono commenti, opinioni e giudizi sul modo di vivere, sugli orientamenti culturali, sulle tendenze politiche, sui fatti di costume che attengono qualcuno o qualche gruppo sociale. 
Questo interesse, in genere, non è di tipo professionale e tutto si esaurisce in osservazioni più o meno fondate, più o meno critiche, più o meno dettate dalle emozioni che lasciano le cose come sono
In genere, per quanto possa apparire paradossale, dei fenomeni sociali di cui facciamo (o di cui crediamo di aver fatto) un’esperienza comune non c’è quasi mai una spiegazione univoca, anzi, il più delle volte le interpretazioni si collocano su posizioni totalmente contrapposte, soprattutto quanto sono accompagnate da osservazioni di natura politica o etica.  Ciò avviene perché attraverso l’interpretazione dei fatti sociali noi esprimiamo i nostri giudizi di valore, o meglio, costruiamo una certa immagine della realtà e, spesso senza volerlo, la rappresentiamo come la desidereremmo.   Ne consegue che, in questo processo, è facile equivocare o distorcere il pensiero degli altri, falsare o semplificare fenomeni complessi, proporre spiegazioni approssimative o avanzare previsioni errate.  Le nostre rappresentazioni della realtà, in altre parole, possono risultare parziali o prive di fondamento, anche se siamo soggettivamente convinti di quello che affermiamo. 
Va da sé, tutto questo avviene anche perché non sempre disponiamo delle informazioni o dei mezzi necessari per poter esprimere valutazioni pertinenti.  L’esperienza della gente comune, infatti, è diretta, ma non sempre è tale da consentire delle generalizzazioni, sia perché questa esperienza è giocoforza parziale, sia perché raramente si possono estendere o siamo in grado di estendere le nostre deduzioni al di là del nostro ambito sociale.  
C’è poi il grande problema dei pregiudizi sociali, cioè, dei condizionamenti culturali, politici e religiosi che confondono le capacità di osservare o di restare neutrali.  Questo tipo di condizionamento può non essere percepito o non apparire evidente per il semplice fatto che il più delle volte si presenta come un atteggiamento selettivo nei confronti delle informazioni che riceviamo o che sono a nostra disposizione.  All’origine di questo atteggiamento vi possono essere motivi ideologici, etici, di appartenenza ad una certa comunità, come è sempre più frequente oggi con l’accentuarsi dei flussi migratori, o più semplicemente questo atteggiamento è il frutto di un’adesione a certi luoghi comuni che si riproducono facilmente all’interno degli ambienti sociali nei quali viviamo o che ci sono veicolati dai mass-media.  In questo contesto il pericolo maggiore dei pregiudizi è di distorcere la realtà sociale con spiegazioni approssimative, false o, peggio ancora, semplificative, questo perché le semplificazioni favoriscono visioni omologanti dei comportamenti e dei modi di pensare.    
In politica è la strategia del cosiddetto populismo. 
L’espressione di populismo ha numerosi campi di applicazione, è stata spesso usata anche per indicare movimenti artistici e letterari, ma il suo ambito principale rimane quello della politica. 
Il largo uso che oggi i politici e i media fanno del termine populismo ha contribuito a diffonderne un’accezione che lo mette sullo stesso piano della demagogia, un termine di origine greca (composto di demos, "popolo” e agein, "condurre, trascinare") che indica un compiacimento incline ad assecondare le aspettative della gente sulla base della percezione delle loro necessità, per ottenere consenso.   
Così, se c’interessa ricostruire in modo corretto i caratteri e le circostanze in cui si manifesta un determinato fenomeno sociale il “percorso dell’osservazione” deve essere necessariamente più articolato e complesso, superare lo stadio dell’esperienza soggettiva e dell’informazione semplificata.  Occorre operare indagini, ricercare dati e analizzarli obiettivamente, occorre mettere i dati in relazione tra di loro, avanzare interpretazioni e sottoporle a verifica e a giudizio. 
Si tratta in sostanza di passare da un approccio legato al senso comune ad un approccio cognitivo, oggettivo e scientifico.  

Qualche osservazione sulla ricerca sociale

Vediamo ora meglio che cos’è la ricerca sociale. 
 Come abbiamo accennato la ricerca sociale si occupa della raccolta e dell’interpretazione dei dati alla scopo di rispondere a domande concernenti i diversi aspetti della società, permettendoci così di comprenderla o al limite d’individuarla, può essere pura o applicata
 La prima consente di elaborare e verificare teorie e ipotesi che saranno utili in futuro, ma che non sono direttamente applicabili per risolvere problemi sociali concreti.  La seconda, invece, propone risultati utilizzabili per risolvere problemi sociali di interesse immediato. 
In generale i metodi di ricerca sono importanti perché ci consentono di generare e controllare teorie e ipotesi metodologicamente corrette, evitando i rischi dell’interpretazione soggettiva.  Da un punto di vista epistemologico possiamo affermare che nella ricerca sociologica non esistono né teorie, né ipotesi puramente deterministiche o di portata generale, così come sono rari i casi di ricerca che invalidino una teoria in modo univoco.  C’è poi da osservare che esistono vasti settori della realtà sociale in cui non esistono teorie in senso proprio, ma solo schemi interpretativi, apparati categoriali, sistemi tipologici, definizioni.  La ricerca sociale, in sostanza, è prevalentemente una ricerca empirica, ovvero vincolata a conoscenze fattuali acquisite sul campo o in laboratorio, quali osservazioni, questionari, interviste, documenti, esperimenti. 
Gli obiettivi di una ricerca sociale sono principalmente tre:
Descrizione.  Spiegazione.  Previsione di una data realtà.    
Diciamo da subito, però, che la pretesa di una descrizione oggettiva della realtà è un mito, questa “configurazione” della realtà non esiste e non può esistere.  Per ciò le scienze sociali hanno imparato ad elaborare dei modelli empirici con i quali accostarsi ai fenomeni sociali, individuali o collettivi che siano.  Le spiegazioni in sociologia, infatti, derivano quasi sempre dal modello deduttivo.  Vale a dire, perché sussista una spiegazione deve esistere una regolarità nella frequenza dei fatti.  Tale regolarità, poi, può consistere in una correlazione casuale o funzionale. 
La deduzione è un termine di origine latina, deriva dal verbo deducere.  Rappresenta quel processo logico per cui da un assunto iniziale, attraverso una serie di passaggi logici necessari (inferenze), si derivano determinate conclusioni.  La deduzione è quindi quel processo che permette il passaggio dal principio generale esposto nella premessa alla conclusione che conduce a fatti particolari.  E un processo opposto all’induzione.  Esempio tipico di deduzione: "Tutti gli uomini sono mortali [principio generale], Socrate è un uomo [inferenza], Socrate è mortale [fatto particolare]".
Di fatto, la struttura logica della previsione e simile a quella della spiegazione. 
Date certe premesse logiche (cioè le condizioni empiriche dell’evento e un sistema di asserzioni in forma di legge) vengono derivate le previsioni corrispondenti.  Queste previsioni, poi, sono affidabili a misura che sono affidabili le asserzioni in forma di legge. 
Ma che cosa è la legge in questo contesto? 
Se per teoria scientifica intendiamo un insieme di ipotesi esplicative che danno conto di ricorrenze empiricamente rilevate, la legge descrive delle regolarità nella successione degli eventi empiricamente osservati.  La teoria, quindi, è un sistema generale di leggi che non può essere empiricamente riscontrata se non desumendo da essa stessa le sue asserzioni o ipotesi. 
L’espressione di teoria (dal greco theorein, composto da thea, "spettacolo" e horao, "osservo", ovvero "guardare uno spettacolo") indica, nel linguaggio comune, un’idea nata in base ad una qualche ipotesi, congettura, speculazione o supposizione, anche astratte rispetto alla realtà.
Secondo alcune fonti il termine era usato frequentemente dagli antichi greci nel senso di "guardare" un’azione di teatro o dei giochi nell’arena.  L’uomo, come abbiamo constatato più volte, è portato a costruire teorie per spiegare, predire e comprendere i fenomeni che lo circondano.  Non va confusa la teoria con la supposizione, questa, poi, se è astratta, vale a dire non è basata sull’osservazione si definisce con il termine di congettura, mentre se è basata su delle osservazioni è definita un’ipotesi.  La maggior parte delle teorie iniziano come ipotesi, ma molte ipotesi risultano false e non diventano teorie.  Una teoria, poi, è diversa da un teorema che è un’affermazione matematica che segue logicamente da un insieme di assiomi. Una teoria è inoltre differente da una legge fisica nel senso che la prima è un modello della realtà, mentre la seconda è una descrizione di ciò che si osserva.  Le teorie, dunque, non sono costruzioni astratte ma si appoggiano sull’osservazione e con l’osservazione devono venire validate, in particolare controllando le previsioni che esse consentono di fare.  È importante notare che il termine "teoria", nelle scienze, ha un significato diverso da quello del linguaggio comune e questo è fonte di fraintendimenti.  Nel linguaggio comune, la frase "È solo una teoria" può essere utilizzata per insinuare che certe teorie sono sgradite.  Nella scienza, un insieme di descrizioni e modelli è chiamato teoria solo se ha una solida base empirica. 

Qualche osservazione sulla ricerca sociale

Torniamo al nostro argomento.  Più in particolare, la ricerca sociale è un attività di ricerca che implica una dimensione empirica d’indagine.  In pratica è un’attività che consiste in un processo di acquisizione, di analisi e d’interpretazione di dati relativi a fenomeni sociali e culturali che riguardano degli individui, dei gruppi, delle categorie sociali o, al limite, delle comunità. 
Ogni ricerca sociale, dunque, nasce dall’osservazione e si alimenta delle teorie che consentono di oggettivarla ed analizzarla.  In sociologia si parla di macro e/o di micro-sociologia in funzione della prospettiva con la quale si vogliono cogliere determinati atteggiamenti.  Per riassumere.  Da una parte è vero che la cultura, i sistemi normativi, le istituzioni e i ruoli condizionano gli atteggiamenti, i valori, l’identità.  Dall’altra è vero anche che la società si costruisce e si definisce attraverso i processi di interazione sociale che si stabiliscono tra gli individui, attraverso i significati che si attribuiscono alla realtà e attraverso le forme di negoziazione che li rendono comuni. 
Insomma, la società definisce gli individui in quanto attori sociali, ma, a sua volta, è definita da essi.   
I fenomeni presi in considerazione dalla ricerca sociale sono i più diversi anche se tra di essi, in genere, sono prevalenti quelli che riguardano l’organizzazione della vita collettiva, l’interpretazione delle trasformazioni, gli stili di vita, le modalità di formazione delle relazioni umane, i conflitti, i comportamenti e gli atteggiamenti individuali e collettivi, le mode e i consumi.  In generale, le informazioni sulle quali si concentrano più frequentemente le ricerche possono distinguersi in due grandi gruppi.  Il primo gruppo comprende le informazioni che permettono di descrivere gli aspetti che caratterizzano gli orientamenti individuali (dai comportamenti, alle convinzioni, alle conoscenze, alle preferenze, ai ruoli, agli status).  Sono informazioni che si prestano ad essere descritte e che sono oggettivabili con la memoria, il ragionamento, la valutazione, in una, attraverso processi di tipo cognitivo.  Il secondo gruppo comprende le informazioni che riguardano le motivazioni, le aspettative, i valori, la percezione di sé, gli stati d’animo. 
Sono informazioni che implicano introspezione ed una elaborazione soggettiva della realtà, dunque difficilmente comparabili e misurabili.  Questo tipo d’informazioni sono estremamente preziose nella ricerca sociale perché consentono di ricostruire gli atteggiamenti sociali a partire dal vissuto individuale.  La scientificità di una ricerca in sociologia dipende in primo luogo dall’accuratezza con cui vengono definiti i suoi obiettivi in rapporto alla natura del fenomeno in esame e dalla chiarezza delle procedure adottate in ogni fase della ricerca stessa.      

Qualche osservazione sulla ricerca sociale

Le fasi attraverso cui  si dispiega la ricerca sono: 
Definizione dell’oggetto –progettazione (operativa) –rilevazione e osservazione –analisi
La definizione dell’oggetto della ricerca presuppone la definizione “concettuale” dei fenomeni implicati.  Nella stessa definizione, infatti, possono esserci molti significati, ciascuno dei quali rinvia a dimensioni interpretative diverse dello stesso fenomeno.  Una volta definito e circoscritto il fenomeno da studiare si prendono in considerazione i temi ad esso connesso e si identifica l’insieme delle informazioni di cui si ha necessità per procedere.  I concetti utilizzati per descrivere un fenomeno devono in pratica tradursi in informazioni concrete rilevabili attraverso l’attività d’indagine.   La definizione di una tale mappa tematica rappresenta un momento di messa a punto concettuale dei contenuti e delle ipotesi della ricerca che devono, a loro volta, potersi giustificare alla luce di un quadro teorico più generale.  Nelle scienze sociali esistono molti approcci di ricerca, alcuni anche molto antichi e collaudati, ma la distinzione più generale è quella tra ricerche di tipo quantitativo e ricerche di tipo qualitativo.  La distinzione tra i due approcci consiste nel fatto che la ricerca quantitativa ha alle sue spalle una concezione positivista delle scienze sociali per la quale la realtà sociale e assunta come se fosse un dato oggettivo, dunque rilevabile, misurabile e suscettibile di spiegazione.  La ricerca qualitativa, invece, parte dal presupposto che ogni rappresentazione della realtà è sempre l’espressione di una costruzione sociale nella quale il senso deriva non solo dagli attori sociali che vi partecipano, ma anche dalla posizione sociale di chi la compie.  In altre parole si contrappone alla presunzione di oggettività dell’analisi scientifica la consapevolezza della relatività di ogni ricostruzione della realtà sociale.  
L’accuratezza nella rilevazione dei dati dipende, in generale, dalle conoscenze già disponibili sul fenomeno indagato e, in particolare, da tre fattori: 
– La sua circoscrivibilità concettuale e fenomenica. 
– Il grado di osservabilità e misurabilità. 
– La possibilità di avanzare ipotesi interpretative convincenti. 
Nella fase finale dell’analisi, infine, l’insieme dei dati e delle informazioni acquisiti diventa oggetto di specifiche elaborazioni e valutazioni allo scopo di: 
– Descrivere il fenomeno.
– Costruire delle tipologie utili sul piano analitico come sul piano della sintesi dei dati acquisiti. 
– Avanzare delle interpretazioni o delle spiegazioni, ovvero, ipotizzare dei rapporti o delle connessioni. 
I metodi d’indagine più usati nell’indagine quantitativa sono l’inchiesta campionaria, il sondaggio d’opinioni e l’indagine a carattere sperimentale.  Le tecniche usate per l’acquisizione delle informazioni prevedono soprattutto l’uso del questionario o del test
La ricerca qualitativa, invece, piuttosto di assumere la realtà sociale come una realtà indagabile e oggettivabile, muove dal presupposto che ogni interpretazione è una costruzione di senso e si da come obiettivo quello di riconoscere le rappresentazioni e il significato che gli attori sociali danno di tale realtà. 
I metodi d’indagine più usati dalla ricerca qualitativa sono il metodo etnografico (con il quale si studiano le strutture culturali, i comportamenti, le credenze), e il metodo biografico basato sugli studi del caso
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Qualche osservazione sulla ricerca sociale

Un appunto sulle forme – strategiche e tattiche – della comunicazione sociale. 
Qualunque sia il punto di partenza di un qualunque processo sociale inevitabilmente l’attore o gli attori sociali devono passare attraverso la filiera della teoria della decisione.  Infatti, ogni azione è la conseguenza di una decisione!
In altri termini ciò che qui interessa è rispondere alla domanda: Come un individuo sceglie o può scegliere tra opzioni determinate in funzione dei suoi interessi o degl’interessi dell’entità alla quale fa riferimento?  (…tutto questo, naturalmente, dando per scontato che l’individuo sia in grado di scegliere.)
In questo quadro il sistema ruota attorno a due nozioni base:  L’azione come processo, da una parte, gli attori che vi partecipano, dall’altra.  In questo senso, è necessario definire prima l’azione e, in un secondo tempo, passare a descrivere il comportamento degli attori. 
Noi definiamo azione un processo nel corso del quale uno o più attori effettuano delle scelte. 
L’azione, in questo senso, consiste nel fenomeno osservato.
Occorre notare che il contributo degli attori all’azione riposa sul loro comportamento e non in quelle che sono o potrebbero essere le loro intenzioni.  L’azione, poi, si situa in un ambiente, cioè, dentro un sistema di variabili trasformate dall’azione stessa o suscettibili di essere trasformate.
Da qui una prima conseguenza: Lo svolgersi dell’azione è osservabile a partire dagli avvenimenti, cioè, dalle trasformazioni dell’ambiente.  Queste trasformazioni sono costatate e stimate dagli attori, ma è frequente che questi attori non valutino allo stesso modo le stesse cose e quindi finiscano per valutare le trasformazioni in modo diverso. 
L’attore e l’agente.
L’attore è l’individuo isolato o l’organizzazione suscettibile di effettuare le scelte.  Di contro, un’organizzazione partecipa al processo d’azione tramite un agente.  In questo senso un agente è un individuo che incarna un attore al momento dell’azione.  Questa distinzione tra attore ed agente discende dal fatto che un’organizzazione è allo stesso tempo un’entità determinata e una collettività dove coesistono delle procedure e degli ambiti operativi.  Inversamente un individuo non può giocare un ruolo in un’azione senza incarnare, anche solo in parte, un’organizzazione.  Paradossalmente questa distinzione tra attore ed agente ricorda quella tra persona fisica e persona morale.  Ci sono casi in cui l’agente può rappresentare completamente l’attore, come nel caso di un amministratore delegato con pieni poteri.  In ogni modo l’attore resta sempre l’organizzazione con i suoi atti particolari.
L’atto e l’effetto di un atto.  
L’effetto di un atto si compone di avvenimenti – cioè, di modificazioni di variabili – o di operazioni di mantenimento dello status-quo.  Va tenuto presente, però, che l’effetto di un atto non sempre è immediatamente successivo ad un atto.  Può succedere che l’effetto sopraggiunga molto dopo e questo perché, per esempio, il processo – che contiene l’atto – non è immediatamente apparente.  E’ quello che, nelle scienze naturali, viene definito periodo d’incubazione.  Ma può darsi anche il caso che lo svolgimento del processo che contiene l’atto venga successivamente occultato o modificato o messo in gioco visivamente più tardi.  Nei giochi di strategia questo intervallo di tempo non è né un handicap né un vantaggio, ma può diventare uno dei due nel decorso dell’azione.  In questo quadro l’effetto, come condizione dell’esistenza dell’atto, come inveramento dell’atto, permette di valutare la pertinenza dell’informazione iniziale o di modificarne la traiettoria nel tempo del processo anche indipendentemente dalle intenzioni degli attori. 
Il decisore, la decisione.
Nella misura in cui le intenzioni degli attori sono dissociate dal (loro) comportamento osservabile, e questo comportamento osservabile a sua volta può essere distinto dagli effetti che gli succedono nel tempo, si deve distinguere tra atto e decisione.  Nella pratica: Non esistono azioni semplici, ma solo azioni complesse (che dall’esterno possono apparire esemplari!) e che, in genere, fanno intervenire più di un attore, tra cui i “decisori”.  (Qui definiamo “decisori” gli attori che prendono la “decisione”, cioè, selezionano una intenzione che inverano nell’atto al seguito del quale l’azione sarà modificata.)  Non esistono decisioni che non verticalizzino il tempo, nel senso che una decisione è la condizione di un cambiamento, ma  anche di un possibile pregiudizio sugli effetti a venire.  La decisione, insomma, ha un carattere destinale.  La decisione collima con l’atto solo in un caso, quando verifica un’ipotesi deterministica, cioè, esiste una certezza degli effetti dell’atto. 
Può darsi il caso che gli effetti sperati dal decisore non si concretizzino ( Motivo? L’informazione insufficiente, la mancanza di una razionalità nell’azione, il sopraggiungere d’impedimenti non prevedibili).  In questo caso occorre dissociare le intenzioni proprie dell’attore dal suo comportamento, come dagli effetti del suo comportamento.  Perché?  Perché l’osservatore, se definiamo la decisione come una selezione dell’intenzione che s’invera in un atto, non potrà mai osservarla direttamente.  Come fare?  Procedere alla destrutturazione dei concetti in modo da poterli ricombinare in maniera dinamica con logiche diverse.  La logica di chi agisce, la sua volontà e la sua percezione dell’azione sono, infatti, le combinazioni da cui dipendono gli effetti del suo atto. 
In ogni modo, ogni cambiamento di comportamento “traduce” e “tradisce” le intenzioni dell’attore e riflette le regole dell’azione. 
Osserviamo ancora questo, nella pratica un atto non rinvia quasi mai ad una decisione definitiva.  Più che un atto isolato è la successione degli atti che permette di tarare progressivamente le intenzioni degli attori.  Di contro, per agire su un azione non è affatto necessario conoscere sempre queste intenzioni. 
Va da sé, un attore diventa un decisore nel momento in cui prende una decisione che s’invera in un atto e, questo ruolo, può essere strategicamente alterato per ingannare sulla sua identità.  Ancora, si possono avere atti che sono senza decisione e dunque senza decisore.  E’ il caso degl’atti riflessi.  In ogni modo nella sociologia della comunicazione l’effetto è sempre attribuito all’atto e non alla decisione.
Le decisioni collettive, le coalizioni.
Quando le decisioni sono prese da un gruppo di attori possiamo distinguere due casi: 
Uno. Quello della decisione collettiva. Una decisione è collettiva quando il decisore è costituito da un gruppo di attori che seguono le stesse regole di comportamento.  Due. Si tratta di una coalizione quando gli atti degli attori sono coordinati per essere concomitanti.  ( Per conseguenza, si definiscono “istituzioni” le decisioni collettive di natura perenne.  E’ il caso dei parlamenti, per esempio). 
Per riassumere:
Un attore è una organizzazione che partecipa ad una azione, ed essa è rappresentata da agenti che sono degli individui.  I due termini si sovrappongono solo in un caso, nell’azione individuale, quando l’agente non rappresenta che se stesso.  Gli atti compiuti da un attore si costatano dal cambiamento di comportamento e dal loro effetto.  Non sempre gli effetti previsti sono quelli voluti. 
Un atto senza decisione e l’atto di riflesso.  La decisione può essere collettiva o di coalizione. 

Qualche osservazione sulla ricerca sociale

La fase, la sequenza, la regola il transfert.
L’azione può essere destrutturata in periodi lunghi (fasi) o in periodi brevi (sequenze).  Nella fase ci sono azioni che possono coinvolgere o non coinvolgere il sistema dato, con il risultato che ci sono delle relazioni che mutano immediatamente ed altre che possono restare inalterate.  C’è un cambiamento di fase quando la più parte delle relazioni sono state trasformate, non importa il modo, cioè, per cause interne – come conseguenza degl’atti – o esterne.  In questo caso i contrasti nel comportamento degli attori si trasformano a loro volta generando nelle nuove regole o confermandone altre.  Attenzione:  la trasformazione di una o più regole che si produce all’esaurirsi di una fase costituisce una sorta di “transfert”, cioè, una modificazione nella coercizione del comportamento.  Gli effetti di una decisione, per altro, sono suscettibili anche di provocare un transfert che la trasforma, al di fuori, spesso, delle intenzioni del decisore. 
Abbiamo detto che una fase determina una durata tra due cambiamenti di regole.  Ciò non toglie che si possano studiare una serie di fasi senza conoscerne necessariamente l’origine o il fine. 
Nel corso di una fase si possono enucleare dall’azione episodi autonomi o che si succedono o che coesistono, a questi daremo il nome di sequenze.  Dunque la sequenza è un processo s’azione autonomo delimitato nel tempo all’interno di una fase.  Perché è importante la determinazione delle sequenze?  Perché essa permette di distinguere, quando è necessario, i ritmi o i modi di evoluzione che compongono la fase.  Infine, quando le decisioni o gli atti devono sottostare a delle regole di funzionamento si definiscono queste regole come procedura. 
Percezione dell’azione.
Dobbiamo considerare l’azione anche sotto l’aspetto di successione di informazioni dalle quali gli attori prelevano certi dati – variabili di stato e di rappresentazione – secondo un certo modo di giudicare la situazione generale.  Gli attori creano anche dell’informazione – sia nel momento in cui l’atto s’invera, sia nella sua attuazione – ed, inevitabilmente se le scambiano.  Soprattutto, stabiliscono delle relazioni di dominanza che determinano le negoziazioni.
Ci sono variabili di stato e variabili di rappresentazione.
Le variabili che compongono l’ambiente sono chiamate variabili di stato, il loro numero e le loro caratteristiche variano nel corso di un’azione.  Qui, l’attore che partecipa all’azione non necessariamente conosce o possiede dei dati obiettivi su di esse.  Noi chiamiamo variabili di rappresentazione la stima che un attore può dare di un’altra variabile che può essere, indifferentemente, di stato o di rappresentazione. 
E’ il paradosso dei due uomini chiusi in una stanza.  “A” pensa che piove – variabile di rappresentazione di una variabile di stato.  “B” pensa che “A” creda che non piove.  In questo caso “B pensa che A creda che non piove”, cioè, quello che pensa “A” è per “B” una variabile di rappresentazione.  Come è facile costatare queste due categorie di variabili procurano all’attore dei convincimenti suscettibili di trasformare il suo comportamento. 
Possiamo dire, a questo punto, che l’effetto costituisce spesso una transizione tra due atti dello stesso attore.  E’ il caso della finta nella boxe nella sequenza uno, parata, due a segno, come conseguenza della parata che ha sbilanciato l’attaccato.  Così, per “A” come per “B”, l’effetto di un atto deve essere costatato senza tener conto delle decisioni ipotetiche dell’attore che lo ha effettuato, perché, sul piano della prassi, la trasformazione della traiettoria di certe variabili previste al momento della decisione sono quasi sempre diverse dall’effetto dell’atto.  Come nella boxe, ci sono pugni virtuali che non arrivano mai, ma che determinano – a causa del loro effetto – le circostanze per l’arrivo di quelli veri! 
Per conseguenza, si chiama “spazio di valutazione” quella parte dell’ambiente che si presume contenga gli effetto virtuali di una decisone o che subirà le conseguenze di un atto.  In questo spazio è possibile selezionare delle “dimensioni valutative” che sono le dimensioni elementari del sotto-sistema dell’ambiente definito “spazio di valutazione”.  L’utilizzazione delle dimensioni valutative permette di adattare dei criteri in funzione dell’evoluzione del processo osservato.  (E’ il caso della cintura di sicurezza.  Nei piccoli tragitti le dimensioni valutative dimostrano che si giudica il pericolo un vincolo più forte della norma che le prescrive, da qui la decisione di molti di non indossarle.)  Si possono definire, in questo contesto, i “criteri di valutazione” come la stima scelta per valutare gli effetti virtuali di una decisione o l’effetto di un atto su una dimensione del problema in oggetto.  Dalla correttezza delle dimensioni valutative, invece, discendono le possibilità di un’azione di giungere al suo obiettivo. 
Annuncio.
L’annuncio è l’informazione data da uno o più attori su un cambiamento di stato di una variabile o di un cambiamento di una variabile.  (Per quelli che sono restati chiusi nella stanza.  “C” entra nella stanza è dice, la pioggia è cessata.  L’informazione di “C” è un cambiamento di stato della variabile tempo.  Non sempre gli annunci sono verbali.  La finta del primo pugile per tirare il secondo colpo sul bersaglio è per il secondo pugile un annuncio!  Di regola ad un annuncio segue un effetto, cioè, la trasformazione della traiettoria di una variabile in atto.  (E’ il caso classico del ricatto.) 
L’attore che partecipa all’azione è allo stesso tempo un decisore e un osservatore – dei propri atti e di quelli degl’altri.  Ne consegue che noi dobbiamo distinguere le variabili di stato e le variabili di rappresentazione a seconda se esse sono osservate o stimate al fine di distinguere l’effetto virtuale previsto al momento della decisione – che necessariamente concerne soltanto le variabili di rappresentazione – e l’effetto reale che testimonia l’esistenza dell’atto.  La differenza degli effetti può anche dipendere dal momento o dalla maniera con cui si osservano, così, è necessario distinguere tra:
L’attuazione.  O l’atto che modifica direttamente l’azione per mezzo della modificazione delle traiettorie delle variabili di stato.
L’adattazione.  O l’atto che modifica indirettamente l’azione modificando le variabili di rappresentazione che inquadrano il comportamento dell’attore.
La dominanza.
Un attore dominante e un attore i cui atti sono successioni di effetti che limitano le scelte di comportamento degl’altri attori o trasformano gli effetti che questi si aspettano dalle loro decisioni.

Qualche osservazione sulla ricerca sociale

Si possono definire due tipi di dominanza:  La dominanza forte è quella che trasforma le condizioni dell’attore dominato limitandolo nelle decisioni o riducendogli le scelte possibili.  La dominanza debole è quella che agisce sugli effetti che l’attore dominato si aspetta dai suoi atti.  Nella vita corrente è l’ambito delle minacce: se tu fai questo io allora  non farò questo… 
Gli esempi di dominanza sono numerosi.  La dominanza può essere acquisita – si realizza nella metafora dell’accerchiamento.  Strutturale – sono in genere nella forma di ordine e discendono da una gerarchia.  Un attore può essere dominante su una situazione e non esserlo in un’altra, perché la dominanza non è attribuibile all’atto, ma alle relazioni tra gli attori.  Da qui, l’interesse a precisare, attraverso l’utilizzazione delle nozioni di attuazione e di adattazione, le dimensioni del suo esercizio.  In pratica occorre seguire le conseguenze e le evoluzioni delle multiple relazioni di dominanza, come l’utilizzo che ne fanno gli attori.  (N.B. –  Il concetto di dominanza è qui utilizzato nel suo significato di “termine tecnico della teoria dei giochi”.) 
La negoziazione.
Si chiama così una successione di adattazioni prese dai decisori alternativamente dominanti.  Si chiama negoziazione conclusa quella a cui segua un adattazione di uno o più decisori.
L’anticipazione
Si verifica quando l’attore si comporta in modo da far coincidere le sue anticipazioni sull’azione con il suo augurio.  In questo contesto, la conclusione è un avvenimento virtuale definito dall’attore come lo stato finale probabile di un’azione.  La sua utilità sta nel fatto di essere un punto di riferimento per valutare la tendenza dell’azione.  Va notato che  l’anticipazione di una conclusione non dipende dalle preferenze dell’attore e non pregiudica il seguito degli avvenimenti.  Essa, soprattutto non deve essere confusa con un obiettivo.  Per conseguenza il cambiamento di regole è una “rottura”, cioè, un transfert che rimette in causa la conclusione della decisione, perlomeno da parte di un attore.  Il transfert, di per se, ha la caratteristica di creare un cambiamento di fase, ma non rimette in discussione direttamente gli obiettivi, mentre la rottura li rimette in discussione direttamente. 

Qualche osservazione sulla ricerca sociale

Strategia, obiettivo, tattica
(In generale, la strategia è quella parte dell’agire che si occupa del piano generale delle operazioni progettandolo o regolamentandone le operazioni.  La tattica, cioè l’arte di predisporre un esercito, studia l’impiego delle forze sul campo e considera perciò la disposizione che deve assumere ciascuna unita organica per recare il massimo danno subendone uno minimo.  Le mosse che sono più opportune per passare dall’una all’altra disposizione nel minor tempo possibile.  Gli atti che servono meglio a far assumere al confronto il desiderato carattere dimostrativo, temporeggiante, offensivo, difensivo, risolutivo.) 
Che la conclusione di un’azione sia prevista o non lo sia, l’attore è sempre suscettibile di stabilire un senso nel quale vuole orientare il processo e determinare uno spazio e delle dimensioni valutative.  In questo senso definiamo “obiettivo” un avvenimento virtuale che un attore si augura alla fine di una fase o nel corso di un azione.  Per raggiungere un obiettivo fissato l’attore prevede in maniera più o meno dettagliata una catena di cambiamenti di variabili di stato su un insieme di fasi. Questa previsione è una strategia.  Ma, di fatto, una strategia dipende implicitamente anche dal modo in cui un attore valuta le regole, perché sono esse che determinano i cambiamenti necessari. 
Dunque, non c è strategia se non ci sono delle regole.  Essa traduce la concordanza tra la volontà dell’attore e lo svolgimento dell’azione.  Essa non concerne che le variabili di stato e dunque risponde dell’orientamento che prende il processo dell’azione.  Sotto l’influenza di fattori “esogeni” o della “tattica”, la strategia può trasformarsi nel corso dell’azione.  La strategia non costituisce una concatenazioni di decisioni o di atti, né un modello di azione, essa è piuttosto una “visione” di un ordine particolare di concatenamento degli avvenimenti, qualunque sia l’origine di questi ultimi, secondo delle regole supposte di azione.  Per meglio concretizzare una strategia o conservarla l’attore deve utilizzare delle “tattiche”.  La tattica è la successione delle combinazioni di decisioni presa in considerazione da un attore al fine di creare degli effetti che producono dei cambiamenti di stato favorevoli alla realizzazione di una strategia.  Alla fine, la tattica non costituisce una semplice messa in opera della strategia, ma una mediazione tra la strategia dell’attore e l’azione alla quale egli partecipa per il confronto successivo degli effetti virtuali o reali, perché a partire dal momento in cui la decisione è tradotta in atto, il decisore è spossessato dei suoi effetti. 
Per riassumere
La strategia è – al suo livello più basso – all’altezza della fase.
La strategia è per sua natura virtuale.
Con la strategia l’attore seleziona delle tappe dell’azione che vanno nel senso di un obiettivo, proiettando la sua volontà nell’azione virtuale e realizzandola. 
La tattica è di durata variabile, ed essa amalgama gli effetti reali e quelli virtuali, le strategie e lo svolgersi dell’azione.  Essa può padroneggiarsi al meglio solo nel suo dispiegarsi. 
Come cartina di tornasole dell’efficacia strategica essa è continuamente comparata a questa attraverso l’azione reale. 
Occorre sempre distinguere, quando è possibile, una decisione strategica da una decisione tattica.  Cioè, una decisione in cui l’attore non si attende nulla di più di un transfert virtuale e la decisione nella quale ci si aspetta un effetto virtuale diretto su una coercizione.  Gli effetti virtuali di una decisione strategica sono stimati tenendo conto delle regole della fase successiva.  Le decisioni tattiche creano o riducono le libertà di comportamento senza necessariamente creare una nuova fase.  Per esempio, la costituzione di riserve in vista di un assedio è una decisione tattica perché diminuisce direttamente la coercizione imposta nel caso esso si verificasse.  Ma essa non modifica le regole dell’assedio eventuale che consiste nell’impedire l’approvvigionamento.  Così, assediare è una decisione tattica dell’assediante, perché diminuisce la libertà di comportamento degli assediati senza cambiare le regole.  Infine, non tutte le decisioni sono necessariamente strategiche e tattiche, questo dipende dalle circostanze. 
Il metamodello
Come abbiamo visto l’azione è un processo complesso, scandito da fasi e da sequenze, organizzato secondo delle regole.  La sua evoluzione, in genere, non è mai completamente percepita, né padroneggiata dagli attori che vi partecipano.  L’azione non ha delle finalità, ma solo delle conclusioni possibili.  L’attore partecipa all’azione con i suoi atti e i suoi effetti, ma questi non sono sufficienti a definire l’azione.  L’attore che persegue i suoi obiettivi deve tener conto della distinzione che esiste tra la tendenza e la dinamica che si percepisce del processo concreto o apparente dei fenomeni.  Queste due componenti, infatti, rendono più complessa la nozione di rischio facendo intervenire tra le variabili i tempi e la soggettività dell’attore.
Nello svolgimento dell’azione il rischio, in genere, si concretizza con l’irruzione dell’imprevisto e/o con la constatazione di un mancato controllo. 
Gli atti si caratterizzano per la loro funzione nell’azione.  Certi possiedono delle caratteristiche particolari, sono gli atti di attuazione, procedurali, di coalizione, eccetera.  Quelli che orientano particolarmente l’azione, in genere, sono tattici o strategici.  Per molti atti, infine, la precisione può non essere necessaria, ma semplicemente costatata nel corso di svolgimento di un’azione. 
Con questo, la nostra definizione di decisione si situa all’incrocio tra quelle che mettono l’accento sulla nozione di processo (PROCESSO CHE TRASFORMA L’INFORMAZIONE IN AZIONE) e quelle che mettono in luce la modificazione ( LA DECISIONE COME MODIFICAZIONE DI UNA NORMA).  La nozione di azione, di decisione, di atto e di effetto determinano la nozione di strategia. La strategia si acquisisce, nel corso di un azione l’attore non deve necessariamente averla, cosi come può mancare di un obiettivo.  E’ con la tattica che egli acquisisce certi mezzi  e fronteggia le modalità della sua messa in opera.  La loro concretizzazione passa per la successione delle decisioni e degli atti degli attori tra i quali certi possono essere tattici o strategici. 
C’è anche da notare che l’opposizione tra lungo e corto periodo – sovente evocato nell’ambito tattico-strategico – è relativa.  L’orizzonte della strategia è la rottura o il transfert, quello della tattica è un cambiamento di stato necessario.  Quello che lo distingue è più la capacità di dominanza che di ritmi differenziati di evoluzione. 

Fine prima parte. 

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Gli Studio Crafts e il Design, una traccia

Gli Studio Crafts e il Design, una traccia. 

L’uomo è un animale che pensa con le dita. 
Marcel Mauss

Gli Studio Crafts e il Design, una traccia

Alcuni aforismi introduttivi.
La cultura materiale, i gusti artistici, le forme del design, la moda, i consumi possono essere interrogati come segnalatori delle condizioni sociali.  Essi possono rilevare la mobilità e l’identità di gruppi e classi. 

I comportamenti, le pratiche e le tecniche sono sempre configurati socialmente.

L’ominazione che ci portò a Lascaux si può configurare come un “corpo a corpo” con materie, sostanze, oggetti, sogni, soggetti.

Più che il cervello ci fece diventare uomini l’invenzione della locomozione eretta.  Essa ha un triplice vantaggio.  Ci fa vedere meglio l’orizzonte. Ci conferisce una postura minacciosa.  Ci consente di portare cibo, armi, oggetti. 

Siamo divenuti l’animale più intelligente del pianeta, ma non c’è animale che come noi dipende dalle protesi che si è costruito. 

L’estetizzazione degli oggetti – che oggi chiamiamo design – è una strategia che consente di ri-funzionalizzare i gesti, le capacità manuali, gli stili di vita.

Il vantaggio del linguaggio nei processi comunicativi risiede nella sua astrazione, ma per non ridurlo a mero flatus vocis occorre che esso diventi legame, trama, rappresentazione tra la parola e l’azione. 

Gli Studio Crafts e il Design, una traccia

Fino a qualche anno fa gli Studio Crafts erano considerati minori e periferici rispetto al design tradizionale e non se ne parlava anche se hanno giocato un ruolo importante nella cultura visiva e materiale contemporanea. 
Oggi le cose sono sostanzialmente mutate proprio a partire dai paesi più industrializzati del mondo occidentale, Italia compresa, considerata una delle protagoniste del design industriale. 
In altri termini si tende sempre di più a rivalutare l’artigianato artistico locale e nazionale legato alla tradizione soprattutto all’interno di eventi caratterizzati dal folclore. 
Facciamo un passo indietro. 
Alla fine dell’800, con l’affermarsi dello Stile Liberty, l’artigianato artistico ricevette un forte incremento un po’ dappertutto in Europa, anche se in Italia, per ragioni legate allo sviluppo del paradigma industriale, non vide il sorgere di una tendenza così importante com’era stata l’esperienza dell’Art and Craft Movement inglese, così come non era stata interessata a quel fenomeno borghese-romantico che fu il movimento Biedermeier tedesco.  
La breve stagione dell’artigianato artistico italiano in ogni modo cessò, di fatto, con la “IV Esposizione Internazionale delle arti decorative ed industriali” di Monza del 1930 che vide l’affermarsi della sedicente politica culturale del fascismo e la promozione del design a produzione industriale in serie. 
Le cronache raccontano che venne confrontato il lavoro di architetti classici come Giovanni Muzio e Marcello Piacentini con quello degli architetti razionalisti del "Gruppo 7".  Questa esposizione diventerà poi triennale e si sposterà nel nuovo Palazzo della Triennale di Milano. 
Il “Gruppo 7” si era formato nel 1926 attorno al progetto di una architettura razionalista.  
Lo costituirono Luigi Figini, Guido Frette, Sebastiano Larco, Adalberto Libera, Gino Pollini, Carlo Enrico Rava e Giuseppe Terragni.  Nel 1930 dall’ampliamento del "Gruppo 7" di architettura razionalista nascerà il M.I.A.R., “Movimento Italiano Architettura Razionale", che comprenderà una cinquantina di architetti.)
Oggi gli Studio Crafts hanno cominciato a rendersi visibili ed a occupare quel territorio intermedio e confuso che sta tra arte e design.  Lo si vede chiaramente nelle politiche di gruppi internazionali di design come sono, per fare un paio di nomi, il gruppo olandese Droog (fondato nel 1933, è un collettivo di architetti che si occupa di arredamento e disegno industriale) e quello italiano di Alessi.  Lo si constata soprattutto nel loro tentativo di andare oltre il funzionalismo, e nell’interesse di molti designer di progettare sempre più spesso oggetti unici anche approfittando delle innovazioni tecniche e tecnologiche del momento. 
L‘espressione di “funzionalismo” era molto popolare prima della seconda guerra mondiale. 
Allora si distingueva un architettura funzionale che puntava sui vantaggi funzionali, razionalmente dimostrabili, anziché sulle valutazioni del gusto e si rispecchiava nella definizione di Le Corbusier della casa come macchina per abitare
L’architettura razionale, invece, mirava ad essere un’espressione della ragione e tendeva a comunicare purezza, sapere e conoscenza. 
C’era, infine, un architettura internazionale, scrive Walter Gropius a questo proposito: “Nell’architettura moderna è percepibile l’oggettivazione di ciò che è personale e nazionale. Una moderna impronta unitaria, condizionata dai traffici mondiali e dalla tecnica mondiale, si fa strada in ogni ambiente culturale… fra i tre cerchi concentrici individuo, popolo, umanità – il terzo è il maggiore ed abbraccia gli altri due, da qui l’espressione di architettura internazionale.”)

Gli Studio Crafts e il Design, una traccia

Su questi temi, per tornare in argomento, è anche curiosa l’odierna tendenza che si manifesta nell’arte di associare l’invenzione poetica all’artigianato soprattutto nell’ambito di quelle che vanno sotto il nome di “istallazioni”.  Di recente nei paesi di lingua inglese si sono anche riprese le antiche distinzioni di un tempo, cioè, le tante sottocategorie che identificavano l’artigianato. 
(Craft è un’espressione polisemica, identifica l’artigiano, l’artigianato e l’abilità nella creazione manuale, più altre cose ancora, per esempio, aeroplano..) 
Da qualche anno si riparla di rural craft, folk craft, vernacular craft, amateur craft e si comincia a considerare nuove categorie come l’ethnic craft, che non interessa più soltanto gli antropologi o i “cacciatori di novità” e il turistic craft.  Quest’ultimo destinato a creare per il mercato turistico prodotti in conformità dei gusti degli acquirenti, a cominciare dagli oggetti di moda.  C’è, infine, una tendenza che acquista un particolare valore sociale, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, è il women’s craft, spesso frutto di ambienti casalinghi e familiari. 
Questo ritorno dell’artigianato ha inevitabilmente fagocitato le molte zone di frontiera con il design e l’arte, ma anche con la tecnologia e il marketing
Non dobbiamo dimenticare che i craft, da un punto di vista storico, subirono nell’ambito della cultura occidentale due trasformazioni fondamentali.  La prima quando furono separati, anche da un punto di vista ideologico, dalle Belle Arti e declassati ad arti applicate o decorative.  La seconda quando il design cominciò a produrre prodotti di una certa qualità a basso costo. 
Oggi tra i vari craft gli Studio Craft si distinguono sia per la piccola serie sia per la loro destrezza tecnica ed artistica.  In altri termini sul mercato è comparsa una produzione artigianale che può competere con le opere d’arte, non per caso chi lavora in questo ambito esige spesso uno status artistico per i propri “artefatti”  sebbene essi vengano tradizionalmente associati alle arti applicate e decorative come la ceramica, il vetro, il tessuto, il mobilio, e i gioielli.  Lo si può verificare nel fatto che queste creazioni artigianali sono sempre più spesso esposte in mostre, e poi in musei e gallerie.       
In termini storici gli Studio Craft costituiscono una tendenza che emerse, sia pure indistintamente, al tempo dell’Art and Crafts Movement di John Ruskin e William Morris.  Nel senso che essi, una volta superato l’atteggiamento romantico e nostalgico di Ruskin e Morris, cominciarono a privilegiare – senza preclusioni per le logiche industriali – la qualità e l’artisticità dei prodotti. 
In altri termini si resero conto dell’inutilità di voler fare degli oggetti disegnati un romantico antidoto all’industrializzazione. 
In particolare in Inghilterra si rivendicò un ruolo artistico per la ceramica.  Gli Studio pottery proliferarono dovunque e la loro produzione fu difesa da un famoso critico d’arte inglese, Roger Fry (1866- 1934) poco conosciuto in Italia, membro del Bloomsbury Group, un gruppo di artisti radicali che prendono il nome da un quartiere di Londra e che lì vissero ed operarono tra il 1905 e la seconda guerra mondiale.  
A questo proposito si può dire che fu proprio attraverso l’esperienza della ceramica che in Inghilterra fu superato il retaggio moralistico dell’Art and Crafts Movement in favore del modernismo.  Il motivo è che la ceramica in qualche modo si poneva nel gusto inglese in una posizione intermedia tra la pittura e la scultura, ma c’è di più, considerata l’epoca la ceramica riusciva a mettere insieme le terraglie autoctone con l’antica ceramica cinese e dunque a sposare la tradizione anglosassone ed imperialista con le mode orientaliste e l’esotismo. 
Ricordiamo che la ceramica della dinastia Tang (618-907) è considerata il punto più alto mai raggiunto da questa attività e che attraverso l’orientalismo passarono in quegli anni anche molti concetti che stanno alla base delle avanguardie storiche. 
(La Cina conobbe sotto questa dinastia un periodo di grande progresso in tutti i campi. 
La poesia, anche perché favorita dalla corte, raggiunse il massimo splendore con più di duemila poeti, dei quali ci sono stati conservati più di cinquantamila componimenti.  I poeti maggiori furono Li Bai (Li Po) e Du Fu, che vissero sotto il regno di Xuanzong. Un altro grande poeta e pittore fu Wang Wei. 
Di quest’epoca è l’invenzione della stampa (VIII sec.) e l’introduzione dell’uso della carta moneta, realizzata con l’interno della corteccia dei gelsi.  Nel campo della ceramica la dinastia Tang è conosciuta soprattutto per le sue figurine di terracotta di stile realistico. Ma quest’arte produce anche pezzi rari, si cominciò ad ottenere la porcellana grazie ad una argilla speciale portata a più di milletrecento gradi che ha dato vita, tra l’altro, ai "celadon" una ceramica verde-azzurra, divenuta in seguito anche una specialità coreana.  Il celadon è costituito dalla combinazione dell’ossido del bicromato di potassio, il colore giallo del cadmio e del bianco del titanio-zinco.

Gli Studio Crafts e il Design, una traccia

Il celadon è particolarmente apprezzato in Asia, perché permette di ottenere il colore della giada, la pietra sacra per eccellenza.  Il colore blu verde del celadon, di fatto, proviene da una piccola quantità di ossido di ferro inclusa nella vetrinatura al momento della cottura.  Una cottura ossidante (con una grande quantità d’aria) dà alla vetrinatura un colore giallo bruno. Capita anche che, durante il raffreddamento, il forno venga ri-ossigenato e alcuni vasi presentino entrambi i colori.)
Ricordiamo, qui, William Staite Murray (1881-1962), dapprima importatore di ceramiche dalla Cina e poi ceramista.  Le sue ceramiche, oggi, sono considerate delle vere e proprie opere d’arte anche grazie alla speciale cottura a cui erano sottoposte.  Murray conosceva benissimo la ceramica orientale e la sua produzione in piccola serie o di esemplari unici segnò una rottura fondamentale con quella prodotta industrialmente. 
Lasciamo la ceramica è proseguiamo dell’analisi degli Studio Craft
Essi tornano alla ribalta con gli anni ’50 del Novecento acquistando subito una fisionomia innovativa soprattutto nel campo dei gioielli e dei tessili.  In altri termini questi Studio, questi atelier d’avanguardia, cancellarono ancora di più la distinzione tra arte, craft e design
Il tema ha molte sfaccettature.  La prima riguarda la separazione tra arte e crafts, ossia la distinzione tra creatività e virtuosismo tecnico.  O, se si preferisce tra lo sviluppare idee e il realizzare oggetti. 
Il punto è importante perché mette in crisi il principio che la creatività è un’attività mentale svincolata dall’abilità tecnica.  Vale a dire, che si possa praticare un arte senza le virtù pratiche e manuali dell’artigianato, ma fidando solo sulla propria sensibilità estetica.   
I ballerini, gli attori, i musicisti, per esempio, non considerano la capacità tecnica un intralcio, mentre molti artisti visivi, ancora oggi, considerano l’abilità come un ostacolo alla pura creatività, che poi lo sia o non lo sia poco importa, perché è un principio accettato. 
Ricordiamo, a questo proposito, che Paul Klee disegnava solo con la sinistra perché riteneva che la destra si fosse deteriorata durante gli anni in cui frequentò l’Accademia di Belle Arti. 
Qui, interviene anche un altro tema in ombra.   
Che ruolo svolge la conoscenza dei materiali nei processi creativi degli Studio Craft?       
Henry Focillon (1881- 1943) è stato un autorevole storico dell’arte francese, insegnò a Lione e negli Stati Uniti, nel suo famoso saggio Éloge de la main del 1943 sostiene che c’è un legame inseparabile tra il pensiero e la mano, tesi per altro condivisa anche dall’antropologia culturale. 

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Di recente la casa editrice Einaudi ha pubblicato due suoi saggi nel volume Vita delle forme
In questi saggi Focillon si occupa dell’arte in una prospettiva teorica, nel primo saggio, che da il titolo al libro, rivendica come le opere d’arte siano composte di forme “vive”, legate a doppio filo con tempi che le circondano.  La forma, per lui, non è una mera rappresentazione statica, ma contiene al suo interno una vita vera e propria, fatta di volontà di rinnovamento, di stupore. 
Nell’altro saggio, Elogio della mano, Focillon si concentra sul rapporto spirituale che si instaura tra forma materiale e mano che la genera.  In questa “lotta”, emerge la funzione dell’ “attimo” della creazione, dove lo spirito della mano viene riversato nella forma artistica e cristallizzato in essa.

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A questo proposito ricordiamo anche Hannah Arendt (1906-1975) uno dei più autorevoli filosofi del ‘900, tedesca, di origini ebraiche, visse soprattutto negli Stati Uniti, nel libro The human condition uscito nel 1958 e tradotto in italiano con il titolo di Vita activa, attribuisce all’homo faber, in contrapposizione con l’homo sapiens, un atteggiamento contemplativo nei confronti degli oggetti che realizza, capace di trascendere la banalità dell’uso.  Si potrebbe dire che i protagonisti degli Studio Craft come i filosofi devono sapere che cosa hanno a loro disposizione, cosa farne e come trasformarlo in qualcosa di nuovo.
Questo è un punto cruciale, perché chi opera in uno Studio Craft a differenza dell’artista deve poter immaginare quello che fa prima di procedere alla sua realizzazione, e questo sapere non deve essere vago, ma finalizzato e costituire un elemento essenziale della progettazione creativa.  Insomma, se vogliamo progettare un tavolo dobbiamo conoscerlo per ciò che esso è e a ciò che serve. 
Si potrebbe obiettare, a questo proposito, che virtuosità e creatività sono strettamente legate tra di loro e che la differenza, spesso, è fatta dai materiali e dalla sperimentazione.  Così come si potrebbe obiettare che oggi c’è una perdita di credibilità dell’arte moderna per il fatto che ogni “idea” può, in fin dei conti, essere definita artistica. 
Tutto ciò rappresenta un paradigma che favorisce la cultura orientale dove la virtuosità è sempre stata apprezzata.  Ricordiamo, a questo proposito, i lavori di Sara Tse, un artista di Hong Kong, nata nel 1974, che nelle sue istallazioni di artista unisce l’arte tessile alla ceramica, o meglio trasformando la ceramica in un tessuto algido, astratto, metafisico, di grande impatto visivo. 
Il tema in Italia è ancora sotto traccia, ma possiamo osservare questo, la Biennale di ceramica nell’arte contemporanea che si tiene in Liguria tra Savona, Albissola Marina e Vado Ligure, ha ripreso una tradizione che risale al futurismo e agli anni ’50 quando artisti dell’importanza di Asger Jorn, Wilfredo Lam o Lucio Fontana, per fare solo qualche nome, lavorarono nei laboratori di ceramica della zona. 
Il secondo punto di forza del ritorno dell’artigianato si configura nell’apprendistato.  Nonostante il fenomeno dei dilettanti, degli hobbies e delle attività non-specialistiche il ritorno dei craft ha una dimensione professionale che cresce con il crescere della loro istituzionalizzazione. 
Lo si vede soprattutto in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e, in Giappone.  In questo paese l’apprendistato dura degli anni e spesso la maestria è dinastica, vale a dire ci sono famiglie e scuole che si tramandano da generazione in generazione l’eccellenza artistica e tecnica, come nel caso della ceramica Raku, che risalgono al XVI secolo, caratterizzate dalla “cavillatura”, cioè, da microfratture provocate da un brusco cambio della temperatura.  Una tecnica applicata anche alle spade e ai kimono.

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Il maestro dell’arte del bambù, Hayakawa Shokosei V, nominato “tesoro vivente”, il massimo riconoscimento ufficiale conferito agli artisti artigiani in Giappone ha alle spalle una vita dedicata all’apprendimento, in modi e in forme che noi occidentali definiremmo violenti o iniqui.  Si racconta che suo padre, che lo educò, distrusse tutti i suoi lavori per i primi quattordici anni in cui gli fece scuola.  Il motivo?  Il padre non voleva che il figlio, magari convinto di averne fatto uno valido, non fosse tentato di venderlo rovinando la reputazione della dinastia.          
A differenza del design i professionisti di questo ritorno dell’artigianato non si vergognano di rivendicare l’insegnamento dei loro maestri.  Lo si può vedere nel volume The Eloquent Object di Marcia eTom Manhart edito nel 1987 che traccia l’evoluzione degli Studio Craft negli Stati Uniti dal 1945.  Il libro è ricco d’informazioni riguardo la formazione, le scuole e i maestri degli artisti di cui parla. 
In sostanza, Avere un maestro nell’artigianato significa non essere un dilettante. 
In questo contesto possiamo dire che il continuo interesse che riscuote Bruno Munari ancora oggi nasce dal fatto che egli in realtà non è mai stato un designer puro, ma ha sempre valorizzato la sperimentazione manuale, sia per amore dell’artigianato che per l’Oriente.  Lo stesso si può dire per il gruppo Alchimia – fondato e diretto da Alessandro Guerriero – che ha operato tra il 1976 e il 1992.  Forse lo studio di disegno creativo più vicino agli Studio Craft di oggi.

Gli Studio Crafts e il Design, una traccia

C’è ancora un aspetto interessante, soprattutto dal punto di vista della sociologia, è il ruolo che i gender e le minoranze etniche giocano in questo ritorno dell’artigianato e il posto che occupano nella sua produzione. 
In altri termini è di una certa importanza vedere come i craft abbiano consentito a gruppi “marginali” di emergere e di utilizzare un mezzo espressivo che gli deriva direttamente dal luogo dove vivono.  Per esempio, minoranze etniche come sono gli Hopi che vivono nei pueblos del Nuovo Messico – li abbiamo incontrati parlando del libro di Ruth Benedict, Modelli di Cultura – così come altre piccole etnie destinate alla scomparsa sono riuscite a sopravvivere e a rinvigorire la loro eredità culturale grazie ai craft, che non devono però essere confusi con i tourist craft di altri luoghi, prodotti solo per assecondare il turismo.   
Negli Stati Uniti i craft sono serviti, nei lontani anni ’70, al Black Power Movement per auto-finanziarsi.  In questa prospettiva un caso interessante sono i women’s craft che, curiosamente, a differenza del mondo delle arti non sono mai stati sessisti o, più semplicemente, non hanno mai ostacolato l’eccellenza femminile, anzi, ne hanno sviluppato l’energia creativa, dal grande Woman’s Craft Centre di Abu Dhabi negli Emirati Arabi agli studi femminili dell’aristocratica Boston.     
Il gender ha poi svolto un ruolo importante negli ultimi venti, venticinque anni in connessione con le rivendicazione politiche del movimento femminista.  A questo proposito notiamo che molti craft sono stati utilizzati per esplorare e trasformare la percezione e il ruolo delle donne nella società contemporanea.  Ricordiamo tra i primi esempi l’installazione di Judy Chicago del 1979 intitolata Dinner Party.  La Chicago oltre ad essere un’artista è una femminista e un membro del Consiglio Femminista per i diritti animali, è nata nel 1939, il suo vero cognome è Cohen.  Dinner Party è costituita da una cena simbolica a cui sono idealmente invitate le donne più importanti della storia, dalle dee preistoriche a Georgia O’Keeffe (1887-1986) una stimata artista americana a cavallo tra precisionismo e astrattismo lirico.  La O’Keefe è stata tra l’altro la moglie del fotografo Alfred Stieglitz.  
Si tratta di un enorme tavolo triangolare dove ciascun posto o, meglio, ciascun coperto – eseguito con ceramiche, stoffa, metalli – è stato realizzato tenendo conto della personalità dell’invitata.

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Più recentemente Kelly Jenkins, un’artista inglese, nella mostra londinese intitolata Knit 2 Together del 2005 ha esposto quadri realizzati con la macchina per maglieria basati sulla pubblicità dell’industria pornografica.  Un modo per prendere in giro l’atteggiamento fallocratico nei confronti della sessualità e al tempo stesso di riportare all’attualità questa tecnica.  In uno dei quadri esposti alcune copertine di riviste per soli uomini circondano una ragazza che invece di sesso offre lavoro a maglia.  Dice l’artista il mio obiettivo è anche quello di mostrare come la maglieria sia Kitsch, ma solo nella testa di chi vive di stereotipi. 
Questo continuo scivolare dell’artigianato verso il design (come progetto) da una parte e l’arte dall’altra nel Rinascimento era piuttosto comune, basti pensare all’opera orafa di Benvenuto Cellini. 
Allora l’obiettivo di questi valori era la distinzione, cioè, la possibilità per chi poteva permetterselo di usare l’opera d’arte, di trattarla come un oggetto d’uso, invece di limitarsi a contemplarla. 
Tuttavia, come abbiamo accennato è il Giappone il paese più coinvolto nel legare arte artigianato e design – come riflessione sulla forma – con più di una iniziativa. 
Ricordiamo il movimento Mingei– che si sviluppò in Giappone soprattutto tra il 1920 e il 1930 – che si è sempre adoperato a salvare i craft dal processo d’industrializzazione che ha investito il paese a partire soprattutto dalla fine della seconda guerra mondiale.  Questo movimento ha ottenuto dal governo giapponese che i craft fossero ufficialmente riconosciuti come “proprietà culturali immateriali”.  Il pilastro filosofico di Mingei è "il fatto a mano a regola d’arte della gente comune" che fa scoprire Yanagi Sōetsu discovered beauty in everyday ordinary and utilitarian objects created by nameless and unknown craftsmen. la bellezza in oggetti comuni e utili creati da artigiani senza nome. 
Negli ultimi anni, tuttavia, sono state mosse delle critiche a questo movimento e a questa impostazione del bello negli oggetti disegnati da artigiani sconosciuti per il nazionalismo esasperato che questa strategia di valorizzazione degli oggetti artistici giapponesisi porta dietro, soprattutto rispetto ad altre realtà dell’Estremo Oriente, a cominciare dalla Corea. 
Ritorniamo al tema.  Oggi intorno all’arte, al design e all’artigianato c’è una fitta trama di relazioni che coinvolge sia i processi sociali e culturali, che quelli economici.  L’apprezzamento di una tela fiamminga del XVII secolo, di oggetti disegnati dagli allievi del Bauhaus, di una scatola di metallo lucida di Donald Judd, di ceramiche anonime degli atelier di Albissola Marina convive e si dispiega nello stesso paradigma culturale, creando spesso degli equivoci nel pubblico che era stato educato ad una gerarchia di valori costruiti su altri processi valoriali.  In ogni modo e paradossalmente si può affermare che Fontain di Marcel Duchamp sia un esempio di questo triplice incontro e che nessuno se n’era accorto fino ad ora.

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C’è ancora un punto da prendere in considerazione con il quale voltiamo pagina.  È la facilità, nel mondo che viviamo, che tutto diventi o sia all’improvviso travolto dal trash
Questa espressione, trash, significa in origine ramoscello spezzato.  Dunque, definisce una cosa di poco valore e per estensione, immondizia, rifiuto, spazzatura. 
Con gli anni, però, abbiamo assistito al fatto che il trash è diventato una vera e propria categoria estetica da non confondersi con il Kitsch.  Il trash, infatti, affonda negli aspetti bassi dell’esistenza, nei suoi aspetti materiali più osceni mentre il Kitsch tratta dei fenomeni degradati del gusto, diciamo, delle sue ipocrisie o della sua ignoranza.  Va notato che per i cultori del trash la vera esperienza estetica non è più legata al gusto, che spesso appare loro algido e sbiadito, ma al “disgusto” che caratterizza l’opera di molti artisti.  Alla fine del Novecento, infatti, molti artisti non hanno esitato a fare del disgusto una loro parola d’ordine.  Questa strada fu aperta dalla Funk Art e, contemporaneamente, dal Wiener Aktionismus con le sue sanguinolente performance sado-religiose. 
La Funk Art è una corrente artistica che prende nome da una mostra omonima del 1967 e che nasce in contrapposizione alle tematiche della Minimal Art.  Non ebbe, allora, fortuna e fu considerata sgradevole per i suoi continui richiami al sesso, alla religione, al non-sense.  Le opere erano realizzate utilizzando finta pelle, plastica, ceramica e oggetti d’uso quotidiano.  Qualcuno sostiene che questa poetica abbia influenzato anche la pop-art, in particolare gli assemblage di Robert Rauschenberg.   Ricordiamo ancora Piero Manzoni con il suo bolo fecale in scatola e il suo progetto “sangue d’artista”.  Una deriva trash nella letteratura l’abbiamo, invece, con lo scrittore francese Ferdinand Celine.  In questo caso è una deriva politica che si esprime con un risentimento viscerale nei confronti delle élite.  Ma da un punto di vista sociologico quale ruolo gioca il trash nei confronti di arte, design e artigianato? 
Nel trash c’è un riflesso della durezza dei conflitti socio-economici di questi anni, in questo senso è una loro demistificazione visto che la retorica della politica tende ad occultarli.  In altri termini, ipocrisia e trash sono le due facce della stessa medaglia, coniata con il post-moderno e in qualche modo andata in crisi l’11 settembre del 2001. 
Attraverso questa crisi molti sostengono che passeranno il nuovo modello di modernità e le nuove forme del gusto.    
(febbraio 2010)

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