La convergenza del gusto – IED – Esercitazione 5 – 2010-2011

IED, Milano. Anno accademico 2010-2011
Cattedra di sociologia.

(Esercitazioni)

Esercitazione numero cinque.
Lunedì 10 gennaio 2011.

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CASTOR GAUDET EQUIS, OVO PROGNATUS EODEM PUGNIS.

(Castore amava i cavalli, quello nato dallo stesso uovo, la guerra.)

La convergenza del gusto.

Diceva Alexis de Tocqueville, parlando dell’America, la società

democratica vive in una perpetua adorazione di se stessa.

Le tendenze ci accompagnano – blandendoci ed ossessionandoci – in ogni campo della nostra esistenza oramai da tempo immemorabile. Tutto avviene come se i desideri della maggioranza degli uomini e delle donne fossero finiti sotto il controllo di un’autorità invisibile, potente e capricciosa. La moda.

Poi un giorno all’improvviso e in modo inspiegabile questa svanisce.

La cosa tanto desiderata fino a ieri, il “must have” – nel gergo dei pubblicitari – diviene il colmo del démodé. Quel particolare feticcio distintivo, oggetto di tutte le nostre brame segrete, si muta in una stimma vergognosa che ci affrettiamo a portare al cimitero delle tendenze in attesa di un nuovo incantesimo.

Il fenomeno che abbiamo descritto è così importante e diffuso che sull’argomento è nata una nuova sociologia con lo scopo di comprendere il ciclo vitale – dalla nascita alla morte – che presiede alle condizioni di produzione e diffusione delle mode della neo-modernità, spesse volte futili, ma altre così importanti da coinvolgere le strutture più sotterranee della società. Mode che il sistema delle merci condanna a restare invisibili, ad agire a livello inconscio. Gli esperti a questo proposito ritengono che l’impero delle tendenze si sta inesorabilmente estendendo, globalizzando i gusti. A questo proposito Roland Barthes aveva notato che il nostro immaginario collettivo ha un’origine commerciale ed è costantemente dominato dalle mode che già a partire dalla prima parte dell’Ottocento non possono più essere relegate al solo ciclo del tessile abbigliamento.

Oggi le tendenze possono essere commerciali o non-commerciali – come nel caso della scelta dei nomi di battesimo – avere dei trend molto lunghi o brevissimi, in genere negli istituti di ricerca si valutano a partire dalla rapidità e dall’ampiezza della loro diffusione. Una legge empirica mostra come la velocità con cui si diffondono è inversamente proporzionale alla loro durata in vita. Le tendenze, poi, possono essere raggruppate in funzionali e non funzionali. Le prime sono quelle legate all’evoluzione dei contesti e trovano la loro spiegazione nelle modificazioni economiche della società, sono le cosiddette tendenze funzionali. Le seconde sono quelle la cui evoluzione dipende direttamente dall’evoluzione dei gusti degli individui.

In sostanza, qual è il presupposto generale di questa sociologia delle tendenze?

La convinzione che le mode sono, nel nostro sistema culturale, la conseguenza dello spirito del tempo, il prodotto dell’essenza di un’epoca. È una tesi “strutturalista” del fenomeno della moda inspirato dalla linguistica per la quale le tendenze costituiscono un linguaggio attraverso il quale l’epoca si rivela a coloro che l’abitano.

Oggi si ritiene che esse permettono di prendere coscienza di certe contraddizioni proprie al nostro sistema di vita perché le tendenze rappresentano un processo senza soggetto di cui è difficile spiegarne la genesi, non per caso intorno alle mode aleggiano sempre delle teorie che le vedono come dei complotti. Quel poco di verità che c’è in questa posizione è però scolorita dall’idea di un potere la cui influenza si manifesta ovunque e la sua sede non è da nessuna parte.

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Compito dell’esercitazione è di enucleare un gruppo di prodotti, oggetti, atteggiamenti, situazioni che possono essere intesi come forme di tendenza allo stato nascente.

Ogni gruppo di studenti dovrà stilare per ognuno di questi quattro campi ABBIGLIAMENTO, INFORMATICA, TEMPO LIBERO, CUCINA, cinque tendenze in ordine di importanza e di novità, dovrà illustrarle nel modo più efficace con il processo comunicativo che si ritiene più opportuno e spiegarle con una breve relazione.















































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La bellezza insanguinata – IED – Esercitazione 4 (III) – 2010-2011

IED, Milano. Anno accademico 2010-2011

Cattedra di sociologia.

(Esercitazioni)

Esercitazione numero quattro – (terza parte)

Lunedì 20 dicembre 2010

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LA BELLEZZA INSANGUINATA!

(Le nostre illusioni, la loro sofferenza)

Un cosmetico è una sostanza o un composto di sostanze destinato ad essere usato sul corpo umano, in particolare sull’epidermide, ma anche sul sistema pilifero, le unghie, le labbra, gli organi genitali esterni, certe mucose, i denti, allo scopo di pulire, proteggere, profumare, mantenere in buono stato, modificare o imbellire l’aspetto fisico oppure “correggere” gli odori.

La cosmesi – da cosmos, ordine – è antica quanto l’uomo, si ritiene che già nel neolitico si praticasse la pittura corporale. Gli egizi – più di tremila anni fa – conoscevano unguenti, oli profumati e sostanze dentifrice. Sulle antiche vie della seta e dei dolmen la cosmesi orientale conquistò la Grecia e l’Impero Romano. In particolare a Roma l’esasperata ricerca di una bellezza algida e immacolata introdusse l’ossido di piombo nei cosmetici per la pelle (nella cerussa o biacca e nel khôl, scatenavano il saturnismo) e il cinabro (il minerale da cui si ricava il mercurio) nel rosso per le labbra, con gravi rischi per la salute. Dopo le crociate la cosmesi conquistò definitivamente l’Europa, la nobiltà, uomini e donne, usava creme, fondi tinta, tinture per capelli, profumi. I prodotti cosmetici mutano con il tempo e la ricerca scientifica, anche se la cold cream di Galenus è usata ancora oggi è sparita la doccia a base di urina di giovinette.

La vera rivoluzione della cosmetologia avviene con il diffondersi della chimica moderna che vi ha introdotto i profumi di sintesi, i derivati del petrolio, i tensioattivi e gli stabilizzatori delle emulsioni. Oggi un cosmetico può arrivare a contenere fino a trenta ingredienti dei circa ottomila che costituiscono il catalogo di questa industria.

Gli ingredienti possono essere di origine vegetale, animale, minerale e di sintesi e i produttori hanno l’obbligo di documentare – con studi e test appropriati – le loro caratteristiche e il loro effetto. Una inascoltata legislazione internazionale e nazionale regola la loro produzione, sia per quanto riguarda la salute umana, sia per l’ancora e per certi versi oscurata azione nociva su chi li lavora – sono noti casi di aborto nelle fabbriche cosmetiche – e sull’ambiente, a cominciare dalla loro biodegradabilità.

Ciò che molti (troppi) fingono di non sapere:

I test sugli animali per provare la non-nocività dei preparati o i loro effetti possono essere fuorvianti. Spesso e in modo imprevedibileAn animal’s response to a drug can be different to a human’s . la risposta di un animale a un farmaco o ad un cosmetico è ingannevole perché diversa da quella umana.

Da tempo alternative di successo sono gli studi in provetta sulle colture di tessuti umani, l’elaborazione di dati statistici e la realizzazione di modelli informatici.

Lo stress a cui gli animali nei laboratori sono sottoposti in ogni caso altera gli esperimenti e rende i risultati incomprensibili o senza un’utilità pratica.

Gli animali sono tuttora massicciamente usati per testare cosmetici e prodotti per la pulizia per il solo motivo che questa in molti casi è la strada economicamente più conveniente e più facile.

Di contro:

Gli animali hanno lo stesso diritto alla vita degli esseri umani.

Finora i controlli più severi non hanno impedito ad aziende, istituti di ricerca, laboratori e ricercatori privi di scrupoli di abusare della vita animale.

La morte di un animale, soprattutto quando non è giustificata, non è moralmente diversa di un omicidio.

Quando gli animali sono rinchiusi e circondati dalla sofferenza di altri animali soffrono di stress enormi di tipo psicofisico che causano loro un dolore continuo ed inutile. Can we know they don’t feel pain? ( se preferisci citare Bentham “La domanda non è: sono capaci di ragionare? E neppure: sono capaci di parlare? La domanda è: sono capaci di soffrire?

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Ogni anno, nella sola Unione europea più di dodici milioni di cani, gatti, conigli, topi, ratti, scimmie vengono utilizzati nelle prove sul dosaggio mortale delle sostanze chimiche e dei farmaci e sulla non pericolosità dei cosmetici. Se si considerano i paesi dove è obbligatorio fornire statistiche questa cifra sale a 115 milioni all’anno, ma gli Usa, a titolo di esempio, non considerano “animali” né i topi, né i ratti, né gli uccelli, che di conseguenza non rientrano nel conteggio, e non esistono dati per la Cina. In genere la sostanza da testare viene introdotta a forza nella gola dell’animale immobilizzato o pompata nello stomaco, altrimenti viene iniettata sotto la cute, nei muscoli o in vena. Viene spalmata sul ventre, le labbra, la vagina, gli occhi, viene introdotta meccanicamente nel retto o somministrata con maschere a gas. Se ne studiano le reazioni a breve e a lungo periodo come sono, a cominciare dalla morte, il vomito, le convulsioni, le ferite cutanee, il sanguinamento dal naso, dalla bocca, dall’ano, le eruzioni cutanee, la diarrea, la stipsi, le posture anomale. In genere gli animali muoiono nel giro di due o tre settimane, in una percentuale vicina al cinquanta per cento.

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Di fronte a questo stato di cose è possibile sensibilizzare l’opinione pubblica a partire dalle scuole? È possibile costringere i legislatori ad intervenire con leggi che mettano al bando la sperimentazione animale perlomeno nelle ricerche sulla cosmesi senza attendere che vengano pronti i cosiddetti metodi sostitutivi? È possibile punire commercialmente le aziende insensibili a questi temi rifiutando l’acquisto dei loro prodotti? Si può difendere e diffondere l’idea che una società civile non ha bisogno di nuovi prodotti cosmetici se produrli significa accecare, ustionare, avvelenare, soffocare e uccidere gli animali? Ci bastano i cosmetici cruelty-free già esistenti sul mercato? Si può realizzare un “Animal Liberation Front” che prenda partito, al di là della politica, delle religioni, del luogo comune che vuole gli animali al servizio degli uomini, per la loro vita?

Obiettivo dell’esercitazione è di realizzare un marchio, un manifesto visivo ed eventualmente un breve filmato che contenga questo messaggio: no all’uso della vita, della sofferenza e della libertà degli animali per la sperimentazione, la produzione e la ricerca cosmetica.

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(Questa esercitazione è realizzata con la collaborazione di Vanna Brocca, direttore responsabile del giornale della LEAL – Lega Antivivisezionista.)

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Il gioco della deriva e la flanerie – IED – Esercitazione 4 (II) – 2010-2011

IED, Milano. Anno accademico 2010-2011

Cattedra di sociologia.

(Esercitazioni)

Esercitazione numero quattro – (seconda parte)

Lunedì 20 dicembre 2010

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IL GIOCO DELLA DERIVA E LA FLÂNERIE.

L’homme s’éleve au-dessus de tous les autres animaux

uniquement parce qu’il sait flâner.”

(Louis Huart, 1841)

La promenade est d’abord l’acte d’une finalité sans fin.”

(Alain Montandon)

Scriveva Charles Baudelaire in Le spleen de Paris: “Il n’est pas d’objet plus profond, plus mystérieux, plus fécond, plus ténébreux, plus éblouissant qu’une fenêtre éclairée d’une chandelle.” Una candela dunque, poi la notte! Walter Benjamin la paragona alla parola della poesia, una parola che Edgar Allan Poe considera essenziale per assaporare “la poetica del passaggio” di cui splendidi esempi troviamo in André Breton, in Louis Aragon, come in Aldo Palazzeschi, Peter Handke, Guy Debord, se non addirittura nella celebre lettera di Francesco Petrarca sull’ascensione al Mont Ventoux, tutte dichiarazioni d’amore, nella loro diversità, per una “geografia sentimentale” di cui si sta perdendo il senso.

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Dimenticata per troppo tempo la deriva oggi è stata riscoperta dagli scrittori, dagli architetti, dai designer e dai sociologi come un modo di “rappresentare” e conoscere le grandi città coinvolte in una crescita accelerata e spesso ottusa dei loro quartieri abitativi e delle loro infrastrutture commerciali e di loisir. Ma che cos’è la deriva? In breve è un “comportamento ludico-costruttivo”, diversa dal viaggio finalizzato o dalla passeggiata di svago. È un modo di spostarsi in un territorio urbano senza una ragione pratica, per il solo gusto di lasciarsi andare alle sollecitazioni dei luoghi o degli incontri. Chi abita la città, di solito, non conosce di essa se non i percorsi prestabiliti e ripetuti, imposti dal lavoro o dagli impegni, che si esauriscono in una “cecità” per le persone che s’incontrano, per gli edifici, le piccole cose, i colori, gli odori, i cambi improvvisi di prospettiva, le luci e le ombre.

Nella deriva, da soli o in un compagnia gioca un ruolo fondamentale il caso, che rompe la routine e cambia ogni certezza. Debord, citando Karl Marx, scrive: “Gli uomini non possono vedere nulla intorno a sé che non sia il loro proprio viso: tutto parla loro di loro stessi. Anche il loro paesaggio ha un’anima.”

Quanto dura una deriva? Gli studenti di scienze sociali che l’hanno riscoperta, in Francia, in Inghilterra e soprattutto in California, dicono che può durare alcune ore come giorni interi, fino a quando, usciti dall’apatia grigia della vita corrente senza avvenimenti, si è travolti dall’euforia di vivere al’altezza dei propri desideri. Fino a quando non si “arriva”, non si raggiunge la “riva” di nuovi paesaggi che ci consentono di abbandonare le scorie di un presente sempre più sfiduciato.

Lo studente o gli studenti possono costruire la loro deriva in due modi. Nel primo modo facendosi guidare con il telefonino da un amico che si trova in un’altra città, o in un altro quartiere se la città è grande, il quale in base alle informazioni che riceve indicherà loro in che direzione muoversi: ancora avanti, a destra, a sinistra, salite, scendete, entrate, uscite e così via.

Nel secondo modo lo studente o gli studenti utilizzeranno la pianta di un’altra città, simile nella grandezza a quella in cui si trovano, per orientarsi e documentare la deriva. In questo caso dovranno riuscire in qualche modo a sovrapporre le piante o ad identificare percorsi analoghi.

En passant ricordiamo altre forme di deriva praticate in California che consistono nel seguire le persone – lo ha fatto anche Vito Acconci in una sua performance – farsi trascinare da un cane, seguire percorsi in linea retta arrampicandosi anche sui palazzi.

Scopo dell’esercitazione è quello di “costruire”, una volta scelto uno dei due modi, un diario della deriva realizzata il più completo possibile. A questo scopo la documentazione potrà essere fatta con ogni mezzo, mappe, fotografie, filmati, disegni, tracce fisiche rinvenute durante il percorso, rumori e suoni raccolti, o tutte queste cose insieme.

L’elaborato dovrà essere presentato su dischetto, accompagnato da una breve relazione esplicativa.

Non sono accettati altri supporti.

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