Cinque lezioni tra «art & food» – Quinta lezione e appendice

Quinta lezione.

“…giù nel fosso vidi gente attuffata in uno sterco”…
vidi un col capo si di merda lordo che non parea s’era laico o cerco.”
Dante Alighieri, Divina Commedia, “Inferno” canto XVIII.

Introduciamo l’ultimo tema di queste lezioni passando per quello dei cultural studies, che diventano food studies nello specifico degli atti alimentari o visual studies, sulla scia della visual culture, quando si confrontano con l’arte.

Ricordiamo brevemente che gli “studi culturali” sono una corrente di ricerche che si situano, grossomodo, all’incrocio della sociologia con l’antropologia culturale, la filosofia, l’etnologia, la letteratura, gli atti alimentari, la mediologia e le arti. Dal punto di vista disciplinare sono stati caratterizzati, soprattutto al loro esordio, da una forte componente critica, in particolare per quanto riguarda le relazioni con le istituzioni del potere. Una critica che è divenuta politicamente irrilevante se non oggettivamente complice. Questi studi assumono rispetto ai temi che trattano un atteggiamento di tipo “trasversale”, poco ortodosso con i metodi della ricerca accademica tradizionale. Essi nascono nella tradizione culturale anglosassone ed hanno il loro apice intorno agli anni Sessanta del secolo scorso, per diffondersi poi rapidamente in tutto il mondo occidentale soprattutto grazie ai dipartimenti di anglistica e all’interesse che, dopo il 1968, hanno acquistato le problematiche sociali e culturali della sfera giovanile, del femminismo e dei migranti o, se si preferisce, il loro capitale economico.

Nei paesi di lingua inglese i cultural studies sono stati favoriti anche dall’interesse verso alcuni campi d’indagine dove sono divenuti egemoni, come nell’analisi della condizione del genere (dando vita ai gender studies) e al cosiddetto dibattito post-coloniale. Da un punto di vista storiografico hanno visto la luce a Birmingham verso la fine degli anni ’50 grazie ad alcuni autori quali Richard Hoggart, fondatore del Centre for Contemporary Cultural Studies – “CCCS”, Raymond Williams, Edward Thompson, Phil Cohen, David Morley, e proseguiti con successo da Stuart Hall che deve la sua fama alle sue ricerche sulle sottoculture giovanili, sull’immigrazione e sull’analisi della vita quotidiana tra culture diverse che coabitavano sullo stesso territorio. Altri temi d’indagine dei cultural studies sono le tecno-scienze, i fenomeni della globalizzazione, il multiculturalismo, la cultura di massa, le arti popolari, gli atti alimentari, eccetera. Alla fine degli anni ’70 i cultural studies sono stati introdotti negli Stati Uniti e messi in relazione con la teoria critica francese conosciuta attraverso il lavoro di Jacques Deridda, Gilles Deleuze, Michel Foucault. Negli anni ’90, poi, s’internazionalizzano. In Europa si diffondono soprattutto in Olanda e in Germania, dove prendono il nome di Kulturalwissenschaft. I cultural studies in Italia si mescolano spesso con la microstoria e spesso si trascinano dietro un grave equivoco, identificare il culturale con il sociale e il sociale con il politico, così come, in altri contesti si fa confusione tra “visivo” e “visuale”.

Per riassumere, le due diverse applicazioni che hanno gli studi culturali sono: le ricerche sulla produzione dei mass-media come sistema di pratiche per l’elaborazione della cultura. L’analisi sul consumo delle comunicazioni di massa come luogo privilegiato di negoziazioni tra pratiche comunicative diverse. I visual studies si distinguono dallo studio dell’arte in forma classica perché accentuano lo studio del contesto in cui si collocano le opere. In altri termini, l’attenzione è posta sulla “struttura della visione” propria dell’epoca storica delle opere. Molta pittura, per esempio, sia antica che moderna, non è comprensibile esclusivamente rintracciandone e ripercorrendone la singolare e specifica evoluzione, ma esaminandone il contesto più generale, la sua “mappa culturale”. Dal punto dei visual studies un’opera diventa un oggetto che circola dentro una specifica economia che nasce dall’articolazione dei sistemi di rappresentazione, in breve, viene studiato come un sistema testuale sul quale si esercita una pratica visiva di interpretazione di cui l’immagine – il quadro, la fotografia, l’istallazione, l’opera in generale – è solo una delle molte componenti.

Veniamo ora all’estetizzazione degli atti alimentari e al fervore con cui si opera nelle cucine dei ristoranti degli hotel o nei magazzini dei musei, e ciò che è ad essi socialmente, culturalmente e direttamente connesso, la merda, l’orina, il vomito, il sangue e tutto il regime dei fluidi corporei.

Quest’ultimo aspetto della relazione arte atti alimentari parte dunque dalla pulsione stercoraria che dorme dentro di noi, memoria di un età felice, quella dell’interezza formale tra noi e il mondo in una continuità senza ostacoli e sensi di colpa. L’età della libido anale, come osserva Sigmund Freud, che ci fa diventare nel migliore dei casi dei collezionisti e nel peggiore dei compulsivi.

Poi, crescendo, finiamo a pezzi, diventiamo Dreck, pezzi di merda, in tutti i sensi, come ci sussurra l’epoca. In ogni modo, il disgusto è sempre stato intorno a noi e, da qualche tempo, ha penetrato l’arte, ha elevato i rifiuti alla dignità di opera, ha introdotto l’organico a metafora della metamorfosi, da cui per altro è partito.

L’arte, oggi, sa e vuole essere orripilante e nell’orripilazione brilla il doppio legame con i peli e il disgusto che sollevano, non è un caso che le Veneri antiche e le ragazze in “rete”condividono il pube glabro e il sesso rasato, le prime per quieto vivere almeno fino ad Auguste Rodin, le seconde perché questo è il destino igienico delle operaie del porno. Del resto, sappiamo bene come non c’è nulla che turbi così tanto l’armonia delle cose come un capello nella minestra o… un pelo nell’uovo.

Insomma, da qualche tempo a questa parte la food-art, in una parabola per certi versi inevitabile, ha contribuito a spingere il negativo della forma, la sua ombra, verso il suo destino di decomposizione, putrefazione, brulichio osceno di entità innominabili.

Abbiamo visto più volte come sapere e sapore hanno lo stesso etimo, dividono molte costruzioni verbali, possiamo aggiungere che gli uomini hanno sete di abiezione, come hanno fame di desideri.

Per questo seppelliamo la materia organica: per allontanarla da noi. Noi, che condanniamo i morti al Paradiso per costringerli a vivere in eterno, per impedire loro di finire nella valle di Ben Hinnom, alle porte di Gerusalemme, dove – dice la Bibbia – giacciono insepolti. Un tempo si diceva che gli artisti componevano. Cosa significa? Che accomodavano gli elementi dell’opera, li “cucinavano” per trasmutarli. Il disgusto è ben altro, è l’irrompere di ritorno dell’informe, che affascina e non sopportiamo.

Gli atti alimentari hanno sempre favorito la messa in scena del formale e la foodart, in principio, ha illuminato, attraverso le forme della metafora, l’architettura dell’informe che l’uomo lascia dietro di se vivendo. In sede psico-analitica qui si scorgono le stimmate del narcisismo primario.

Ci ricordano come l’oro e lo sterco stanno dalla stessa parte quando si tratta di difendere la forma di capitale e la sua “messa in scena” estetica. Con un po’ di cinismo potremmo dire che il ritorno della nuda vita, della zoe, ha effetti zoologici sull’arte, rivaluta una condizione “a-logica”, quella in cui perdiamo il “logos” nell’illusione di ritrovare il “creativo”.

Nel 1997 a Londra alla “Royal Academy” fu inaugura una mostra intitolata Sensation con il biglietto vi davano un foglietto con questa avvertenza: “Il contenuto di questa esposizione può provocare shock, nausea, confusione mentale, panico, euforia o angoscia. Se soffrite di ipertensione, di disturbi nervosi o cardiaci, siete invitati a consultare il vostro medico prima di entrare.” Lo spettacolo quando vuole sa essere esagerato! Le opere, del resto, provenivano dalla collezione di Charles Saatchi, un pubblicitario. Sensation fu poi trasferita a Berlino e a New York.

A New York, l’opera di Chris Ofili, un artista inglese, intitolata La Vergine Maria, realizzata anche con sterco di elefante e un collage di foto porno, fu semidistrutta da un insegnante di pittura in pensione, suscitando parecchie polemiche, con il risultato che Sensation è diventata la mostra con più visitatori del “Brooklyn Museum of Art”.

Tracey Emin Karima, un’artista inglese di origini turco-cipriote, due anni dopo vinse il Turner Prize, il premio inglese più importante nell’ambito delle arti visive, per aver esposto un letto macchiato di orina, tra preservativi usati, test di gravidanza, biancheria sporca, vodka.

Un environment frutto di una settimana passata a letto, mimando o calandosi in una depressione per una rottura sentimentale. Rappresenta un modello di realismo violento ed epidermico che l’art-food spesso condivide nell’illusione di rappresentare – attraverso la novelty – come dirette Theodor Adorno, la surreale drammaticità di una zoe, di una vita umana condannata a mangiare per vivere e che vuol sparecchiare il festino secolare dell’arte apparecchiandolo su una nuova tabula rasa.

In breve, repulsione e desiderio, questi dioscuri del pensiero psicanalitico, hanno debordato nelle arti ed hanno messo in scena sia la voracità della gola che il rilassamento degli sfinteri. Ma perché tutto questo? Il denominatore comune di tale famiglia d’oggetti d’arte, che hanno nel bolo fecale di Piero Manzoni la loro Betlemme, sta nella materia organica con cui sono realizzati.

Robert Gober, un artista americano, usa cera e peli. Marc Quinn, inglese, il proprio sangue congelato ed escrementi. Chris Ofili, che abbiamo già ricordato, escrementi animali, forse perché sa o forse perché non lo sa che in India gli escrementi dei bovini e degli elefanti non solo sono un ottimo combustibile casalingo, ma da anni vengono usati per produrre piccoli oggetti di design come recipienti e vassoi. Ancora più radicale Gina Pane, italiana naturalizzata francese, che ha tradotto in arte una certa martiriologia cristiana a cavallo tra cattivo gusto e masochismo, ma di indubbio impatto emotivo.

Abbiamo detto che il punto di partenza è la materia organica o, meglio, questa alchimia della materia prima, che per sua natura sembra dare forma all’informe, annerire lo specchio del sembiante. Lo esprime bene un lavoro di Wim Delvoye, un artista belga, chiamato Cloaca.

Consiste in una macchina complessa a base di pompe, ingranaggi e di un apparecchio di frantumazione che raccoglie e “digerisce” gli avanzi di cucina prodotti dai ristoranti per farne un impasto scuro, simile agli escrementi, una neo-evocazione della lotta secolare per la “grascia”, cosi come nel caso di Mona Hatoum, palestinese nata in Libano, che, più sbrigativamente, affida all’endoscopia la storia del suo corpo interno. Abbiamo citato Delvoye, non possiamo non ricordare, tra le altre cose, Literaturwurst di Dieter Roth, libri a forma di salsiccia realizzati a partire dal 1961 con una copia del Daily Mirror e terminati nel 1970 con una serie di salsicce realizzate con riviste tedesche. In queste pseudo-salsicce c’è tutto quello che serve a fare una salsiccia, spezie, gelatina, cipolle aromi. Solo la carne di maiale è stata sostituita con la carta, ma la realtà supera la fantasia, negli stessi anni in Italia si produceva un burro da esportazione fondendo manici d’ombrello.

In questo capitolo della sua storia l’art-food si mescola con il corpo, le sue sanie putride e disgustose, i “piccoli orrori”. Tra gli apostoli di queste poetiche c’è stato l’azionismo viennese.

Fu il primo a vantare la dimensione estetica e politica dell’automutilazione come un’ossessione compulsiva che tradiva il desiderio di “coagulare” l’attenzione.

Saranno imitati da Valie Export, pseudonimo di un’artista austriaca, un’esponente del cosiddetto movimento delle artiste femministe multimediali, da Orlan, un’artista francese che ha rimodellato il volto più volte con la chirurgia plastica, da Gina Pane, che abbiamo già ricordato e da Chris Burden, un artista americano che nel 1971 si fece sparare in un braccio da quindici metri con una pistola calibro 22 da un amico tiratore scelto e, qualche anno dopo, si è fatto crocifiggere su una Wolkwagen. Naturalmente non sono i soli. Questa mescolanza tra cibo, feci, sangue, autolesionismo, ha le sue ragioni, come abbiamo accennato, nel realismo inteso come un valore assoluto, che un tempo riguardava la clinica e che oggi sfiora la scatologia, l’oscenità e la pornografia, spesso con il consenso delle istituzioni che non disdegnano, in caso l’oggetto della performance sia il cibo, il mecenatismo interessato della grande distribuzione alimentare e delle grandi marche. Di più, questa mescolanza, che trascina i cosiddetti grandi tema della vita e coinvolge il corpo sociale ha la capacità di riaffermare il potere di coesione di quest’ultimo, come fanno le religioni e la politica. Il giudizio non è assolutamente negativo. Stiamo parlando di una nuova infanzia dell’arte, come dunque non parlare anche delle sue fasce sporche!

Del resto, nel corso di un’altra infanzia, quella delle avanguardie storiche, Arthur Cravan aveva affermato:”Io mangerò la mia merda”, giustamente, come aveva già predetto Friedrich Nietzsche, il resto è conseguenza!

Cibo, merda, denaro, una nuova ossessione. Un giorno chiesero a Picasso cosa avrebbe fatto se si fosse trovato in prigione senza neanche un foglio e un mozzicone di matita. La risposta è profetica. Dipingerei con la mia merda. “Dipingere”, conclude amaramente Jean Clair, da poco entrato nell’olimpo degli immortali di Francia, “è una cucina dove spesso si riutilizzano gli avanzi”.

Su questo crinale incontriamo anche Joseph Beuys, con i suoi feltri e i suoi grassi, dunque, ancora materiali organici accompagnati da una predicazione istrionica e, subito dopo, Louise Bourgeois, una decana dell’arte francese che ha fatto del sesso maschile cibo per la solitudine.

Tutto, naturalmente comincia ieri, con Marcel Duchamp e la sua fontana, l’orinatoio rovesciato a forma di sesso femminile. L’esagerazione freudiana è qui autorizzata dalla lingua inglese, le labbra, come il bordo degli oggetti si chiamano lips.

Gli escrementi sono rifiuto, dispendio nell’accezione di Gorge Bataille, cioè, spreco sacro di una modernità deodorante che ha scelto la parte maudit dell’illusione idealistica, espressione di un senso animale da respingere e contro-altare agli aromi che dominano la cucina industriale.

Qui è sospetto il passaggio a queste nuove forme plastiche soprattutto quando gli fa da raccordo il corpo che ha preso il sopravvento sulla persona.

Sembra in sostanza che la food-art, nonostante i tratti barocchi, stia sempre di più contribuendo ad un disegno di mortificazione del corpo materiale – costruito dalle diete, dai digiuni, dagli esercizi fisici e dalle tonsure – per esaltarne l’estetizzazione.

In questo modo quello che è espulso dalla vita corrente lo ritroviamo poi nei musei. Le funzioni primarie del corpo sono considerate d’avanguardia a cominciare dalla funzione fagica che dovrebbe renderci più attenti. Il gusto, ha scritto Immanuel Kant, è la facoltà di giudicare un oggetto o una rappresentazione in una maniera assolutamente disinteressata, anche se la modernità si aspetta di trovare, dopo l’origine della cultura, il destino dell’arte negli atti alimentari e nonostante l’opinione diversa di Sigmund Freud che, alla vigilia della prima guerra mondiale scriveva testualmente, conciliare le rivendicazioni dell’impulso sessuale con le esigenze della società è del tutto impossibile.

Siamo così arrivati ad un’altra importante funzione della food-art, di conciliare nel sacer – vista l’impossibilità di separarli – la forma del sacro con lo sporco. Mundus, mundus est, il puro è ciò che è mondato, recitavano un tempo gli sciamani.

Nella food-art, dunque, ci s’illude di risolvere il carattere ambiguo del sacro, di risolverlo come metamorfosi estetica, considerato il fallimento dell’esperienza ontologica. Che cosa, alla resa dei conti, cercano oggi gli artisti nella food-art? L’Unheimliche, l’inquietante che si annida nel cuore dell’ovvio, del banale, del familiare. Ciò che è osceno, cioè, ciò che è fuori scena per abitare l’immondo. Ciò che fa sognare ciò che è nascosto e che molti definiscono una storia al crepuscolo se ci facciamo sorprendere di un paio di salsicce fatte con gli escrementi.

Si potrebbe dire che la food-art ha preso il posto dell’arte sacra. Essa invita alla trasgressione perché la trasgressione implica la credenza in una trascendenza.

Cercare l’osceno negli atti alimentari significa è un modo per esorcizzarlo anche perché non ce lo troveremo mai, almeno che non ce lo mettiamo noi stessi nella forma di un mana.

Vale a dire, nella forma di una magia primitiva con la quale si cerca di controllare le circostanze appropriandoci di frammenti organici. È un’ipotesi corretta? Ce lo dice il fatto che la maggior parte delle opere della food-art hanno le fattezze di una reliquia. Anche sul piano formale quando ce le mostra come resti manipolati, resti resi immateriali dal media, soprattutto fotografia o video.

C’è d’aggiungere che queste reliquie sono sempre presentate in un contesto ritualizzato come sono i musei o le gallerie d’arte, senza nulla togliere all’inquietudine che le caratterizza.

Ma allora, qual è il fine di simili operazioni? Di sedurre, anche la seduzione manipolata dalle poetiche è noiose come dimostra l’opera letteraria di Sade.

Siamo giunti ad un punto chiave. Ripetiamolo nelle sue scansioni. La food-art ha aperto le porte alle reliquie nell’arte e, qui, tacciamo sulla loro omogeneità funzionale con i neo-media di massa.

La forma di reliquia viene naturalmente da lontano nella storia dell’uomo, perché partecipa della teologia dell’incarnazione e della resurrezione. In Europa sono centinaia i luoghi sacri dove si celebra il sangue di vergini, martiri, santi e, subito dopo, viene il latte di Maria, con tutte le possibili secrezioni del corpo.

Come ha predicato Louise Bourgeois, l’anatomia è un destino, la donne è l’essere che secerne, in cucina, a letto, altrove, perché è umida. Andiamo oltre. Perché si è fatto questa marcia indietro nelle arti dall’immagine dipinta al realismo osceno della reliquia? Perché nella cucina dei ristoranti il cibo è divenuto una eucaristia, alla lettera, questa resa di grazia all’azione sacrificale che moltiplica i contenuti del pane e del vino?

Sostanzialmente perché nella società dello spettacolo la reliquia è la traccia della performance.

Essa da luogo al culto, formato da disegni, oggetti, resti organici, fotografie, video. Ma, come già abbiamo visto per le altre stagioni della eat-art, soprattutto perché la food-art ci rende complici di una mistagogia, cioè, di una poetica che c’introduce al mistero e che in molti artisti appare come un’ideologia della liberazione creativa. Siamo alla fine di questo breve e frettoloso report, come concedarsi? Con due osservazioni.

Desiderare e disastro hanno lo stesso etimo. Desiderare significa rimpiangere un’assenza.


Appendice.

Il design alimentare e il marketing.

Da tempo, nell’agro-alimentare, ma non solo, il problema non è più quello di offrire prodotti, ma di creare attraverso di essi del “senso”, o meglio, una “significazione” che consenta a chi mangia di sperimentare qualcosa di unico o, almeno, d’illudersi di farlo dietro il paravento della marca, esattamente come i grandi chef dello show-business non vendono più solo pasti, ma opere d’arte che coinvolgono tutti i sensi del commensale e spesso la loro sensibilità estetica.

Attraverso il cibo nel mondo occidentale che ha conosciuto la sezietà si è accentuata, a partire soprattutto dall’ultima decade del Novecento, una tendenza ad evocare emozioni, a stimolare l’immaginazione, a suscitare ricordi.

Oggi, chi si occupa di food-design è di fatto un creativo dell’immaginario alimentare.

Di questo processo progettuale molto si gioca sul piano dei segni immateriali e sul modo in essi si relazionano al mondo reale, in pratica sulle strategie di quello che è definito come concept foods.

In altri termini gli elementi che contano sono:

– il nome del prodotto e di come si costruisce la sua figura,

– la storia che lo racconta,

– i suoi aspetti visivi,

– i sapori che evoca,

– le textures organolettiche che lo strutturano,

-non da ultimo, la plasticità o la sonorità che possiede.

Tutto tende ad un solo obiettivo, sedurre il consumatore sul prodotto che cambia perché il cambiamento fa parte delle moderne strategie alimentari di massa legate al consumo dei composti alimentari non identificabili.

Va da se, questo cambiamento deve essere accuratamente pilotato perché può avere dei risvolti negativi sul processo di formazione delle intenzioni che guidano all’acquisto.

Quale è, allora, il problema chiave del food design o, meglio, quali sono i suoi limiti progettuali?

Il punto sta nella gestione dell’eventuale dissonanza tra la forma progettata e le reazioni cognitive ed emozionali dell’individuo.

In questa prospettiva nel food design si deve tendere ad analizzare con la massima attenzione sia le risposte edononiche del soggetto-consumatore che gli esiti delle rappresentazioni mentali suscitati dal prodotto progettato.

Queste rappresentazioni, in genere, si producono nel momento in cui il soggetto-consumatore confronta ciò che vede con ciò che ha memorizzato o che gli suggerisce l’esperienza.

In questo modo, il food-design o, più in generale, il design nell’agro-alimentare finisce per articolarsi su quattro step:

– l’identità del prodotto di per sé

– le strategie di presentazione che hanno sempre più spesso un andamento narrativo.

– il packaging

– il progetto di prodotto e l’eventuale cornice argomentativa nel quale viene inserito.

In altri termini, il design qui è un congegno di gestione che agisce a livello delle strategie d’innovazione, di comunicazione e d’immagine della marca.

Di fronte alla standardizzazione dei prodotti dell’agro-alimentare o, se si preferisce, di fronte alla loro “ingegnerizzazione”, in parte imposta dalla globalizzazione, le marche ricorrono con sempre maggior frequenza di un tempo, dal punto di vista dei caratteri percepibili, a quelli che sono chiamati gli “assi di differenziazione” che sono, di fatto, simbolici ed affettivi.

Così, nell’ambito del nostro paradigma, rappresentato dal food-design, si definisce concept design tutto ciò che consente al produttore di creare senso e nuove significazioni o identità che hanno il potere di trasformare il prodotto in un concept food.

Da quando la fame per molti paesi a capitalismo avanzato è un ricordo, la “risposta estetica” – dietro cui si celano ancora molti tratti ostentativi – è la prima reazione di giudizio sul prodotto.

Essa concorre ad impostare un piacere associato alla forma progettuale del prodotto, alle formazioni immaginarie che lo accompagnano e lo tutelano, agli stati emozionali che solleva in noi.

Nel complesso il concept design può anche indurre a nuove a nuove opinioni, a nuove credenze, a nuove rappresentazioni e influenzare le scelte.

Nella pratica gli stimoli estetici hanno l’obiettivo di favorire la formazione di una fantasia mentale che la psicologia definisce una rappresentazione.

Dentro questa rappresentazione il food design agisce come un aggregato di unità significanti al quale i consumatori associano dei significati e delle interpretazioni, anche se spesso destituite da qualunque logica.

In generale i prodotti alimentari sono percepiti o sono fatti percepire dal consumatore secondo le quattro categorie chiave di buono, cattivo, industriale, naturale.

In questo modo, per forzare i termini di un’espressione, si “confeziona” la memoria e le si consente di effettuare delle deduzioni e di prendere delle decisioni.

Il fooddesigndal prodotto in sé allo scenario che lo contiene – permette dunque di estendere la percezione della rappresentazione del prodotto verso altre classificazioni che, in prima istanza, sono meno evidenti:

– il confort

– l’ adeguatezza come per esempio è la freschezza

– la qualità.

In questo contesto, in cui è primario il ruolo della percezione, occorre ricordare che la vista è il senso più importante e, in particolare, il colore è una delle prime modalità ad essere elaborate dal cervello.

La vista, tra l’altro, favorisce i processi di simbolizzazione e, per conseguenza, favorisce l’estrapolazione di certe proprietà e sensibilità.

Per esempio, l’intensità dell’aroma di limone tende ad aumentare quando aumenta la concentrazione del colore giallo in cui si colloca il prodotto.

Sempre in questo contesto, come è stato provato, anche il contenente – dal punto di vista della forma, del colore e della texture – gioca un ruolo formativo nella percezione del gusto.

Il test tipo, a questo proposito, è quello detto della zuppa.

La stessa zuppa, servita in una tazza di terraglia o di terracotta, in una ciotola di porcellana, in una fondina, in un recipiente di vetro verde, cambia totalmente la percezione del suo sapore nei soggetti sottoposti al test sul gusto, perché la dimensione visiva in chi l’assaggia ha un peso determinante nella valutazione delle qualità organolettiche.

Ma perché i prodotti alimentari sono così suscettibili di agire sulle rappresentazioni mentali?

Tutto deriva dal fatto che i prodotti alimentari sono da noi incorporati.

Insieme alle medicine costituiscono i soli beni di consumo che entrano nel corpo umano e i loro effetti sono praticamente irreversibili.

Gli individui sanno che la loro vita dipende da questi beni, così, inevitabilmente focalizzano su di essi gli eventuali tratti negativi legati al loro consumo e tendono ad adattando per reazione dei comportamenti irrazionali che possono essere in parte compresi “decifrando” quello che questi prodotti appaiono dal punto di vista della rappresentazione.

Gli esperti rintracciano le motivazioni di questi comportamenti in quello che gli antropologi chiamano pensiero magico.

Una forma di pensiero, come abbiamo visto, che costituisce una invarianza presente in tutte le culture, basata sul meccanismo della rappresentazione e sul principio dell’incorporazione secondo il quale il passaggio di un alimento in un corpo implica un inevitabile transfert di proprietà fisiche, comportamentali, morali e simboliche.

A questo proposito, alcuni test hanno dimostrato che un piatto preparato da una persona che, chi deve consumarlo ritiene che gli sia ostile, può risultare disgustoso e perfino indigesto.

Due leggi che abbiamo più volte visto sono sottese a tutto questo.

La legge del contagio per la quale avvenuta la contaminazione questa rimane in ogni caso.
La legge della similitudine secondo la quale per un riflesso di sopravvivenza il cervello interpreta gli oggetti per quello che sembrano.

(La dobbiamo a David Hume, ma è la psicologia della Gestalt che ne ha studiato le implicazioni.)

Che cosa sottende questa legge? Vediamolo con un esempio curioso, in uno studio condotto su un gruppo di studenti universitari americani la maggior parte di essi ha dichiarato che gli era ripugnante mangiare del cioccolato che aveva la forma di un escremento di cane.

In materia di fooddesign esistono anche delle preferenze che sono innate.

Per esempio, la legge della proporzione e dell’unità, elaborata al principio del Novecento, sempre nell’ambito della psicologia della Gestalt, induce a preferire le forme che appaiono più simmetriche ed armoniose di altre.

Così come, per reazione, troppa uniformità nella forma di un oggetto o di un prodotto genera noia, mentre un disordine che sia appena accennato stimola l’interesse.

Ancora, una certa incongruità rispetto a ciò che già conosciamo attira l’attenzione.

In altri termini, anche per quanto riguarda il cibo, gli onnivori che conoscono la sazietà, prima di scegliere la soluzione che preferiscono o che li tranquillizza, sono attirati da ciò che appare loro curioso.

Questo atteggiamento è riassunto dal paradosso dell’onnivoro, per il quale da una parte c’è un atteggiamento neofilo, che spinge a variare gli alimenti che si consumano o a desiderare di sperimentarne di nuovi.

Dall’altra, c’è un atteggiamento neofobo, rappresentato da una certa resistenza culturale a non poter mangiare che alimenti conosciuti, identificati, condivisi e valorizzati.

In termini di design questo paradosso da vita ad una dissonanza cognitiva più o meno accettata, che richiama una teoria molto nota nel marketing, del bisogno di stimolo.

Questa teoria dice che ogni individuo ricerca costantemente un livello ottimale di eccitazione nel quale si sforza di situarsi.

Nella pratica, il confronto con un prodotto che non ci è familiare aumenta la volontà di provarlo, ma se l’eccitazione supera il livello ottimale della stimolazione scatta il meccanismo contrario, si diffiderà di esso.

Il design del food deve dunque costantemente bilanciare con molta cura forma, colori e textures, anche perché, paradossalmente, una reazione di affettività può anche prodursi a partire da un elemento dissonante.

In altri termini, da una parte il design tende a produrre un arricchimento del potenziale di stimolazione del prodotto alimentare, anche in termini di confronto con altri prodotti uguali, dall’altra, se gli attributi del prodotto non sono in grado di sollecitare il ricordo, perché irriconoscibili o troppo innovativi, può prodursi una dissonanza cognitiva.

Nel caso del cibo, se questa dissonanza è eccessiva, l’istinto di sopravvivenza spinge inevitabilmente l’individuo a sottolineare di esso soprattutto le conseguenze negative dell’incorporazione, fissandole sugli aspetti organolettici, igienici e nutrizionali.

Alla fine, la percezione del rischio può indurre a pensare che questo cibo nuoccia, che abbia un gusto pessimo, che metta a disagio, che il suo consumo susciti riprovazione sociale, che non valga quello che costa.

Alla luce di queste considerazioni, si parla di design strategico quando questo design favorisce la congruità tra la rappresentazione del prodotto che abbiamo davanti e ciò che questo prodotto rappresenta per la nostra memoria e le nostre emozioni.

(Congruo significa che è proporzionato e convincente, l’ilarità, per esempio, è il risultato di una incongruità.)

Siccome però l’innovazione è sempre portatrice di una certa incogruità, questo design non deve farla apparire né troppo forte e né troppo debole.

Come abbiamo visto, una leggera incongruenza tra un nuovo prodotto e le categorie di questo prodotto che abbiamo nella memoria induce quasi sempre ad una valutazione favorevole.

Per riassumere:

– Il food-design, come progetto, ha lo scopo di favorire le rappresentazioni mentali dei prodotti alimentari.

– L’immaginario alimentare, soprattutto nell’ambito di composti alimentari di cui s’ignora l’origine e la composizione, si struttura quasi sempre a partire dal colore e dalla forma.

– Il food-design costituisce una sorgente d’inferenza per il consumatore.

Vale a dire il design agisce come se fosse una conclusione tratta da un insieme di fatti e circostanze.

(L’inferenza è il processo con il quale da una proposizione accolta come vera, si passa ad una proposizione la cui verità è considerata contenuta nella prima.)

– Le rappresentazioni mentali che scaturiscono dal food-design partecipano alla formazione delle attese e le rinsaldano.

– Quando il design accentua la dissonanza cognitiva gli effetto di questa dissonanza tendono ad apparire (soprattutto nell’ambito dei prodotti alimentari) esagerati e a generare inquietudine.

– La sensibilità estetica e le tendenze neofile favoriscono l’accettazione di un prodotto alimentare, anche se è poco noto.

Pubblicato in Cinque lezioni tra «art & food» | 1 commento

Cinque lezioni tra «art & food» – Quarta lezione

Quarta lezione.


Da poco si è conclusa alla Kunsthalle di Düsseldorf un’esposizione intitolata “Eating the universe”, il titolo, dicono i curatori, è inspirato al lavoro dell’austriaco Peter Kubelka che molti anni fa tenne un corso su cinema e cucina, partendo dalla pratica della cucina come metafora di molte emozioni legate alla vita corrente.

Questa esposizione tedesca inizia, com’è naturale, con Daniel Spoerri per arrivare agli ultimi esperimenti sul cibo. Esperimenti per certi versi sempre più contaminanti e contaminati da ciò che ruota intorno all’argomento degli atti alimentari, come sono i temi antropologici, ecologici e sociali oltre che formali, cioè, legati al destino dell’arte.

Peter Kubelka è un produttore indipendente ed un artista che ha lavorato su più fronti, architettura, letteratura, musica, pittura e cucina. In 1964 he co-founded the Austrian Film Museum and was its curator for many decades. Nel 1964 ha co-fondato l’Austrian Film Museum, ed He is also co-founder of the Anthology Film Archives in New York City.

è anche co-fondatore della Anthology Film Archives di New York City. In questa sua veste di artista poliedrico ha tenuto, In 1978, he became professor in film and video at the Frankfurt School of Fine Arts, where he also served as Rector from 1985-88.

Ha tenuto, presso l’Accademia di Belle Arti di Francoforte, dei corsi di cibo nel cinema o, meglio di food-cinema.

Dobbiamo da subito rilevare come l’incontro di cinema ed atti alimentari ha da qualche tempo creato un nuovo genere cinematografico in cui la materialità degli atti alimentari si stemperano nell’immaginario cinematografico e diventano “racconto”, impronta di senso, stile di vita.

Di più, come si vede anche nel cinema commerciale, l’immaterialità della pellicola (o del codice binario) contribuisce a creare altri valori, soprattutto sul piano iconografico, sia in senso positivo che negativo, come succede con la sessualità quando precipita nel cattivo gusto della pornografia fine a se stessa. Va osservato che su questo versante gli atti alimentari quando diventano una metafora del desiderio possono addirittura riscattare la crudezza della sessualità.

Dicendo crudezza vogliamo dire che essi attraverso la cultura, in senso antropologico, cuociono il senso. Valga per tutti il caso dell’uovo nella vagina della protagonista dell’Impero dei sensi (1976, regia di Nagisa Oshima) che “partorisce” l’uovo della passione” nella sua algida perfezione di oggetto simbolico.

Notiamo anche, en passant, che l’interesse dei musei per l’art-food mostra come queste organizzazioni abbiamo superato, dopo un lungo dibattito come è avvenuto negli Stati Uniti, i timori per la deperibilità delle opere anche se non si può dire la stessa cosa per il collezionismo privato.

In ogni caso due soluzioni si sono fatte strada, quella di considerare la documentazione cartacea e non come un’opera o, meglio, una ”metaopera”, e quella di usare accorgimenti chimici per prolungare la conservazione delle opere nel tempo e la loro eventuale modificazione, come, per fare un esempio intuitivo, la perdita di liquidi, intesa come un divenire dell’opera. In ogni modo, prima di tracciare una breve storia della eat-art proviamo a definire un concetto che mediamo dalla psico-analisi, la sublimazione.

Questo concetto ci è utile per comprendere come del cibo, delle preparazioni cucinarie o certe ritualità degli atti alimentari possono diventare o essere apprezzati come opere d’arte, cioè, subire una metamorfosi estetica. In psico-analisi il termine sublimazione (Sublimierung) rinvia e media tre concetti, il sublime così come è inteso nelle Belle-Arti, la sublimazione in chimica, che definisce il passaggio da uno stato solido ad uno gassoso, e il sublimale in psicologia, come ciò che si colloca al di là della coscienza.

Sigmund Freud ha concettualizzato questo termine nel 1905, in Tre saggi sulla teoria della sessualità, per definire una particolare attività umana: quella intellettuale. Secondo Freud, le creazioni dell’uomo in campi come l’arte, la scienza, la ricerca teorica sono prodotte dalla pulsione sessuale benché appaiono molto lontane da questa loro origine. Attraverso il processo di sublimazione il bersaglio della pulsione (Trieb) può essere ugualmente raggiunto, malgrado il cambiamento d’oggetto, e la soddisfazione ottenuta è psichicamente comparabile, anche se per molti è discutibile, a quella raggiunta per via sessuale.

La sublimazione sarebbe dunque ciò che soddisfa le esigenze della civiltà permettendo il compimento delle più grandi opere dell’uomo, senza incappare nella rimozione. In effetti per comprendere la sublimazione occorre traguardarla con la nozione di pulsione (Trieb), un processo dinamico che spinge alla soddisfazione di uno scopo. Ci sono tra destini possibili per la pulsione. Essa può inibire un desiderio di sapere. Può essere una compulsione a pensare. Può risolversi nella libido. In questo senso la sublimazione si presenta come una trasformazione della libido in desiderio di sapere. Una libido che sfugge alla rimozione.

Successivamente Jacques Lacan, nel dopoguerra, riprese la tesi di Freud e nel VII seminario, dedicato a “L’etica della psicanalisi”, la collega ad un nuovo concetto che ha elaborato, quello di Das Ding, “La Cosa” e propone una nuova formula: la sublimazione eleva un oggetto alla dignità della Cosa, dell’evidenza che costruisce il senso. È quello che avviene, per esempio, nell’amor cortese dove l’oggetto femminile appare sublimato e promosso alla dignità della “Cosa”, isolato nella sua astratta rappresentazione, in questo caso il senso collima con il feticismo, benché questo non abbia alcuna corrispondenza con l’effettiva condizione delle donne nel Medio Evo, del tutto prive di libertà propria. Osserviamo anche come nella Poetica Aristotele (384-322), introduce nell’arte un’idea che è analoga al concetto psico-analitico di sublimazione. Questo filosofo sosteneva che una volta introdotto nelle arti il principio dell’imitazione della natura, attraverso la sublimazione, si potevano trasformare in piacevoli le cose ripugnanti, come se l’arte fosse un’alchimia che muta in oro il piombo della vita.

Da un punto di vista storiografico la eat-art è una corrente artistica apparsa negli anni ’60 su impulso di Daniel Spoerri. Spoerri è nato in Romania. Durante la guerra, nel 1942, il padre viene ucciso dai nazisti e la famiglia è costretta a rifugiarsi in Svizzera, a Zurigo, qui, Daniel inizia a studiare danza classica e successivamente si dedica alla coreografia, si interessa alla poesia, in particolare quella concreta e visuale e svolge anche una intensa attività di regia.

Trasferitosi nel 1959 a Parigi, entra in rapporto con numerosi artisti che operano nella città tra cui Pol Bury, Jesus Rafael Soto, Marcel Duchamp, Man Ray e Robert Filliou. Sempre a Parigi, fonda la casa editrice MAT (Multiplication d’art transformable) e inizia la sua opera di artista inventando i tableaux-pièges (quadri-trappola). Nel 1960 elabora, con altri, il Manifesto del Nouveau Réalisme. Nel 1964 è a New York e prende contatto con gli artisti del gruppo Fluxus.

Dopo due anni di ritiro volontario sull’isoletta greca di Simi (nell’Egeo), apre nel giugno del 1968 un ristorante a Düsseldorf, nel quale serve cibo preparato da lui stesso. Nel 1970 apre, nei locali sovrastanti questo ristorante, la Eat Art Galerie, che è anche l’editrice di numerose pubblicazioni sue e di molti altri artisti. Dal 1989 vive la maggior parte del tempo in Italia, dove comincia a costruire, in Toscana, un parco-museo nel quale raccoglie opere sue e dei suoi amici. Nell’ambito della Eat Art nel 1992 progetta il ristorante che costituisce il centro del Padiglione della Svizzera all’Esposizione universale di Siviglia.

La eat-art ha o, meglio, aveva come obiettivo l’utilizzazione degli alimenti nella creazione artistica esaltandone l’effetto effimero spesso ad un passo dalla nostalgia. Eat-art, alla lettera è il “mangiare l’arte”. In altri termini, rappresenta l’ennesima e forse più originale poetica nata per desacralizzare il processo artistico dal suo ruolo di costruire degli oggetti immutabili. Il cibo, infatti, è per definizione deperibile e la eat-art non solo poteva essere fatta da tutti, ma – e questo è originale – ripetuta in una catena di continue riedizioni tutte assolutamente legittime, com’è nella spirito di una ricetta in cucina o di una partitura di musica in un conservatorio.

Come abbiamo accennato la “piccola storia” racconta che Spoerri cominciò ad incollare i piatti e le suppellettili, allora realmente usati nel corso di un pranzo (non sfugga la nota feticista perché è quella che genera la sensazione di “vissuto” delle opere) – dalle posate, ai bicchieri, al pacchetto di sigarette, al posacenere – su delle tavole esposte poi in verticale con il sostegno, in principio, e la complicità di un critico d’arte, Pierre Restany e di un grande artista, Jean Tinguely.

In seguito queste tavole furono chiamate tableaux-pièges, “quadri trappola”, era un modo per catturare l’aspetto effimero della vita corrente, la sua banalità che tradisce e acceca, conferendo loro un’aurea metafisica, di reliquia, un aroma di nostalgia della domenica. In questi anni in Francia dominava nel romanzo e nel cinema la poetica dello sguardo, organizzata intorno alla rivista Tel Quel, fondata da Philippe Sollers e Jean-Edern Hallier.

Pierre Restany (1930-2003) è un milanese d’adozione, come Stendhal, a Milano ha vissuto per lungo tempo scrivendo su Domus e D’Ars e presentando le sue proposte soprattutto attraverso la Galleria Apollinaire. Qui, nell’ottobre del 1960, rese pubblico il manifesto del Nouveau Réalisme, che può essere considerato la risposta europea al new-dada americano. Gli artisti che ne facevano parte erano accomunati, infatti, dall’interesse per gli oggetti e i materiali di scarto della realtà quotidiana, compresi quelli alimentari, ai quali cercavano di conferire un nuovo valore estetico. A differenza del newdada, che questo valore estetico non esitava a cercarlo ovunque e ad esaltarlo per come appariva, inconsueto e povero, esemplare sono le scatole di Brillo di Andy Warhol, il nuovo realismo non voleva rinunciare al suo senso critico e, dunque, aspirava, lo constatiamo in chiave retrospettiva, ad un arte con forti connotazioni sociologiche. Milano, che ha visto l’esordio ufficiale del movimento, fondato qualche tempo prima a Parigi, è stata testimone anche della sua crisi, nel 1970. Alla fine di quest’anno in occasione di un festival auto-celebrativo della sua storia e della sua impossibilità di continuare a vivere, che ha coinvolto quella che allora i pubblicitari definivano una “città-da-bere” con spettacoli e performance, si è prosaicamente auto estinto con un’Ultima Cena di Daniel Spoerri, tra lazzi e lacrime, recriminazioni e rimpianti.

Torniamo a Spoerri. Con il successo accentuerà queste sue ricerche e cercherà di valorizzare la eat-art con l’apertura di un ristorante inteso come un legame sociale e un paradigma della convivialità. In un altro contesto si dovrebbe considerare anche un elemento biografico, che qui sorvoliamo, la cultura ebraica della sua giovinezza e l’importanza della cucina in questa cultura soprattutto in relazione alla diaspora. Una cucina che rappresenta una vera è propria identità collettiva e culturale. In principio fu un ristorante effimero, durò solo il tempo di una mostra presso la Galerie J di Parigi, diretta da Iris Clert, una delle più prestigiose gallerie d’arte d’avanguardia che operò tra il 1955 e il 1971. Il meccanismo era così congegnato, i visitatori si sedevano ad un tavolo e mangiavano, alla fine del pasto ciò che restava sul tavolo veniva incollato e riceveva un attestato di autenticità firmato. Il successo di questa iniziativa, come abbiamo già accennato, lo spingerà ad aprire un vero e proprio ristorante a Düsseldorf. Tra i molti amici che lo spronarono in questi anni dobbiamo assolutamente ricordiamo Dorothée Selz.

Di questa stagione della eat-art ricordiamo in particolare la cena cannibale, del 1970, organizzata con Claude e François-Xavier Lalanne. Era una performance nella quale gli invitati mangiarono dei simulacri di carne umana, vale a dire delle parti del corpo ricostruite con degli stampi. Tutto perfettamente edibile, ma orribile a vedersi, come le orecchie al burro, piedi di pane, dita di pasta al sugo di pomodoro. Non è mai stata ripetuta, anche se nella eat-art spesso le cene si ripetono, soprattutto quando sono a tema, come quelle palindrome o quelle nelle quali un colpo di dadi decide se mangerai il menu dei signori o quello dei poveracci.

A Milano, qualche anno dopo l’ultima cena che chiude la stagione del nuovo realismo, allestirà una cena astrologica, raccogliendo intorno ad un tavolo persone con lo stesso segno zodiacale. (Chi scrive ricorda con piacere e malinconia come nel corso della cena dedicata al “capricorno” litigammo apparentemente per futili motivi, ma da lui istigati. Non ci siamo più rivisti ed è giusto che sia così, io sono un comunista, lui non può esserlo per destino e il contendere non-detto era questo.)

Oggi la eat-art può essere considerata in due modi. Come una corrente poetica degli anni ’60 del secolo scorso o come un modo di legare la cucina alla creazione artistica e la creazione artistica ai fornelli. In questo secondo modo ha anche un altro nome, foodart.

Va anche osservato, d’altro canto, come alcune preparazioni di food-art possono essere accostate alla nouvelle cuisine degli anni ’70, soprattutto dal punto di vista dell’astrazione. Un grande rivolgimento, sul piano morfologico, si è poi verificato ad opera della cucina molecolare.

Se da un punto di vista meramente gastronomico questa cucina ha più di un punto discutibile, è indubbio che essa ha in qualche modo operato una sorta di detournement, di dirottamento, di decostruzione e ricostituzione di molte preparazioni cucinarie attraverso delle mélange gustative spesso curiose ed esotiche e sempre improbabili nell’ottica di una ortodossia da hautecuisine.

Il detournement è un metodo di straniamento che modifica il modo di vedere oggetti comunemente conosciuti, strappandoli dal loro contesto abituale e inserendoli in una nuova, inconsueta relazione per avviare, a partire da essi, un processo di riflessione critica. Questo metodo viene utilizzato in ambito visuale per mezzo soprattutto di collage, tuttavia si possono detournare anche oggetti, come ha fatto senza volerlo Duchamp o concetti, anche politici e di costume: è il caso del plagio digitale e analogico della rivista americana Adbuster. Il metodo del detournement venne teorizzato per la prima volta dai situazionisti nel 1957, in particolare da Guy Debord. Di fatto, molti artisti si servono o si sono serviti del detournement, oltre a Marcel Duchamp con i suoi ready-made, ricordiamo Joseph Beuys, con i suoi happening sulla “museificazione” di oggetti quotidiani. In sostanza è un metodo per demistificare la cosiddetta cultura alta o di élite. Roland Barthes ha acutamente identificato il ruolo del detournement quando ha affermato che la miglior sovversione non consiste nel distruggere i codici, ma nel distorcerli. Di sfuggita ricordiamo un’altra eat-art, che non si mangia, è quella di René Magritte, una forma di realismo magico. Dipinge una mela e poi ci mette in guardia, questa non è una mela, perché non si tocca, non si mangia, non si può morsicare. Un’operazione che capovolge quella di Paul Cezanne, che dipinge delle mele così realistiche da non essere più mele ma forme di arte pura, pretesti cromatici.

Paradossalmente, più ci avviciniamo al cibo più cresce, come un polverone, intorno ad esso un certo moralismo di maniera. Non c’era nella pittura del diciassettesimo secolo quando sulla tela si celebrava la carne, nel senso ambiguo del termine (per altro risolto spesso in chiave linguistica con due espressioni distinte, come viande e chair o meat e flesh ), come orribile spettacolo di macello o di carnaio e come apologia della passione, nell’eterno scontro tra Thanatos ed Eros.

Spesso, poi, la eat-art – per continuare a chiamarla così – è la metafora di un autoritratto psicologico. Braillat-Savarin nella sua fisiologia del gusto (1825) aveva affermato: “dimmi quello che mangi e ti dirò chi sei”, basta pensare alle zuppe Campbell di Andy Warhol o alle madeleines di Marcel Proust per rendersi conto della giustezza di questo assioma.

In teoria resta un problema di fondo, quello della capacità della cucina a dare vita a delle forme artistiche condivisibili senza scadere nello strapaese della tradizione o nei localismi.

Come tutti convengono a partire dal simbolismo si è fatto strada un convincimento, che esiste un potenziale estetico anche per i sensi che non hanno subito delle metamorfosi educative legate al gusto e al mito della bellezza come è successo per la vista e l’udito. Nella cultura occidentale solo dopo la seconda guerra mondiale si è arrivati ad ammettere una dimensione estetica per la sensualità o il “sensualismo”. La gastronomia, in pratica, ha conquistato un posto accanto ai profumi e alle strutture tattili e termali. Di per sé costituiva un’arte minore, perché anche se non possiamo negare a nessuno dei sensi un valore estetico, storicamente nessuna cultura aveva mai classificato la cucina tra le Belle Arti. In altri termini l’estetica ha faticato ad accettare la cucina come una poetica suscettibile di produrre opere d’arte perché non apparteneva a nessun sistema di classificazione.

A livello d’aneddoto ricordiamo, a questo proposito come nel 1825 Brillat-Savarin avesse inventato una musa, Gasterea, la plus jolie des Muses. A chi gli faceva osservare che non c’era posto per questa musa tra le altre nove, Brillat-Savarin spiegava che, se era solo per questo, anche la pittura e la scultura non ne facevano parte all’origine, ma che erano state aggiunte in seguito.

Abbiamo accennato a Dorothée Selz. All’inizio della sua carriera di artista ha seguito Spoerri nelle sue avventure. Oggi è divenuta molto popolare di per sé, con le sue sculture commestibili, con le sue feste, i continui richiami all’esotismo, all’ecologia e alla cromaticità. Un progetto che ha contribuito ad evidenziare una moda, quella dei cultural studies.

Le definizioni in questo genere di poetica si sono fatte numerose. Olivier Assoluly, un autore che da tempo s’interessa al tema degli alimenti e del sacro, ha coniato l’espressione di Cuisine éclairée. Altri parlano di cuisine conceptuelle, o, anche di design culinaire o “design Q”. A fianco della Salz dobbiamo da subito ricordare anche Sonja Calle con i suoi repas chromatique e Michel Blazy, che preferisce riferirsi al mistero del vivente e alle sue metamorfosi, come la decomposizione.

In ogni modo, da qualche tempo Blazy lavora con i ragni, le puree di legumi, le mele, le rape i bouquets di spaghetti e, ancora, le lenticchie, la farina di grano, la pancetta, i biscotti in scatola, il cibo per cani, le orecchie di maiale.

Qui andrebbe aperto un altro fronte, è il capitolo che lega il femminile all’art-food, soprattutto a partire dalle avanguardie storiche, un capitolo di ossessioni, di piaceri, di abusi. Rinviamo al catalogo della mostra “Les images affamées, Femme set nourritures dans l’art. Da la nature morte aux désordres alimentaires, che si è tenuta ad Aosta nel 2005. L’illazione sui disordini alimentari è squisitamente femminile e del resto solo le donne creano il mondo, lo mangiano e lo vomitano…troppo vicino alla vita materiale!

Non possiamo non ricordare di seguito Vanessa Beecroft, un’artista italiana che vive negli Stati Uniti. In una delle sue prime opere, il Libro del cibo mostra – esaltandola – una ossessione compulsione per i pasti consumati quotidianamente nel corso di molti anni, dal 1985 al 1993.

Di recente si è anche occupata dei riti che trasformano un banchetto in un’opera di teatro o in un tableau vivant o, che fanno regredire questi a quello dal quale sono partiti.

La Beecroft ha presentato alcuni di questi lavori al Castello di Rivoli, è uno spunto per segnalare una recente iniziativa torinese di Michelangelo Pistoletto. Nel progetto della sua factory, intitolato Love Difference, ha coinvolto alcuni pasticceri in una ricetta di gelato all’halva, in pratica al gusto di sesamo, qui gli obiettivi sociali e culturali hanno finito per lo sfidare il ridicolo in nome di una mediazione culturale.

Ritorniamo al nostro tema, spazia dalle Vanitas delle nature morte fiamminghe all’attimo in cui si posano le posate sul piatto di Spoerri, quell’ attimo di un ritorno all’ordine delle cose, carico di minuscole inquietudini. Le cucine dei ristoranti, del resto, sembrano siano diventate le aule di un nuovo modo di pensare le accademie di Belle Arti, cioè, un nuovo spazio di creazione.

Il contenuto della eat-art ha sovente dei risvolti psicologici o si avvale di essi per essere efficace. Lo vediamo nell’opera collettiva realizzata da alcuni studenti dell’Accademia di Belle Arti d’Amburgo. Consiste in un enorme scodella piena di zuppa fumante intorno alla quale siedono una decina di commensali. Il fondo di questa scodella però non è parallelo all’orizzonte e non si vede con il risultato che ad un certo punto alcuni non hanno più la zuppa da raccogliere con il cucchiaio, una metafora del mondo globalizzato e della fame che scatena nel mondo. A questo punto dobbiamo considerare un altro aspetto del cibo nell’arte. Vale a dire la sua centralità come tema.

Una delle prime sculture legate al cibo è di Pablo Picasso, risale al 1914, rappresenta un bicchiere d’assenzio in bronzo con sopra un vero cucchiaio d’argento sul quale a sua volta è appoggiata una zolletta vera di zucchero. Rappresenta un modo sintetico di esaltare il tema dell’assenzio, allora al centro di una polemica sui disastri sociali dell’alcolismo, non per caso un anno dopo, nel 1915, l’assenzio e i suoi derivati finiranno fuori legge e soltanto da qualche anno si è ricominciato a produrlo. In questa scultura, come in molte altre opere di pittura cubista, dove compaiono bottiglie o bicchieri, l’oggetto è un pretesto che calca la rappresentazione. La stessa osservazione, con le opportune distinzioni vale anche per Duchamp quando dichiara che la scelta dei suoi ready-made è sempre avvenuta senza badare all’estetica dell’oggetto, anzi, come lui stesso scrive, in presenza di un’anestesia totale. Lo stesso vale per Jean Miro e molti altri.

Diversa è la questione per la pop-art, il cibo o gli oggetti che compaiono in questa poetica dell’effimero mercantile, dalle scatole di zuppa di Andy Warhol alle sculture in zucchero di Claes Oldenburg, non sono altro che frammenti estetici scavati nell’archeologia dello spettacolo e sottovalutati fino a quel momento, frammenti di una American way of life. In questo modo l’oggetto è paradossalmente ri-simbolizzato nella sua banalità. Si nutre di vere e proprie ambiguità semantiche, come nel caso di Tom Wesselmann che riscrive un modello di sensualità americana dove food, cucine con frigoriferi rosa e donne più o meno discinte e infantilizzate dal segno pittorico sono un Eden del desiderio.

Solo con la eat-art, a partire da Spoerri ma non per suo merito, il cibo acquista una sua centralità sia come materiale più o meno deperibile, sia come forma e sia come oggetto carico di significati culturali. Diventa rappresentazione. Come con la pipa di Magritte, gli hamburger nella pittura di Robert Indiana diventano delle vere e proprie icone americane. Basta considerare la fine penosa della parola “LOVE” diventata una scultura da sala d’aspetto o da giardinetto con fontana, un vero e proprio gadget di questa stagione americana in cui i contenuti che fanno il popular sono saliti all’ordine del giorno. Diversa, invece, è l’icona del pollice di zucchero rosa di César del 1978, o le accumulazioni di coni gelato di Arman.

Va osservato come ciò che resta di commestibile nella eat-art è ciò che la raccorda all’opera di certi pasticceri e cuochi d’avanguardia. Una zona oscura, per il fegato dei buongustai, che cambia continuamente di geometria e che ha avuto nella cucina molecolare uno dei suoi esiti imprevisti, con l’invito di Ferran Adrià all’esposizione internazionale d’arte di Kassel e l’accusa di pericolosità di certe preparazioni alimentari che scherzano troppo con la chimica e i suoi derivati emulsionanti.

Antoni Miranda e Dorothée Selz che a partire dal 1968 hanno spesso lavorato insieme hanno definito i loro dolci come “trasfert cannibalici”. Perché essi “inglobavano” oggetti non commestibili in una relazione cannibalica sottolineata dal fuori scala. Esemplare un’opera della Selz, una piccola stazione ferroviaria, del 1978, realizzata con lo zucchero, ma completata con particolari di ferrovia da modellismo. Qui siamo in presenza di un ulteriore punto di un certo interesse funzionale. La contraddizione tra la eat-art, come una poetica le cui opere possono essere ripetute, e le “sculture ricordo” – in zucchero, cioccolato o altri materiali, come sono i vasellami o i combinati – che finiscono nelle collezioni e nei musei. Le abbiamo chiamate “sculture ricordo” per la loro ambiguità che si gioca tra la loro sostanza materiale e la loro ambigua, sottile, seducente allusione figurativa.

Pubblicato in Cinque lezioni tra «art & food» | Commenti disabilitati su Cinque lezioni tra «art & food» – Quarta lezione

Cinque lezioni tra «art & food» – Terza lezione

Terza lezione.


I surrealisti sono stati spesso definiti un pugno di uomini persi nella loro determinazione tra il sogno e l’azione. Essi stessi, sul primo numero della loro rivista, La Révolution surréaliste, del dicembre 1924, avevano scritto : Il realismo è un modo per potare gli alberi. Il surrealismo è un modo per potare la vita.

Nel 1924 la parabola Dada era praticamente conclusa.

La disorganizzazione, il disorientamento, la demoralizzazione di tutti valori conosciuti era stata tentata, la società anonima per lo sfruttamento del vocabolario aveva fatto il suo corso.

Dada era nato a Zurigo il 5 febbraio 1916, era stato poi svezzato in un cabaret intitolato a Voltaire, in un vicolo, lo Spiegelgasse, che da sulla Seestrasse, ad un paio di portoni da un altro luogo destinato a diventare famoso e che gli è contemporaneo, l’abitazione di un esule russo, Vladimir Lenin.

Nel 1968 diranno gli arrabbiati del maggio francese che Dada volle distruggere l’arte senza realizzarla, cioè, senza portarla a compimento. I surrealisti vollero realizzare l’arte senza dissolverla. Nella forma un modo hegeliano per dire che l’arte – non l’esperienza estetica – può essere risolta solo se la sua realizzazione corre parallela al suo superamento.

L’esperienza surrealista è meno algida di quella Dada, fin dalla sua fondazione il tema degli stati alterati di coscienza penetra nella sua poetica. I suoi adepti dopo aver spalancato le porte del sogno si ritrovano all’incrocio di molti incantamenti che vogliono cavalcare anche ricorrendo all’alcol, al tabacco, all’etere, all’oppio, alla cocaina e alla morfina.

Questa esperienza, che Breton inaugura con un manifesto nell’ottobre del 1924, accompagnato da altri brevi testi, da subito si scontra con la dura realtà politica degli anni ’30 e scriverà nella storia dell’arte moderna alcune pagine di cui molte sono ancora da decifrare. Qui c’interessa soprattutto un tema, il tema dei piacere materiali, in particolare di un sensualismo che vede nella donna l’essere che sparge la più grande luce e le più grandi ombre sul cuore degli uomini.

Attraverso la figura femminile essi fanno transitare tutti i desideri, compresi quelli politici e di rivolta. È significativo il caso di Germaine Berton, militante anarchica, di cui presero le difese. La Berton nel 1923 giustiziò il segretario di una piccola quanto pericolosa organizzazione fascista, i Camelots du roi. Ciò detto, il loro obiettivo più segreto era più ambizioso, arrivare ad esprimere il funzionamento reale dei meccanismi inconsci della conoscenza. Occorre tenere a mente questo punto se vogliamo capire perché questa avanguardia è divenuta nel tempo e sempre più spesso un predicato di qualunque bizzarria.

Ancora, a ragione del nostro tema non parleremo tanto di surrealismo quanto di alcuni dei suoi protagonisti, soffermandoci su alcuni di essi, in particolare, Marcel Duchamp, Salvador Dalí ed un artista della sua stagione più vicina a noi, Marcel Broodthaers.

Prima di procedere vediamo ancora un inciso. Assaporare e giudicare sono due azioni mediate dal gusto, ritenuto fin dall’antichità uno strumento indispensabile per comprendere la bellezza.

Un tempo attraverso il gusto si separavano i sensi nobili – vista e udito – da quelli rozzi, in cui il gusto si riteneva emergesse come carnale, umile, materiale.

Nell’esperienza delle avanguardie storiche iniziò anche a farsi strada un principio, manipolare i contenuti della vita corrente all’insegna del sensualismo significava anche ripensarli, imparare a governarli, e questo a dispetto del pregiudizio corrente che vede i sensi con i quali la vita si confronta, tatto, gusto odorato, come una caratteristica emotiva del femminile, una sua ombrosa stimma.

Insomma il cucito si rivelò l’altra faccia del collage.

In ogni modo, da secoli sappiamo che gl’ingredienti culinari sono ingredienti culturali e le loro procedure di lavorazione scorrono sulla cresta delle stesse analogie. Questo perché una identica affinità, anche pratica, lega l’elaborazione degli atti alimentari all’elaborazione morfologica di molti contenuti artistici. È un’esperienza ricorrente soprattutto nell’ambito della poesia che affonda nella vita vissuta e che nel surrealismo è un’eredità diretta dal simbolismo.

Ludwig Wittgenstein nella raccolta Pensieri diversi osserva: “l’uva passa può anche essere quanto vi è di meglio di una torta, ma un cartoccio di uvette non è migliore di una torta.”

Cosa intendeva dire? Che il pensiero astratto e/o quello “creativo” – così come gli atti alimentari in cucina – ha bisogno delle stesse operazioni, quali l’essere selezionato, mescolato, impastat0, assaggiato e portato a conclusione con la cottura.

Non è dunque un caso che sapere e sapore, hanno nella lingua latina lo stesso etimo, così come conoscere e mangiare hanno la stessa madre. Il linguaggio del cibo, a cominciare dai simposi dei greci, dilaga nel linguaggio della conoscenza di cui molti apprezzano l’appetito, come conoscono la sete di sapere e la fame di informazioni.

A questo proposito nelle lingue europee ci sono molte affinità.

In italiano i buoni libri si divorano, provocano una nausea quando sono noiosi. Tutti sanno che le buone letture saziano, anche se quando contengono concetti complicati magari si fa fatica a digerirle. In ogni modo le idee difficili si ruminano come si rumina quando si ricorda. Le lingua straniere si masticano. Gli ordinatori, da parte loro, ci costringono spesso ad una indigestione di dati. Ancora, le parole degli amanti sono dolci come sono amari o aspri i rimproveri. I pettegolezzi sono piccanti, e gustosi i riferimenti. In breve, la lingua ha nei confronti del cibo e delle parole la stessa funzione. Di ligare.

Queste analogie, che in molti casi ritornano come formazioni formali con le poetiche delle avanguardie, sono antichissime. Pindaro, un poeta greco vissuto a cavallo tra il quarto e il quinto secolo prima dell’era comune, diceva che la lirica rappresentava ai suoi occhi una bevanda deliziosa e il suo canto (mélos) gli appariva dolce come il miele (méli). Nel Medioevo la “farcia” non era solo un ripieno, ma un intermezzo comico, una farsa, appunto. Sono analogie forti?

Certamente, non per caso gli avvenimenti apicali della religione cristiana sono fondati sul cibo. Lo sono il peccato di Adamo ed Eva che mangiano la mela della conoscenza, la trasformazione dell’acqua in vino, a Cana, primo miracolo di Gesù bambinetto, l’ultima cena che celebra con il vino che diventa sangue e il pane che diventa carne il patto di “dio” con gli uomini.

Prima di vedere le opere culinarie di Marcel Duchamp, per cominciare ricordiamo un’opera famosa di Francis Picabia del 1921, L’Oeil cacodylate, che ha molti interventi di altri artisti Dada e non. Su questa “tavola” di firme s’inneggia ai croissants che sono buoni o all’amore per l’insalata.

Affermazioni banali che mirano a stupire o, forse, a smaltire le bottiglie di champagne che offriva a Picabia e sodali Nancy Cunard, la Gioconda degli anni ‘20 come è stata chiamata, la bella e ricca ereditiera inglese che conobbe parecchi “talami” surrealisti, a cominciare da quello di Louis Aragon, per tacere quelli di Tristram Tzara, Erza Pound, Ernst Hemingway e James Joyce.

Questo Oeil è un modo per entrare in argomento a partire anche da un altro archetipo freudiano di quella stagione, la “macina cioccolato” di Duchamp con cui lo scapolo macina da solo i semi di cacao per farne della polvere e che compare anche nella parte inferiore del grande vetro, quello della Marieé, sposa messa a nudo dai suoi scapoli stessi, même, qui vuol dire che forse mi ama.

In ogni modo le opere “incommestibili” Marcel Duchamp le realizzò nella sua amata Cadaquéz. La più interessante è forse Sculpture-morte del 1959. È la terza opera, dopo With my tongue in my cheek e Torture-morte, delle quali i suoi critici diranno che si “sente” la vicinanza di Salvador Dalì, delle limpide acque di La Caula, dell’atmosfera picaresca del Café Melitón y Casino.

In particolare, dietro Sculpture-morte balugina, e non è difficile coglierla, una citazione “surreale”, quella di Giuseppe Arcimboldo (1527-1593). Ma è poi vero? Vale a dire c’è qui la stessa relazione figurale che proietta questo artista nell’epoca di Rodolfo II di Habsbourg per esempio tramite la tela Vertumnus del 1590? Questa relazione fa dire a Roland Barthes che in Arcimboldo “tutti gli animali del mare formano il viso del mare e non c’è altro sistema per farcelo conoscere”. C’è poi una suspicione stilistica. Duchamp sa essere infantile senza essere banale. L’opera non è stata realizzata con verdure vere, che certamente non mancano a Cadaquéz, né con verdure finte, come avrebbe fatto in altre circostanze, ma con ortaggi in marzapane e insetti di carta.

Di per sé quest’opera è più un assemblage che una composizione. Sfida il grottesco e l’osceno.

C’è anche da considerare che il numero degli ortaggi in marzapane che si possono trovare a Barcellona non è infinito pur essendo un vanto delle sue pasticcerie, e l’opera lo registra con disincanto. Del resto, con la pasta di mandorle, cioccolato e canditi ha lavorato in questa città anche Antoni Gaudí, vi ha costruito tra le altre cose la casa di Hensel e Gretel al Parco Güell, oltrepassando il moderno in nome del modernismo, rivendicando una cosmogonia estetica o forse, in questo caso, estatica delle piccole differenze.

Il legame poetico che Duchamp “ricama” tra Arcimboldo e Gaudí è più forte di quello con Dalì e passa per l’assemblage, come una forma moderna di quella totalità che non conosciamo se non a spizzichi e bocconi.

La scultura moderna, infatti, morta o viva che sia, ha da tempo frantumato l’aura della scultura classica, prigioniera dei materiali, dell’immobilità, dello spazio, dell’antropomorfismo.

La forma, cioè, il tutto, non è più “estratta” o “scavata” da un insieme coerente, ma è prodotta per frammenti, ha legami improbabili, tematiche che sfuggono alla geometria o, viceversa. La scultura classica è stata aristotelica, ma Auguste Rodin l’ha sollevata dal suo zoccolo di certezze per sprofondarla nell’improbabile, nella brutalità pelvica dei realismi. Lo vediamo da tempo, la scultura moderna oramai fugge il monumentale per aspirare all’assenza, sfida l’impossibile, esalta la sua natura effemerica, si fa rappresentazione o proiezione.

In questo senso Sculpture-morte appare come un volutamente a-monumentale aggregato astratto che si condensa fino a diventare segno. Si consegna alla rappresentazione, si spoglia in un istante di quella oscena poetica statuaria che abbiamo visto inchinarsi alla gloria degli dei e delle puttane ed accetta la mutazione, la perfida metamorfosi, perché l’idea, nel cinismo di Duchamp, è in re e non ante rem.

Infine la pasta di mandorle che diventa scultura è un’intuizione allegorica, resto odoroso di sé.

È un’esaltazione della caduca dignità dell’arte, si muta in figurazione e riflette la mano che l’ha costruita mettendone a nudo il cuore. Forse ha ragione Denis Diderot, l’arte e la poesia vogliono qualcosa di enorme, di barbaro, di selvaggio. Forse confrontarci con degli ortaggi è la porta che si spalanca sulla promessa di una teofania della natura.

Poi verrà il Gruyère o l’Emmenthal Svizzero che diventa una cover, una coperta per il pamphlet, First papers of surrealism, pubblicato a New York nel 1942. A questo proposito c’è da anni una curiosa polemica su quale dei due formaggi fosse stato realmente usato da Duchamp. Gli studiosi di surrealismo dicono Gruyère, gli esperti di formaggio Emmenthal, per via dei buchi e di alcuni riscontri organolettici dovuti all’acido propionico, di recente, è stato anche unificato il loro diametro ottimale, fissato in quattordici millimetri.

In ogni modo, formaggio per formaggio, Marcel Duchamp era ghiotto di Camembert – c’è una scatola autografata della marca Excelsior conservata da un collezionista che lo testimonia. Del resto sono proprio i Camambert pourri che suggeriranno a Salvador Dalí gli orologi molli.

In ogni modo in questo contesto di forme alimentari il più radicale e “gastronomico” è Salvador Dalí che, glossando l’ultimo rigo di L’amour fou di Andrè Breton, dichiarerà: “La bellezza sarà commestibile o non sarà”.

Generalmente si associa Salvador Dalí alla Spagna, ma è un errore, Dalí era un catalano che rivendicava la sua “catalanità” in ogni occasione e con ogni mezzo, c’è un intero capitolo su questo argomento nel suo libro autobiografico, Confessioni inconfessabili, del 1973, nel quale afferma pieno d’orgoglio di parlare catalano, di mettersi sul capo appena può la berretina dei suoi contadini, di calzare le espadrilles e soprattutto di amare e divulgare in ogni occasione la cucina catalana. Dalí sostiene anche che quando era costretto a vivere a New York o a Parigi si sentiva un migrante che non ha mai tradito la cucina di questa piccola patria ribelle.

A questo proposito, studi recenti hanno dimostrato che l’ultimo legame, quello che non si spezza quasi mai con la propria terra d’origine quando si emigra non è la religione o la lingua, ma il ricordo dei sapori e degli odori della cucina materna. La catalanità sa essere molto di più, sa arrivare alla ferocia. Un aneddoto su Joan Brossa, che se non è vero è ben congegnato, ce la spiega in tutta la sua nevrosi. Brossa è un poeta ed un artista catalano, scomparso qualche anno fa, che qui ricordiamo per essere stato il fondatore, nel 1948, dunque in pieno regime franchista, di una rivista surrealista che si chiamava Dau al set, la settima faccia del dado. Dunque, Brossa voleva visitare il Museo del Prado a Madrid, ma non voleva avere niente a che fare con questa città, espressione della cultura castigliana. Così, un giorno, in cui aveva guadagnato un po’ di denaro affittò un taxi, si bendò, e partì da Barcellona alla volta di Madrid. Lì si fece accompagnare, sempre bendato, fin sopra la scalinata del Prado, si tolse la benda dagli occhi ed entrò. Una volta visitato il museo, si rimise la benda e si fece riportare, sempre con il taxi, a Barcellona.

Scrive Dalí: “Viviamo (io e Gala) nella solitudine e al ritmo delle pulsioni cosmiche. Pescando sardine con la luna nuova e sapendo che, allo stesso tempo, le lattughe stanno crescendo tra i meli.” E ci ricorda qualche pagina dopo nelle sue Confessioni inconfessabili: “Io sono un payés catalano”, un contadino, per poi aggiungere che ogni scintilla del suo spirito corrisponde a un periodo della storia della Catalogna, patria della sua paranoia.

In questo libro c’è un altro passo che va ricordato, questo: “Per essere Dalí occorre essere catalani, ovvero, pronti al delirio. La paranoia è vivere come fanno i pescatori di Cadaqués, che sugli angeli barocchi e lucenti dell’altare della loro chiesa appendono aragoste vive per far sì che la loro agonia permetta loro di seguire la passione della messa.”

In breve per Dali la cucina è l’anima della sua terra, ricca di venti e di asprezze, e dunque della sua pittura, ecco perché in tanti dei suoi lavori compaiono dei cibi che gliela ricordano a cominciare dal pa de crostons, con il quale ha anche decorato le pareti esterne del Teatro-Museo di Figueres a lui dedicato. È un pagnotta di media grandezza detta de puntas o de picas oppure “pane con le corna”, per via di tre rosette, sempre di pane, che gli sono messe intorno a triangolo.

A questo proposito egli rimuginò per molto una sua idea di rivolta. Con i dollari, sosteneva – una moneta che tanto amava, fino al punto che André Breton anagrammò il suo nome in Avida Dollar – si fanno le guerre, per il pane si può fare la rivoluzione. Da qui la teoria paranoica di una “rivoluzione del pane”.

Da anziano la nostalgia ha il sopravvento. Dalí comincerà a tornare sempre più spesso nella sua casa in mezzo agli olivi di fronte al mare, a godere dei suoi umori mangiando ricci al tramonto, arrostendo sardine con i sarmenti, cioè, con i tralci di vite, a schiacciare la testa dei crostacei per suggervi il midollo. Scrive: “gli organi più filosofici dell’uomo sono le sue mandibole”.

“Cosa c’è di più filosofico del succhiare lentamente il midollo di un osso schiacciato nel distruttore abbraccio finale dei molari?”

L’osso, che contiene il midollo, metafora della verità, una verità messa a nudo, tenera e commestibile. A questo proposito afferma spesso, “tutte le mie verità iniziano dalla bocca e si trasformano in uno stimolo viscerale. La mia pittura è gastronomicamente spermatica ed esistenziale”.

Per concludere con amara e inconsapevole arguzia: “So quel che mangio, non so quel che faccio.”

La ghiottoneria per Dalí ha valenze fantastiche che lui definisce intrauterine. Per esempio era convinto di ricordare l’interno dell’utero di sua madre. Un utero nel quale campeggiavano due uova fritte in padella, ma senza la padella. Queste uova diventeranno il soggetto di molti dipinti.

A questo proposito rivela: “Le mie rappresentazioni commestibili, intestinali e digestive di quell’epoca prendevano un carattere sempre più insistente. Desideravo mangiare tutto e progettavo la costruzione di un enorme tavolo fatto esclusivamente di uova sode”, di cui darà anche le istruzioni per costruirlo con uno stampo.

L’uovo, dunque, come simbolo della vita intrauterina e il pane come espressione della vita terrena. Un cibo sul quale imbastì una sorta di rivoluzione, complice Gala, la compagna della sua vita che si uni a lui lasciando Paul Eluard di cui era la moglie.

Il pane un cibo da mangiare con le dolci fave della sua terra, la regione dell’Empordà, da leccare e baciare, da tradurre in una sorta di oggetto magico, come quando fece cuocere uno sfilatino lungo quindici metri. Un pane assolutamente normale a parte la grandezza con il quale – e qui interviene l’artista – “si potrebbe tentare la rovina sistematica del significato logico di tutti i meccanismi del mondo pratico razionale”.

Per comprendere il metodo della paranoia critica, da lui elaborato e per lui scrupolosamente applicato al cibo e alla pittura, basta ricordare il titolo di alcune delle sue opere più famose, da la persistenza della memoria con i suoi orologi molli, al busto di donna con un pane sul capo.

Dal Pane francese medio con due uova al tegamino senza tegamino, in groppa, che tenta di sodomizzare la mollica di un pane portoghese del 1932. Al ritratto di gala con due due costolette di agnello sulla spalla, alla Costruzione molle con fagioli bolliti, premonizione della guerra civile del 1936, al Telefono su vassoio con tre sardine fritte a fine settembre all’autoritratto molle con pancetta arrosto del 1940.

Questo atteggiamento, per altro costante nella sua determinazione, era una provocazione sia pure buffa o nascondeva dell’altro? Leggiamo quello che di lui scrive Sigmund Freud in una lettera a Stefan Zweig, un protagonista della letteratura austriaca di quegl’anni, era il luglio del 1938. “Caro signore, bisogna realmente che io vi ringrazi delle parole di introduzione che mi hanno condotto il visitatore di ieri. Poiché fino a quel momento ero tentato di considerare i surrealisti,che apparentemente mi hanno scelto come santo patrono, come dei pazzi integrali, diciamo al novantacinque per cento, come l’alcol puro. Il giovane spagnolo, con i suoi candidi occhi di fanatico e la sua indubbia padronanza tecnica, mi hanno incitato a riconsiderare la mia opinione in realtà, sarebbe molto interessante studiare analiticamente la genesi di un quadro di tal genere. Dal punto di vista critico si potrebbe tuttavia dire che la nozione d’arte si rifiuta ad ogni estensione quando il rapporto quantitativo tra il materiale inconscio e l’elaborazione pre-cosciente non si mantiene entro limiti determinati.”

Nell’ambito del surrealismo dovremmo a questo ricordare due grandi inimitabili artiste. La prima è la poetessa di origine egiziana Joyce Mansour l’altra è la svizzera Meret Oppenheim.

Della Oppenheim tutti conoscono la sua tazza da tè con il piattino e il cucchiaino in pelliccia, meno nota, invece, è un’altra sua performance, quando in occasione dell’esposizione internazionale del surrealismo del 1959, si mescolò nuda tra le vivande dando il proprio corpo in pasto al desiderio degli uomini e delle donne raccolti attorno al tavolo per banchettare in una sorta di body sushi edipica che moltiplica la vera fame.

Passiamo ora a Marcel Broodthaers, nacque a Bruxelles lo stesso anno del primo manifesto surrealista, nel 1924, la sua personalità è così complessa che è difficile collocarlo dentro una poetica specifica.

La definizione di artista concettuale con la quale superficialmente si etichetta è un brand mercantile, il suo lavoro è intriso di surrealismo, quel particolare surrealismo che potremmo definire “belga” se questa parola avesse un senso, molto vicino al fascino segreto della poesia, da Baudelaire a Mallarmé.

Un surrealismo legato, da una parte, alla poetica dell’humour noir nella definizione di André Breton – l’Anthologie de l’humour noir è una raccolta di racconti “neri” scelti tra i classici maledetti che André Breton raccoglie e pubblica nel 1939 – dall’altra, ad un carattere analogo alla “catalanità” di Dalí, una sorta di “belgitudine”, di “frititudine”, intesa come una possibile forma d’identità materiale di questa piccola nazione che la cultura, la lingua e la ricchezza hanno spaccato in due da tempo.

Broodthaers ammira i poeti simbolisti e il grande sabotatore della vita corrente René Magritte belga come lui di una generazione più vecchio, è interessato al rapporto tra l’artista e la società, scrive poesie, poi però non esita ad annegarle in un piatto e ad esporle come sculture.

È attirato dalle “liste” e dall’accumulazione di oggetti, come Arman, uno dei protagonisti del Nouveau Réalisme, insieme, per citare un altro protagonista altrettanto importante di questa poetica, a Yves Klein di cui fu amico, ma Broodthaers non vuole drammatizzare né gli oggetti né il contesto in cui si trovano, piuttosto si adopera perché essi rivelino una vena di assurdo. Nelle accumulazioni insegue una specie di maniacalità primordiale, gusci d’uovo, mattoni e cozze.

È naturalmente attratto anche dal ready-made perché gli consente di portare alla luce le relazioni contraddittorie tra il linguaggio e l’immagine. Morirà di epatite, il malanno di chi ama troppo l’alcol.

Le sue accumulazioni di cozze che traboccano dalle pentole ricordano vagamente gli hamburger della pop-art, ma l’ironia è più sottile e metafisica. Le cozze di Broodthaers sono vocali e consonanti di una lingua che lui solo conosce e che fa da contro altare alla poesia dei gusci d’uovo. Una poesia di frammenti senza senso, senza colore, senza un valore apparente.

Di nuovo l’uovo, un oggetto che l’uomo ha simboleggiato in mille modi e in tutte le epoche, emblema primordiale del cosmo, della perfezione, del mistero, della vita.

In Belgio a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta si pubblicava una rivista d’avanguardia dal titolo suggestivo, Les Lèvres Nues, vi collaborava uno dei più grandi poeti del Novecento in lingua francese, Louis Scutenaire, anarchico di professione. La poesia che egli amò per tutta la vita lo fece vivere da povero con poco, era avvocato, difendeva i ladri che rubavano per necessità, non aveva paura della povertà e della riprovazione sociale, a questo proposito c’è un divertente aneddoto sulle uova che lo riguarda. Ospite a casa di amici si recò in una latteria per acquistare un litro di latte, ma la lattaia fu inflessibile. Niente bottiglia, niente latte. Il mite Scutenaire accetto questa logica di ferro. Un paio di giorni dopo ritornò nella stessa latteria, mise sul banco del negozio i gusci di sei uova e chiese alla lattaia, con un grande sorriso, di vendergliene una mezza dozzina.

La prima mostra di Broodthaers a Bruxelles s’intitola “Moles, oeufs, frites, pots, charbons”, si muove ancora nell’ottica di un neo-dadaismo che annovera Joseph Beuys, Cleas Oldenburg, Jim Dine, George Segal soprattutto, Piero Manzoni. Con quest’ultimo egli aveva già avuto dei contatti molto stretti, per esempio nel 1963 si erano firmati reciprocamente le opere accompagnandole da una dichiarazione di autenticità.

Ma perché questa fissazione per le “cozze”?

È una strategia che arriva da Dada, sondare la complessità ricorrendo all’arcano del banale. Si potrebbe definire una strategia letteraria di metamorfosi della sostanza, una finzione procedurale che attraverso l’assemblage degli ingredienti deve generare un sapore e in seconda istanza un gusto delle cose. Broodthaers è stato anche un cineasta d’avanguardia, uno dei suoi film s’intitola, Berlin, un rêve à la crème, in sostanza un programma alimentare.

La rivista Les Levres nues l’abbiamo ricordata perché è una di quelle poche che raccordano le avanguardie storiche e le neo avanguardie del dopoguerra. Un capitolo per certi versi ancora inesplorato. Qui è l’occasione per rilevare come tra queste ultime spicca il gruppo Fluxus ideato e voluto da George Maciunas (1931-1978), un artista lituano che visse e lavorò a New York.

Ricordiamo Fluxus sia per le sue origini legate al neo-dada sia perché come scrisse Arthur Coleman Danto, ex presidente dell’American Philosophical Association e presidente dell’American Society for Aesthetics, “ciò che distingueva Fluxus negli anni Sessanta era l’uso del cibo come arte”. Va detto però che l’intento di Fluxus mirava ad ragioni corporali, in modo speciale a “purgare” il mondo delle sue illusioni facendo dell’arte un capitolo della storia dell’uomo aperto a tutti. In breve, Fluxus voleva far regredire il mito dell’artista signore di ciò che è o non è arte, elevando l’arte ad espressione elementare di un desiderio festivo alla portata di tutti.

Pubblicato in Cinque lezioni tra «art & food» | Commenti disabilitati su Cinque lezioni tra «art & food» – Terza lezione