IED – Materiali del corso II (2011-12)

[Parte 2 di 8]

Naturalmente, l’aver posto la data del 1789 come quella d’inizio della modernità non significa che la modernità è nata il 14 luglio di quel anno, giorno della presa della Bastiglia, ma che è maturata in un certo intervallo di tempo di cui quel anno è lo spartiacque.  Questa data è funzionale al paradigma delle scienze sociali e della sociologia in particolare.  Per altri versi e nell’ambito di una storia più generale delle idee la modernità nasce con la scoperta dell’America, in pratica con il XVI secolo.  

La sociologia, soprattutto all’inizio, ha poi contribuito a diffondere, perlomeno tra le classi dominanti, due grandi miti dell’Ottocento:

il mito della tecnica, più specificatamente, della macchina,

il mito del progresso, come speranza di un futuro radioso per un numero d’individui sempre più numeroso. 

Questo secondo mito rappresenta una piena fiducia nell’avanzamento continuo e instancabile della scienza e con essa delle condizioni materiali e spirituali dell’umanità

Abbiamo già velocemente visto come il positivismo abbia in qualche modo orientato, nel corso dell’Ottocento, le principali ricerche intorno al tema della società e delle sue leggi. 

Lo ha fatto mentre alle sue spalle si scolorivano e si dissolvevano le strutture e i valori tradizionali dell’Ancien Régime.  Mentre si spegneva lo splendore effimero dei reami per volontà di dio, lasciando ai più l’impressione che si fosse creato un vuoto di valori che riapriva drammaticamente una nuova stagione di conflitti tra vecchie e nuove classi. 

È in questo contesto che maturarono molte ricerche e si aprirono dibattiti e polemiche su concetti, teorie o riflessioni che oggi sono popolari, ma che allora, agli occhi dell’opinione pubblica, sembravano per lo più irriverenti, improponibili, blasfemi o addirittura intoccabili. 

Per esempio, si cominciarono ad affrontare i temi del rispetto culturale dell’altro, come individuo, e dei popoli come identità di un sentire condiviso.

Si riflette sul tema della cooperazione internazionale come strumento per un sentire comune delle differenze culturali, sociali e politiche.

Si cominciò a sviluppare l’idea di nazione e di solidarietà sociale.

Si diffuse il principio dell’assistenza agli indigenti e ai malati, l’idea di consenso come base di ogni democrazia, la pratica del suffragio elettorale per eleggere i parlamenti.

Si cominciò a riconoscere il diritto di voto delle donne.

Molti paesi introdussero il divorzio che, implicitamente, trasformava il matrimonio da sacramento divino a semplice contratto tra un uomo e una donna.

Si cominciò a parlare di controllo delle nascite.

In buona sostanza di temi che oggi costituiscono (o, dovrebbero costituire) la spina dorsale delle democrazie moderne.

Compare, in questi anni, anche una nuova filosofia sulla condizione sociale dell’uomo, il materialismo storico e dialettico.

Dal punto di vista della storia della filosofia è una costola del cosiddetto “hegelismo di sinistra”.

Nella realtà storica di quel periodo rappresentò una speranza per le classi sfruttate dalle nuove strategie dell’economia capitalistica, speranza che si trasformò quasi subito in un’idea politica fondata sull’analisi scientifica delle leggi che governano i rapporti di produzione e le forze che li gestiscono.

Nell’ambito del discorso sociologico il materialismo storico dialettico può, dunque, essere considerato come un’importante teoria scientifica del conflitto di classe. 

L’influenza del pensiero marxiano sulle scienze sociali, da cui discendono i capisaldi del materialismo, (perché è soprattutto a Karl Marx (1818-1883) che va riconosciuto il merito di aver elaborato questa dottrina) è stato determinante da molti punti di vista.  

Ha consentito di elaborare una teoria critica delle ideologie come rappresentazioni illusorie della realtà materiale.  Come sovrastrutture al servizio delle idee dominanti destinate a giustificare gli egoismi di classe, a razionalizzare le illusioni, a legittimare il potere costituito e a giustificarne le contraddizioni. 

Ha rafforzato il discorso critico intorno alla scientificità del pensiero scientifico, procedendo ad una analisi delle condizioni che la determinano.  Tema questo che ha poi dato vita a diverse specializzazioni della sociologia, come sono la sociologia della conoscenza, della tecnica, del pensiero scientifico. 

Ha introdotto nell’analisi delle forme sociali il concetto di alienazione.  Questo concetto, di origine hegeliana, era stato, prima di Marx, elaborato in chiave di critica filosofica della religione da Ludwig Feuerbach (1804-1872) e prima ancora da Jean-Jacques Rousseau.  Secondo Marx è il processo per cui ciò che è proprio dell’uomo, in quanto prodotto del suo lavoro, gli diventa estraneo a causa del processo di sfruttamento capitalista della forma di lavoro. 

Oggi, nella cultura contemporanea, indica la condizione dell’uomo ridotto ad oggetto e dunque estraniato dalla sua identità.    

Abbiamo visto come con la modernità i temi che dominano il mondo, intorno ai compiti e al destino degli uomini e delle nazioni, siano cambiati radicalmente.  Oggi si parla di società contemporanea.  Secondo i sociologi e i politologi essa si caratterizza per almeno tre aspetti: 

– Una spinta globale all’interconnessione attraverso dei sistemi di rete sempre più estesi all’intero pianeta. 

– Una evoluzione degli stili di vita sempre più rapidi e profondi che sono, per la prima volta nella storia dell’uomo direttamente legati all’innovazione tecnologica. 

– Una trasformazione dell’ambiente e dell’habitat di un’ampiezza senza precedenti dovuta a dei fattori evolutivi di natura sociale, culturale, economica e tecnologica. 

Quello che più conta, in sintesi, è però altro.   Si stima, infatti, che questi mutamenti siano di natura irreversibile e che coinvolgano direttamente tutti, sia pure in modi differenti, a partire dal quotidiano, cioè, dal nostro modo di concepire la convivenza umana. 

Qualche dato. 

A livello dei mezzi di comunicazione i collegamenti via “internet” si sono diffusi con grande rapidità.  Nel 2004 si valutavano 140 utenti ogni mille abitanti.  Oggi sono così tanti e dappertutto nel mondo da costituire il più grande strumento di consenso mai visto, capace di trasformare i modelli della politica, della forma di Stato, dei modi di pensare le scelte, così come d’innestare processi che nessuno sa gestire ancora per la loro rapida capacità di diffusione. 

Vedremo più avanti che cosa sono i processi di sincronia di massa.

Per quanto riguarda la globalizzazione basta riflettere su questo semplice dato.  Nel corso di questi ultimi cinquant’anni la produzione mondiale espressa dal prodotto interno lordo è aumentata di circa cinque volte, ma nessuno sa gestirla.  Di contro i poteri economici sono diventati immateriali e hanno riscritto la carta delle relazioni sociali.

Vedremo meglio in seguito l’importanza di questi fatti.    

Parte seconda.

Torniamo, adesso, ad un protagonista del pensiero positivista, Emile Durkheim (1858-1917), un filosofo sociale francese, considerato il fondatore della moderna sociologia. 

Di fatto Durkheim conciliò la sociologia con l’antropologia culturale studiando le società primitive e le forme religiose.  Il tema dominante del suo lavoro fu la società considerata come una realtà sui generis, che trascende i desideri, la volontà i convincimenti culturali degli individui da cui è composta. 

Durkheim per spiegarlo ricorre ad una arguta metafora metallurgica. 

“La durezza del bronzo non si trova né nel rame né nello stagno che sono serviti a formarlo, e che sono sostanze molli o flessibili.  Essa si trova nella loro mescolanza”.   

In altri termini, la società detta le sue leggi dall’alto ed attraverso un processo coercitivo costante costringe i suoi membri a conformarsi alle sue regole.  

La caratteristica principale della scuola sociologica francese da lui fondata fu quella di considerare i fenomeni sociali come fatti aventi una vita propria, un’esistenza indipendente dall’apporto delle singole coscienze degli individui, capaci, in conseguenza di ciò, di esercitare una pressione costante sulla società. 

Ora, se la società è un aggregato (sociale) di che tipo è la solidarietà, ossia, il grado di coesione esistente tra gli individui?  Per Durkheim è di due tipi. 

Una solidarietà di tipo meccanicistico, che deriva dall’indifferenziazione tra gli individui, tipica delle società primitive.  Una solidarietà di tipo organico, in cui ogni singolo membro assolve o dovrebbe assolvere ad una particolare funzione. Questo tipo di solidarietà è tipica delle società complesse in cui domina la divisione del lavoro. 

In pratica ogni società per Durkheim, è caratterizzata da una coscienza collettiva, ossia da quel insieme di norme, credenze e sentimenti comuni alla media dei membri che la costituiscono.  

Da questa coscienza collettiva derivano a cascata la condotta degli individui in pubblico e lo strutturarsi del consenso sociale.  Per questo filosofo l’individuo è un prodotto della società e non viceversa. 

Ogni azione che egli compie in società è dunque, il risultato di una coscienza che gli è superiore e dalla quale dipende.

Vediamo in pratica queste tesi applicate ad un tema di grande interesse sociale, il suicidio

Da tempo, come è anche emerso dalla “Giornata di prevenzione al suicidio”, che si è tenuta a Roma nel Settembre del 2006, il suicidio è la seconda causa di morte tra gli adolescenti, dopo gl’incidenti stradali. 

Dato riconfermato anche in altre sedi internazionali al quale non si riesce a dare una spiegazione che sia capace di tradursi in una pratica di prevenzione.

In Italia l’otto per cento di tutti i decessi tra i ragazzi dai dieci ai ventiquattro anni è determinata dalla scelta di togliersi la vita. 

Il quaranta per cento di chi non riesce nell’intento è portato a ripetere il gesto. 

Come abbiamo detto il tema centrale delle ricerche di questo filosofo è sempre stato il rapporto, spesso problematico, tra gli individui e la società, tema anche di uno dei suoi libri più eruditi, quello sulla divisione sociale del lavoro.

Tuttavia, il suo studio più famoso, anche per la natura dell’argomento, rimane quello sul suicidio che pubblicò nel 1897.   In esso si riflettono anche tutte le problematiche di una società, quella del suo tempo, dominata dalla confusione ideologica, dall’instabilità politica e dalle incertezze economiche. 

Ciò che rende questo lavoro importante sono soprattutto due motivi.  Un motivo di natura etica, perché Durkheim esamina il suicidio sotto l’aspetto di una disfunzione drammatica nel rapporto individuo-società

Vale a dire lo considera come la spia di una crisi nell’organizzazione sociale, affermando che esistono sempre delle responsabilità nell’azione degli uomini che hanno degli effetti sul comportamento di altri uomini e della società nel suo insieme.  Come dire che, in un certo senso, tutti siamo compromessi.      Il secondo motivo è di natura metodologica. Durkheim, per difendere le sue tesi, non esitò a studiare i dati di una scienza nascente, la statistica. Con essi mise in evidenza un fatto fondamentale, che i tassi di suicidio si mantengono , a livello statistico, costanti nel tempo e nei luoghi. Da qui ne dedusse che il suicidio va considerato come un fatto sociale.  Sempre con l’ausilio delle tabelle statistiche Durkheim mise in luce che il suicidio varia in modo inversamente proporzionale al grado di socialità che l’individuo riesce a sviluppare, dunque, si presenta come un fenomeno che prescinde per buona parte dalla psicologia individuale. 

Un cruccio di Durkheim a questo proposito fu il fatto che non riuscì mai a spiegare perché il tasso di suicidio è più elevato tra le professioni liberali che tra gli operai, tra gli uomini che tra le donne, tra i protestasti che tra i cattolici…

Più in generale un altro motivo importante è che con questo libro Durkheim perfeziona quella che oggi potremmo chiamare una metodologia della ricerca sociale

Una metodologia che, con grande intelligenza, egli elaborò a partire dal pensiero di John Stuart Mills, di cui abbiamo già ricordato le tesi sui meccanismi dell’induzione nella ricerca scientifica. 

Per venire al dunque Durkheim, individuò per il suicidio due cause, a ciascuna delle quali sono riconducibili due tipologie diverse di suicidio.  

In pratica delineò quattro tipi di suicidio, a seconda della causa che lo scatena e del modo con cui essi si rapportano al tema dell’integrazione sociale che coordina il rapporto dell’individuo con la società.  

Ad una debole integrazione sociale corrisponde, per Durkheim, il suicidio egoistico, motivato da sensazioni di esclusioni. Caratterizzato da una scarsa interazione con il proprio gruppo sociale di riferimento, in sostanza, con il proprio ambiente. 

Questo suicidio, in qualche modo, risponde ad una logica individuale che esclude una responsabilità diretta del gruppo.  È una forma di suicidio che, per la psico-analisi, ha forti componenti narcisistiche. 

In termini psichiatrici lo si può definire un suicidio reattivo e d’impulso, nel senso che in esso c’è una causa molte volte improvvisa, scatenante e impossibile da controllare.   

All’opposto c’è il suicidio altruistico. 

È una figura di suicidio a dire il vero molto rara, almeno nella cultura Occidentale.  Si potrebbe dire che questo suicidio è la conseguenza di una integrazione sociale eccessiva.  Rappresenta un sacrificio personale – che si ammanta del tema dell’onore – in nome degli interessi del gruppo o di un’ideologia.  Di fatto, però, questo suicido molto spesso discende da una patologica mancanza di un’autonomia personale. 

Nelle sue forme eroiche è il caso del capitano che si lascia affondare con la sua nave.  Del gruppo di soldati che si votano alla morte.  Della madre che sceglie di morire per dare alla luce un figlio che altrimenti sarebbe nato morto o, per fare un esempio recente, di quei tecnici giapponesi che sono entrati nella centrale nucleare danneggiata dal maremoto per cercare di raffreddarne il reattore che è esploso, e così facendo si sono esposti ad una fortissima dose di radiazioni nucleari.    In altre parole è un suicidio che, per l’ipocrisia, appare con forti componenti di natura etica, che sono vissute come imperativi morali.    

Il terzo tipo di suicidio è il suicidio fatalista

Spesso è la conseguenza di una forte pressione delle norme e dei valori del gruppo che risultano alla fine insopportabili per i più deboli.  Di una sopravalutazione isterica dello spirito di disciplina.  Questo suicidio indica sempre che la società in cui avviene ha una forte regolazione sociale.       Oggi le motivazioni per questo suicidio sono per lo più di natura economica o, in ogni caso, legate a dei fattori riconducibili alla sfera economica. 

È un suicidio che ha sempre attirato l’attenzione degli psichiatri perché è comune tra coloro che soffrono di depressione.   

Il quarto suicidio è il suicidio anomico, (da a-nomos, cioè, senza leggi, qui, la “a” ha una funzione privativa). È il suicidio di chi non vuole stare in balia delle leggi e dei costumi di una società che non accetta, di sottostare alle leggi, alle disposizioni o alle consuetudini che orchestrano quella che i sociologi chiamano la “competizione sociale”. 

Più in generale per Durkheim l’anomia è un fatto molto comune di ogni società in trasformazione che subisce importanti cambiamenti sul piano economico e più generalmente quando esiste uno scarto importante tra le teorie ideologiche e i valori comunemente insegnati nella pratica della vita quotidiana.

In tutti e quattro i casi, come è facile costatare, per Durkheim c’è una compromissione della società nella storia e nelle ragioni dell’individuo che in essa vive e che, in qualche misura, la rende co-responsabile del suo stile di vita e del suo agire, ed è proprio questa co-responsabilità che sollevò le polemiche più feroci contro questo filosofo, perché l’epoca non era ancora disposta, intrisa com’era di individualismi e di egoismi sociali, ad accettare delle responsabilità di questa natura, anche e soprattutto perché non voleva essere coinvolta nella ricerca dei rimedi.      Veniamo, adesso, all’ultimo dei sociologi che sono legati in qualche modo all’infanzia della sociologia e alla corrente positivista, Vilfredo Pareto, un italiano nato a Parigi nel 1848 e morto a Ginevra nel 1923. 

Nei panni dell’economista, Pareto concepiva l’economia come una scienza che ha per oggetto le azioni logiche dell’uomo.

Sono quelle azioni in cui appare che le scelte e i mezzi impiegati sono obiettivamente adeguati al raggiungimento dei fini desiderati.  Per questo eccentrico sociologo l’uomo, anzi, l’homo oeconomicus, è guidato dai fini, cioè, dai sui gusti, dalla sua educazione, dalle sue mete ed agisce quasi sempre entro degli ambiti determinati dai mezzi e dalle disponibilità. 

Partendo da questo modello di tipo meccanicistico dell’equilibrio economico generale, la sua sociologia si proponeva di trovare le condizioni che garantirebbero l’equilibrio del sistema sociale.  Ma siccome, come dovette ammettere, nessun sistema sociale è costituito solo da azioni logiche, Pareto introdusse nelle sue riflessioni anche le cosiddette azioni non-logiche.  

In altri termini, egli arrivò alla conclusione che l’uomo non ha sempre una grande consapevolezza di ciò che fa ed è questo che inceppa il meccanismo di realizzazione dei fini.  Pareto, in sostanza, concluse che in generale le azioni logiche dovrebbero essere soprattutto quelle economiche

Pareto costatò anche che l’individuo sociale, pur agendo in modo non-logico, cosa che lo fa assomigliare – come lui scrive – alla specie animale, rispetto a quest’ultima presenta la caratteristica di accompagnare i propri comportamenti con delle formulazioni verbali la cui funzione è quella di fornire un motivo apparentemente logico del comportamento stesso. 

Compito della sociologia, dunque, è di spiegare quali sono le costanti del comportamento sociale non-logico e quali sono i caratteri e le funzioni del discorso sociale.

Intanto, quali le azioni non-logiche?  Sono le azioni in cui i processi induttivi e deduttivi sono alterati da errori di giudizio.  Questi errori sono in genere individuali, ma possono riguardare ed è molto più grave anche gruppi d’individui o intere classi sociali. 

È facile constatare che questo problema, oggi, si è ingigantito con l’avvento dei sistemi mediali di comunicazione nei quali è riconosciuto un grande potere ai testimoni (in genere personaggi famosi) d’influenzare le masse o, come si dice oggi, l’opinione pubblica e di manovrare i consumi e i consensi politici.    Che cosa c’è di più illogico di comprare una determinata automobile perché ce lo suggerisce un giocatore di calcio o un frigorifero perché ce lo propone una bella attrice in mutandine?   Soprattutto, perché, a mente fredda ridiamo di queste cose e poi, al dunque, ci caschiamo? 

Dall’analisi del pensiero di Pareto si deduce che egli considerasse come uno degli obiettivi principali della sociologia quello di analizzare ed interpretare quelle azioni e quei comportamenti collettivi che appaiono come irrazionali

In questa ottica e con le dovute approssimazioni sono azioni-non logiche quelle che sfuggono allo schema mezzi-fini.    Riassumendo per questo studioso:   La scienza economica ci consente di conoscere il modo in cui operano gli individui in funzione dei fini che si danno. 

La sociologia ci permette di entrare nelle ragioni che impediscono loro di agire o di non raggiungere gli obiettivi che vorrebbero. 

Più semplicemente, la sociologia ci consente di mettere in evidenza i determinismi sociali, che limitano l’autonomia degli individui. 

Per concludere una curiosità. 

Pareto studiando la distribuzione dei redditi rilevò come una costante il fatto che in un dato territorio solo pochi individui possiedono la maggior parte della ricchezza. 

Elaborando questa osservazione e confrontandola con altri fenomeni sociali arrivò a formulare la famosa legge del “80/20”

Possiamo sintetizzarla così, la maggior parte degli effetti è dovuta ad un numero ristretto di cause. È una legge empirica ed è più conosciuta come il principio di Pareto.  In sostanza, in molti campi delle attività umane, l’ottanta per cento dei risultati dipende dal venti per cento delle cause. Nell’economia come nei processi industriali.

Facciamo qualche esempio:

Il venti per cento dei possibili tipi di errori in un processo produttivo genera l’ottanta per cento dei difetti totali.

Oppure, l’ottanta per cento dei reclami di un servizio proviene in genere dal venti per cento dei clienti insoddisfatti.

L’ottanta per cento dei ricavi di una compagnia aerea deriva dal venti per cento delle rotte non in perdita.

L’ottanta per cento delle perdite del servizio sanitario si concentrano in un venti per cento di “aziende sanitarie locali” distribuite sul territorio.

***

Proviamo, adesso, a riassumere alcuni caratteri del discorso sociologico. 

Come tutte le discipline empiriche anche questa disciplina ha della variabili e delle invarianze

Tra le invarianze ricordiamo:  L’interconnessione dei fenomeni sociali, da cui ne deriva la necessità di studiarli come un insieme di realtà correlate.  L’importanza dei dati oggettivi, i soli che possono confluire nell’elaborazione delle teorie e, i soli che contano nei confronti tra le situazioni.  La tendenza, sviluppatasi nella modernità, alla razionalizzazione della vita sociale, che si riflette su una semplificazione pragmatica dei comportamenti sociali.  L’affermarsi del discorso scientifico come  base per lo studio del consenso sociale e dunque, delle forme di evoluzione della socialità. 

Da un punto di vista storiografico, invece, lo sviluppo della sociologia può essere per comodità distinto in quattro grandi fasi: La prima fase va dalla  sua nascita ai primi abbozzi di sistematizzazione del suo discorso specifico, grossomodo dalla fine del ‘700 ad oltre la metà dell’800. 

La seconda fase è caratterizzata dall’emergere degli studi specifici, cioè, da un tentativo di circoscrivere i diversi aspetti di questa disciplina in funzione dei diversi modi di intendere la società nel suo complesso a partire dai fatti.  Questa fase va dalla seconda metà dell’Ottocento al 1930 circa.  (Il libro di Durkheim sul suicidio è un esempio degli studi che caratterizzano questa fase.) 

C’è poi una fase neo-sistematica che va dagli anni ’30, del Novecento, agl’anni ’50 circa.  Sono gl’anni in cui si cercano le fondamenta specifiche della dottrina sociologica. 

Infine c’è la stagione della sociologia critica, inaugurata dalla ricerca sulle teorie del conflitto sociale e successivamente estesa alla riconsiderazione dei suoi fondamenti ottocenteschi che, bene o male, arriva fino ai nostri giorni.  

Per completare questa prima parte che, abbiamo visto, connette la storia della sociologia con le ragioni che l’hanno determinata e con i meccanismi cognitivi che la fanno funzionare, ritorniamo sul tema delle invarianze per vedere più da vicino alcuni autori che se ne sono interessati.  

Queste invarianze furono l’oggetto di discussione di un grande filosofo della politica, un tedesco, un berlinese, come si definiva, ancora oggi molto apprezzato come giurista e studioso di economia politica, oltre che sociologo, Max Weber(1864-1920).   

Per sintetizzare possiamo dire che l’obiettivo scientifico di Weber era di verificare se fosse possibile conciliare il capitalismo (come teoria economica) con la razionalizzazione delle forme sociali

Weber, in beve, sosteneva che molte delle conclusioni che costituisco il corpo del discorso sociologico, non rappresentano delle verità, ma sono il frutto dei caratteri e dei criteri di ricerca che sono stati impiegati per studiare la società. 

Per Weber, in estrema sintesi, le teorie sono le impalcature provvisorie per comprendere e catalogare i fatti. 

Esse costituiscono una sorta di rifugio temporaneo alla conoscenza in attesa di potersi orientare nel caos dei fatti empirici. 

In questi termini si può dire che Weber ha introdotto nelle scienze sociali la discussione sulla forma di teoria

Nei suoi studi, soprattutto quelli del periodo del suo insegnamento ad Heidelberg, egli si fece promotore di una sociologia fondata sulla comprensione della realtà umana più che sulla spiegazione delle sue istituzioni oggettive.    D’accordo con Georg Simmel (1858-1918), un altro sociologo tedesco di estrazione filosofica, Weber in qualche modo difende il carattere relativo della cultura e mette in luce i rischi di una sua  razionalità esacerbata.  Una razionalità che per Weber, tende inevitabilmente a diventare un carattere formale che possiede un suo naturale terreno di diffusione nelle forme della burocrazia, in tutti i loro aspetti, dallo Stato alla famiglia.  La razionalità, per Weber, in determinate condizioni o in particolari momenti storici, può diventare impersonale, statica, ripetitiva e, alla fine, sostanzialmente repressiva rispetto alle esigenze di espressione spontanea o imprevedibili da parte dell’individuo. 

Ma da dove hanno origine queste contraddizioni?  Dal fatto, dice Weber, che nella società moderna spesso i mezzi tendono a subire una metamorfosi, a diventare dei fini.  

Così, quelle che fino ad un momento prima sembravano delle strutture sociali, create per facilitare la vita degli individui, si trasformano, per così dire, in strutture autonome, astratte, autoritarie, diventino delle gabbie dalle quali è spesso difficile liberarsi o non essere oppressi. 

Qui, siamo di fronte ad uno dei grandi temi della sociologia, quello della libertà. 

Non lo tratteremo in modo specifico, diciamo solo che per Weber spesso le competenze tendono a diventare normative e si trasformano in punti di vista vincolanti.  In questo modo gli aspetti soggettivi della vita finiscono per essere preda di quelli oggettivi e le regole generali e formali concorrono a condizionare la routine soggettiva del vivere. 

Veniamo adesso ad un ultimo autore, Talcott Parsons (1902-1979), uno dei sociologi che hanno rinnovato la sociologia americana, nonostante abbia studiato in Europa.  Era nato a Colorado Springs.  Il libro più importante di Parsons s’intitola: The Structure of Social Action, la cui prima edizione risale al 1937.  Il punto di vista di questo autore è di tipo funzionalistico.

La sua teoria, in questo senso, si definisce strutturalfunzionalistica ed egli l’ha elaborò nel tentativo di riuscire a coniugare le scienze sociali con le scienze dell’agire umano, cercando una sintesi tra le idee di Durkheim, Pareto e Weber.   

Il funzionalismo, come indica la parola, è una dottrina delle scienze sociali che fa uso del concetto di funzione. In sostanza predilige la ricerca delle condizioni in cui un determinato fenomeno si manifesta invece di esaurirsi nella ricerca delle sue cause in senso stretto.  

Oppure, in parole più semplici, la ricerca di Parsons privilegia l’analisi delle conseguenze piuttosto che delle cause di un insieme dato di fenomeni empirici.  Per Parsons la ricerca sistematica delle conseguenze va poi distinta anche da un’altra nozione delle scienze sociali, quella di scopo.  Lo scopo, infatti, ha a che fare con le motivazioni coscienti degli attori sociali, mentre l’analisi delle conseguenze tiene conto anche delle motivazioni non-coscienti, non volute o inconsce.      

In breve, La struttura dell’azione sociale di Parsons, parte da un assunto, che il comportamento individuale è il primo gradino di ogni ricerca sociologica, assolutamente necessario per arrivare a comprendere l’ordine sociale. 

Appendice. Fino a quando la sociologia è stata la scienza delle spiegazioni dei fenomeni sociali e il suo oggetto è stato considerato astratto, le ricerche sono rimaste confinate nell’ambito della definizione delle sue metodologie. 

Poi, con l’affermarsi della ricerca empirica e del fatto come il mattone del suo edificio formale. Con il nascere di una certa domanda di risposte “sociali” da parte del mondo del lavoro, dell’imprenditoria o, più semplicemente, del tempo libero, la sociologia cominciò a diversificare e a specializzare i suoi strumenti d’indagine e il suo linguaggio dando vita a numerose “sociologie“. 

Una delle prime sociologie fu quella dell’industrializzazione, il cui tema centrale sono ancora oggi i risvolti sociali della tecnica e delle relazioni umane nei luoghi di lavoro.  Come si può intuire è una sociologia che ha molti punti in comune con la politica e la cultura.   

Accanto a questa sociologia troviamo la sociologia delle classi sociali che si è successivamente evoluta verso i problemi dei consumi, della emulazione sociale e degli stili di vita, come fattore d’imprinting tra le classi. 

Ricordiamo la sociologia del lavoro, che ha avuta grande diffusione soprattutto nei paesi di lingua inglese.   

Complementare a queste due sociologie è la sociologia della famiglia, intesa come una delle istituzioni della società. Per questa sociologia la famiglia è la fabbrica del privato, capace d’influenzare la società nel suo insieme e, di riflesso, di restarne influenzata.  Controllare ideologicamente la famiglia – come sa bene la politica – significa controllare politicamente la società. 

C’è poi la sociologia urbana, con i suoi studi sulla nascita delle metropoli e di molti fattori connessi, socialità, devianza, flussi migratori, eccetera.  Questa sociologia si è di recente evoluta in una sorta di sociologia dei sistemi, per sottolineare il passaggio da una sociologia descrittiva ad una sociologia critica, che studia le forme urbane come se fossero sistemi collegati a sottosistemi, eccetera. 

Altre sociologie, tra di loro connesse da quella che si definisce l’astrazione argomentativa, sono la sociologia delle religioni, la sociologia del diritto, la sociologia delle forme di conoscenza

Sono discipline che sconfinano in continuazione nella morale e nell’etica, sollevando ampi dibattiti, come quello, oggi attuale per via dei flussi migratori, delle conseguenze di certi riti religiosi o legati

Per fare un esempio significativo prendiamo in considerazione la pratica dell’infibulazione e dell’escissione, cioè delle mutilazioni sessuali sulle donne.  Secondo dati recenti di alcuni osservatori internazionali nel mondo circa 150milioni di donne hanno subito una qualche mutilazione sessuale. Queste mutilazioni si praticano ancora in circa 20 paesi africani e 4 asiatici (Yemen, Oman, Indonesia e Malesia).  Si calcola che ogni giorno 6000 ragazze di età compresa tra i sei e i dodici anni subiscono mutilazioni genitali e che in Egitto, per fare un solo caso, l’80 per cento delle ragazze sono infibulate, anche se di recente questa pratica è stata messa fuori legge. Con l’infibulazione e l’escissione – cioè con la rimozione della clitoride – le donne non possono più provare piacere sessuale.  A che scopo si fa tutto questo?  Di fatto non esistono a questo proposito precetti di natura religiosa, l’unico scopo ammesso è di tutelare quella stupida cosa che si chiama l’onore dei padri e dei mariti togliendo alle donne un motivo legittimo per essere libere nelle loro scelte sessuali.    La domanda, di per sé, è semplice:Dobbiamo imporre la nostra morale, così come abbiamo imposto un po’ dappertutto nel mondo i nostri stili di vita o, dobbiamo rispettare le tradizioni locali che molte culture si tramandano da decine di secoli?  E’ giusto o ingiusto mutilare delle bambinette e perché? Se i genitori di queste ragazze vivono in Italia sono liberi di mutilare le loro figlie o devono sottostare alle nostre leggi e alla nostra cultura, che di recente ha deciso di punire questa pratica?  (L’Italia di recente ha detto “no” ed è stata varata una legge che punisce ogni forma di mutilazione sessuale.)  In questo contesto la questione del velo femminile è analoga anche se è infinitamente meno drammatica, ma proprio per questa più subdola sul piano dell’affermazione dei principi sulla libertà della persona.  

Ci sono poi le sociologie minori, del turismo, del tempo libero, dell’abbigliamento e della moda, così come ci sono sociologie nate da pochissimo, come quelle legate all’impatto ambientale delle biotecnologie o al formarsi di nuclei di realtà virtuali.

 

Possiamo fermarci qui, non senza aver ricordato la sociologia economica, quella della ricerca scientifica, la sociologia della comunicazione, alla quale dedicheremo parte di questo corso e, per finire la sociologia dei gruppi, che oggi sta diventando sempre più importante, sia per lo studio del mercato dei beni di largo consumo, sia per lo studio delle mode, delle opinioni, o delle élite, che condizionano le abitudini legate al tempo libero e al loisir

C’è infine un ultimo punto, non certo minore, da considerare prima di lasciare questa sezione sulla nascita di questa disciplina.   Per la sociologia non tutti i problemi reali sono anche problemi veri e viceversa.  Un problema, per un sociologo, è reale se si può tradurre in termini tali da risultare verificabile sperimentalmente. 

Se può essere considerato un fatto…a prescindere dalla sua veridicità

Per esempio, la sociologia può studiare le apparizioni degli UFO tra la gente, a prescindere dalla considerazione che gli oggetti volanti non-identificati siano navi spaziali aliene, esperimenti scientifici segreti o allucinazioni collettive.   Di contro, esistono anche problemi reali che per la sociologia sono insolubili perché non sono traducibili in termini operativi.  Non lo sono perché spesso ci sono delle volontà politiche che non vogliono affrontarli a causa delle conseguenze che potrebbero comportare o, più semplicemente, perché anche la sociologia è stata ed è ancora succube di volontà politiche forti.  Negli stati del Sud degli Stati Uniti, prima della guerra di secessione, i neri o, meglio i “negri” venivano quasi sempre tenuti alla catena mentre lavoravano nelle piantagioni di cotone.  Perché?  Perché alcuni cattedratici di alcune università del Sud avevano riscontrato in questi neri una propensione alla fuga dal lavoro e dalla fatica.  In altri termini, a differenza dei bianchi, non amavamo lavorare, non avevano principi morali ed erano portati all’ozio, ai vizi, al bere e al fare l’amore. 

[Fine parte 2 di 8]

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IED – Materiali del corso I (2011-12)

[Parte 1 di 8]

Parte prima:

Fondamenti di Sociologia e di Sociologia della comunicazione. EXCERPT

Sapientia prima est stultitia caruisse. Orazio.

Obiettivi formativi.

La sociologia, come scienza dei fenomeni sociali, costituisce uno dei più efficaci paradigmi per la comprensione della complessità e delle antinomie che caratterizzano il mondo moderno. In questa prospettiva si pone come uno degli strumenti più validi per conoscere il modo di formarsi della cultura, dei valori etici e sociali, degli stili di vita e dei nuovi mutamenti collettivi, come sono, oggi, la globalizzazione dei mercati e delle risorse, l’affermarsi delle società multietniche, l’incidenza dei mass-media sulle mode, i costumi e le abitudini.

L’obiettivo principale del corso è dunque quello di illustrare le dinamiche che conciliano e spiegano il vissuto, le passioni e le azioni, il fare degli uomini, con la cultura dei segni e dell’immaginario che domina la modernità e le sue rappresentazioni. Di favorire l’acquisizione delle metodologie per decifrare i significati del reale dietro le apparenze e i simulacri che lo appannano ed essere capaci di governarli.

Particolare rilievo, in quest’ottica, sarà dato alla comunicazione e alla sua storia, dai primi rudimenti verbali al computer e alle sue pratiche di rete. Al progressivo sforzo dell’uomo di abbattere i limiti tecnici e pratici che si frappongono alla circolazione dei saperi e delle conoscenze. Tutto questo considerato che siamo, di fatto, entrati in un’epoca nuova, in cui le forme culturali in qualunque modo espresse – immagini, suoni, testi – sempre meno dipendono dal loro corpo materiale e sempre più problematico appare il loro ciclo immateriale di produzione, circolazione, fruizione e riproduzione.

Nel corso delle lezioni saranno, di volta in volta, suggeriti allo studente i riferimenti bibliografici e gli strumenti necessari a sviluppare i molti e specifici argomenti della materia, tenendo costantemente conto dei loro interessi culturali e professionali.

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Parte seconda:

Sociologia generale e della comunicazione visuale. (omissis)

Testi di riferimento:

Anthony Giddens, Fondamenti di sociologia, 2006.

Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, 2008.

Jérome Bordon, Introduzione ai media, 2001.

Hal Foster, Il ritorno del reale, 2006.

(a cura di) A. Caoci e F. Lai, Gli “oggetti culturali”,2007.

(I testi di riferimento sono pubblicati nelle principali lingue europee.)

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Sociologia generale e dei processi culturali. (omissis)

Testi di riferimento:

Anthony Giddens, Fondamenti di sociologia, 2006.

Cornelius Castoriadis, L’enigma del soggetto. L’immaginario e le istituzioni, 1998.

Émile Durkheim, Le regole del metodo sociologico, 2008.

Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, 2008.

Hal Foster, Il ritorno del reale, 2006.

(I testi di riferimento sono pubblicati nelle principali lingue europee.)

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N.B.:Quello che segue è un EXCERPT della parte generale costituito da un documento a circolazione interna, ad uso scolastico, non redazionato.

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TOMO PRIMO.

Prologo.

La sociologia, oggi, è comunemente definita una scienza per l’interpretazione dei fenomeni sociali.

Nel linguaggio corrente il termine di sociale e di società (a cui la sociologia fa riferimento) hanno più di un significato.

Per esempio, è sociale tutto quello che costituisce un problema che coinvolge un individuo o una collettività. Per fare qualche esempio, la povertà, la droga, il bullismo, le migrazioni, le pandemie, le conseguenze dei disastri ambientali e climatici.

L’idea di società è più complessa, rinvia sia alle contrapposizioni funzionali che si formano nel corso del tempo, soprattutto tra le libertà individuali messe a confronto con le limitazioni che derivano dalla convivenza collettiva, che all’insieme concreto delle persone che formano le nazioni, i popoli, le etnie.

La sociologia oggi è indirizzata soprattutto ad analizzare ciò che è critico o che produce crisi, come sono i nuovi fenomeni di migrazione, le nuove forme dell’immateriale, le crisi dei valori morali, i rapidi mutamenti degli stili di vita così come di ciò che è funzionale al vivere collettivo, ma è in continua trasformazione, come il lavoro, le abitudini legate ai costumi, le forme di comunicazione e le reti.

In breve, studia i caratteri che formano l’individuo come studia le nuove forme di collettività che non sono più limitate all’antico paradigma dello Stato-Nazione. Studia le storie individuali come studia la vita dei gruppi. In questo modo appare come un punto di vista privilegiato sulla realtà umana e come una ricerca sull’uomo in quanto individuo che vive in gruppo.

In questo senso, sempre a grandi linee, l’oggetto della moderna sociologia bascula tra i sistemi d’interazione e i modelli di comportamento degli uomini in società.

Più precisamente la sociologia si occupa della società come un prodotto umano e dell’uomo come un prodotto sociale.

Per capitoli potremmo dire che essa studia:

– il divenire della società.

– le relazioni e le correlazioni tra i fenomeni sociali.

– i rapporti tra le varie componenti che costituiscono i sistemi sociali.

– le interdipendenze tra i valori, i significati e i simboli che formano la cultura.

– i fattori e le modalità dell’azione sociale.

– il linguaggio condiviso che consente la costruzione di un senso e che orienta i comportamenti.

– la costituzione e il funzionamento dell’organizzazione sociale e delle forze che in qualche modo la determinano.

Questa disciplina, poi, ha una peculiarità che deriva da essa stessa:

– sia perché gli uomini conservano sempre il loro libero arbitrio è quindi possono agire in qualunque momento anche contro la società.

– sia perché la società è un’entità notevolmente più complessa, articolata e dinamica delle parti che compongono il campo di studi delle scienze dell’uomo.

– sia perché chi la studia – il sociologo – fa parte di ciò che studia, dunque, non potrà mai essere obiettivo e sarebbe vano cercare di esserlo.

Tutto ciò senza sottovalutare il fatto che ci sono tanti modi di parlare della sociologia e della sua storia quante sono le teorie sulla quale essa si fonda e, per di più, ogni epoca tende ad elaborare in continuazione le rappresentazioni che meglio la rappresentano.

A grandi linee, nella stagione del positivismo, quando nasce, la sociologia si forma per accumulo di conoscenze oggettive. La sua storia corre parallela a quella dell’idea di progresso.

Segue una stagione in cui la sociologia si espande in tutte le direzioni della storia dell’uomo.

C’è chi, con un’espressione colorita, l’ha definita la stagione del “campo fiorito”. Ogni fiore è un argomento e da ogni argomento scaturiscono scuole e modelli di ricerca nei quali si accumula un’immensa riserva d’idee per l’interpretazione del mondo.

Verso la metà del Novecento, dopo la seconda guerra mondiale, nella sociologia si cominciano a ideare delle sintesi strutturali.

In altri termini, le scienze sociali di questo periodo definiscono il proprio paradigma sul quale far convergere la tradizione e la ricerca.

Qui, paradigma sta per modello epistemologico condiviso in un dato momento che la ricerca può accettare o mettere in discussione e che finisce per trasformarsi nel corso deltempo. Un esempio lo spiega bene. In astronomia il paradigma tolemaico fu per secoli accettato dagli scienziati, ma poi – mostratosi falso e inadeguato – fu rimpiazzato da quello copernichiano che consentì a questa scienza di continuare a svilupparsi.

Seguì una stagione in cui si riscoprirono e si riconsiderarono le preoccupazioni e gli interrogativi etici e morali dei grandi padri fondatori di questa scienza. Sono gli anni che vanno tra il 1960 e il 1980 circa.

Oggi siamo in una fase che si definisce contestualistica.

Vale a dire le teorie sociologiche sono trattate come se fossero degli strumenti ideologici per comprendere e adattare ai bisogni di un’epoca in rapida trasformazione.

In chiave politica è come se le diverse sociologie, in cui si divide lo studio della società, siano diventate dei mezzi con i quali si legittima l’ordine sociale, sia esso improntato alla conservazione, sia esso di natura progressista o innovatrice.

Parte prima. 

Per cominciare conviene, prima di tutto, definire il campo “fattuale” della disciplina che studieremo.  In pratica, significa rispondere ad alcune domande.  Che cos’è la sociologia?  Come possiamo definirla?  Quando è nata?   Che cosa ne ha determinato la nascita e quali sono i suoi obiettivi?  Come questi si trasformano nel tempo.

In astratto la sociologia è la scienza che studia con i propri metodi e strumenti d’indagine i fondamenti, i fenomeni, i processi di strutturazione e destrutturazione, le manifestazioni della vita associata e le loro trasformazioni.  Per questo essa è anche definita, come abbiamo visto, la scienza dei fenomeni sociali

Per le scienze sociali un fenomeno sociale è caratterizzato dalla proprietà di esistere al di fuori delle coscienze individuali.

In questo modo gli individui se li trovano di fronte come realtà che preesistono loro e che sono indifferenti alla loro presenza a meno che questi individui non siamo in grado di mettere in campo degl’altri fenomeni sociali a questi antagonisti.  In secondo luogo, i fenomeni sociali sono  anche dotati di un potere imperativo e coercitivo in forza del quale s’impongono agli individui con o senza il loro consenso.  

La parola sociologia fu coniata nel 1824 dal filosofo francese Auguste Comte (1798-1857) che, nel suo Corso di filosofia positiva, pubblicato nel 1839, la impiegò al posto di un’espressione allora più popolare, fisica sociale. 

Un’espressione divenuta d’uso corrente a partire dalla seconda metà del ‘700 per definire lo studio positivo dell’insieme delle leggi fondamentali proprie dei fenomeni sociali

Questa idea di una fisica sociale, come strumento per studiare gli uomini, può oggi apparire bizzarra, ma nella seconda metà del Settecento serviva a rivoluzionare un certo modo di vedere il mondo, a mettere in discussione le sue fragili certezze centenarie, a seminare il dubbio là dove gli antichi saperi costituiti avevano i loro acritici capisaldi, costruiti sulla sabbia dei luoghi comuni.      

Apriamo, ora, una piccola parentesi su cosa dobbiamo intendere per positivismo.     Il termine fu usato per la prima volta da  Claude Henri conte di SaintSimon (1760-1825) del quale, tra l’altro, Comte fu un collaboratore, per definire un metodo esatto, dal punto di vista scientifico, con il quale fosse possibile affrontare in modo razionale i grandi temi con i quali la società e gli uomini devono in continuazione misurarsi. 

L’idea di partenza, invece, affonda nelle tesi dei filosofi illuministi, in particolare di Jean-Baptiste d’Alambert (1717-1783) e Jacques Turgot (1727-1781).  

In seguito questo termine fu ripreso da Comte e divenne una vera e propria corrente di pensiero che, a partire dalla metà dell’Ottocento, si diffuse dappertutto in Europa. 

Il problema non era tanto quello di sottrarre alla filosofia alcune sue competenze, quanto quello di orientare le ricerche sulla società dando loro come punto di partenza la sua natura empirica, fondarle sui dati concreti della vita vissuta. 

Alla filosofia si rimproverava di non sapersi muovere oltre la semplice proclamazione dei principi fondativi di una società giusta.  Di riflettere sull’ordine sociale lasciandolo, però, nella sua astrattezza di principio, senza metterne in discussione i contenuti e il senso.  

    

Da un punto di vista storico, possiamo dire che il positivismo contribuì ad affermare il principio di una organizzazione scientifica della società (soprattutto di quelle industriali, vale a dire delle più progredite sulla strada del progresso) dando così un senso ad un grandissimo fenomeno, sociale, politico ed economico: la tecnica, intesa come una scienza dei mezzi, che si materializza nella tecnologia e da vita alla civiltà industriale.  

Nel suo corso di filosofia positiva Comte, con un certo entusiasmo, sosteneva che lo spirito umano nel corso del tempo storico si è evoluto attraverso tre stadi. – Lo stadio teologico nel quale i fenomeni venivano spiegati attraverso il ricorso a entità soprannaturali.  – Lo stadio metafisico o astratto che studiava i fenomeni attraverso il ricorso ad astrazioni filosofiche.  – Lo stadio scientifico o positivo nel quale la ricerca delle cause ultime è abbandonata in favore dell’indagine sulle leggi, cioè sulle relazioni invariabili di successione e di rassomiglianza che connettono i fenomeni tra di loro. 

Comte, dunque, coniò il termine di sociologia per designare la scienza che avrebbe dovuto sintetizzare tutte le conoscenze positive, svelare il mistero degli aspetti statici e di quelli dinamici della società e guidare alla formulazione di una politica positiva.    In complesso le tesi fondamentali del positivismo si possono sintetizzare così:  Primo. 

La scienza è l’unica forma di conoscenza reale (dunque, possibile) del mondo. In altri termini, solo i principi scientifici e le cause analizzabili con il metodo delle scienze danno origine alla conoscenza

Secondo. 

Il metodo scientifico, di per sé, è di natura descrittiva, delinea i fatti e mostra i rapporti che intercorrono tra di essi.  Esso per essere efficace deve essere capace di spiegare la genesi evolutiva dei fatti complessi a partire da quelli semplici. 

Terzo. 

Il metodo scientifico può essere esteso a tutti i campi dell’attività degli uomini perché è l’unico che ha in sé i fondamenti della ragionevolezza e funziona come una guida per lo studio dell’evoluzione della società. 

Di fatto, oltre che nel discorso delle scienze dell’uomo, il paradigma del positivismo, nel corso dell’Ottocento, penetrò nella medicina, nella politica, nella giurisprudenza, nell’insegnamento, nell’economia, nella filosofia e in molte altre discipline ancora.     Dunque, la parola sociologia rimanda ad un discorso sull’individuo come membro della società, cioè, ad una disciplina che studia il fondamento dei rapporti intersoggettivi (cioè, tra soggetti) come se fossero una scienza

Torniamo, ora, alla parola sociologia. 

Vediamone l’etimo. Esso è composto da due parole, una latina, socius (alleato) che sta ad indicare l’individuo in quanto membro della società, ed una di origine greca, logos, che qui sta a significare “un discorso su…(qualcosa)”  Dunque, l’espressione di sociologia rimanda ad un discorso sull’individuo come membro della società, cioè, ad una disciplina che studia il fondamento dei rapporti intersoggettivi (tra soggetti) come se fossero una scienza

A grandi linee sulla scia delle teorie di Auguste Comte troviamo Herbert Spencer (1820-1903), un filosofo inglese, di orientamento positivista, con grandi interessi per la psicologia. È considerato il padre della filosofia evoluzionistica ed è l’autore di un trattato di sociologia in cui, per la prima volta, le teorie di Charles Darwin sull’evoluzione sono applicato alle scienze sociali. 

Notiamo, per curiosità che l’interesse di Spencer verso l’evoluzionismo nasceva da un sentimento antiautoritario, antidogmatico e antiaccademico che gli derivava dalla sua educazione. 

Oggi diremmo che era un liberale e un libertario con un solo grande interesse: elaborare una teoria generale del progresso umano. 

L’evoluzionismo, infatti, ebbe il merito di focalizzare l’attenzione sullo stretto legame tra passato, presente e futuro, facendo del passato non una storia morta, ma il materiale vivente, o con un’immagine suggestiva, il materiale geologico con cui l’uomo studia il suo presente, cerca d’immaginare il suo avvenire e gli dà un senso. 

In questo contesto dobbiamo ricordare anche John Stuart Mills (1806-1873).

Mill è stato un filosofo ed un economista inglese, studioso di un particolare aspetto delle forme economiche, quelle espresse dall’utilitarismo che determinano i modelli delle scelte individuali.       Di per sé le tesi sull’utilitarismo sono antiche, si possono far risalire addirittura ad Epicuro, vale a dire, al 300 circa prima dell’era comune.    L’utilitarismo elaborato da Mills tende a legare il bene con l’utile e a trasformare l’etica e le forme della morale, in una scienza della condotta umana. 

Mills in Inghilterra è ricordato con simpatia soprattutto dal femminismo perché fu uno strenuo partigiano del diritto delle donne al voto. 

L’utilitarismo inglese ha un altro importante padre nobile in Jeremy Bentham (1748-1832).  Bentham è un filosofo riformatore fautore di un piano organico di riforme sociali eque per tutti.  Bentham è in genere conosciuto come il filosofo della felicità, avendo posto questo sentimento a guida e a motore dell’azione degli uomini.  Le sue tesi possono essere riassunte in questo principio: Il dovere dei legislatori, dunque dei parlamenti e dei governi, è quello di assicurare il massimo della felicità possibile al maggior numero possibile di individui. 

Una curiosità Bentham conosceva molte lingue e fu lui a tradurre in inglese il saggio di Cesare Beccaria (o, meglio di Cesare Bonesana marchese di Beccaria 1738-1794) Dei delitti e delle pene, 1763.

Tornando a Mills.  Per lui la sola conoscenza possibile è quella empirica ed è il metodo della logica che deve guidarla.

Un metodo per creare inferenze (cioè, per arrivare a determinate conclusioni) fondato sull’induzione e la deduzione e, in sub-ordine, sull’abduzione (che è una sorte di sillogismo debole, come lo si definisce oggi in logica) in pratica, un metodo improntato ad un mero realismo metodologico.    Mills, a questo proposito, è anche l’autore di un libro intitolato, Sistema della logica deduttiva e induttiva, uscito a Londra nel 1843.   

Induzione.  In filosofia si definisce induzione l’argomentare dal particolare al generale, più in generale, il risalire dalla conoscenza dei fatti alla conoscenza delle leggi che li regolano.  Questo processo, nel linguaggio comune, si chiama “congettura”.  Possiamo aggiungere che, quando la congettura diventa particolarmente barocca e tende al delirio o si nutre di elementi soltanto immaginati, prende in psichiatria un altro nome, quello di paranoia.  (La gelosia, per esempio, come la paura sono due grandi stimoli alla costruzione dei processi paranoici.)      

Deduzione.  La deduzione, invece, è il contrario dell’induzione.  Vale a dire è il processo logico con il quale si procede dal generale al particolare.

Induzione, deduzione ed abduzione costituiscono nella pratica scientifica tre degli strumenti più importanti del ragionamento scientifico e, in qualche misura, dialettico Possiamo definire l’abduzione anche come una sorta di deduzione probabilistica. 

Il suo concetto è stato elaborato dal filosofo americano Charles Sanders Peirce (1839-1914).     

Riprendiamo il nostro discorso da un altro punto di vista.

Nelle società primitive o tribali non esisteva il problema di dover conoscere e riflettere sui fondamenti dell’ordine sociale.  I rapporti sociali all’interno di queste società erano basati sui vincoli di sangue, di latte, di parentela e su credenze di natura magica o sacra.  

Erano società semplici, con strutture organizzative elementari, poco dinamiche, con scambi e contatti ridotti con le realtà sociali esterne ad esse, spesso conflittuali. 

La semplicità di cui parliamo è di tipo tecnico-organizzativo, questo non toglie che fossero culture ricche di contenuti immaginari e complesse nell’elaborazione dei contenuti simbolici.

Ad un certo punto, con la crescita demografica (che si ebbe grazie alla diffusione delle culture cerealicole cominciata in quella regione che oggi viene definita della “mezzaluna fertile”, che corrisponde grossomodo al Medio-Oriente) e, di riflesso, della complessità sociale, con il diffondersi dei commerci e dei trasporti, le strutture di tipo ancestrale cominciano ad entrare in crisi e a collassare.  Questo collasso gli storici lo fanno risalire, per quanto riguarda l’area del Mediterraneo, al settimo/sesto secolo prima dell’era comune, a partire dalla Grecia, che allora esprimeva  il modello di società più evoluta. 

Sono gli anni che vedono nascere la forma della città-stato, delle polis.  Città che, sia pure in modo embrionale, hanno inventato e sviluppato al loro interno delle configurazioni sociali diverse, in continuo movimento e spesso concorrenti tra di loro. 

Da un punto di vista funzionale, in queste città-stato l’organizzazione comunitaria cominciò a formarsi principalmente intorno ai due temi contrapposti della solidarietà sociale e dell’interesse economicoLa considerazione più importante è che queste micro-società tesero a diventare dinamiche, mirarono, cioè, ad un costante mutamento. 

Le società primitive erano società statiche, lente, fondate su valori considerati divini, che si ritenevano eterni e indiscutibili.   La città-stato greca, invece, è estremamente articolata, fluida e in qualche misura laica.    Dalla polis è poi derivata la politikà, la scienza degli affari pubblici, la politica, che qui possiamo definire come l’insieme dei problemi che riguardano la polis dal punto di vista dell’esercizio del potere nel quadro della forma di Stato.    Problemi che, nella sostanza, erano il riflesso di due preoccupazioni principali.    Uno. Ricercare nuove forme di legittimazione, di delega e di controllo per coloro che dovevano guidare la polis, in pratica, esercitarne il governo

È il tema della rappresentanza come lo chiamiamo oggi che crediamo di aver risolto con la forma della democrazia parlamentare. Due. Trovare e definire quelle regole che, se osservate da tutti, garantiscono la pace sociale e fanno prosperare il cosiddetto bene comune.   

Ricordiamo, a questo proposito, due grandi opere di filosofia politica di quel tempo, La Repubblica di Platone (427-347 prima dell’era comune ) e la Politica di Aristotele (384-322 prima dell’era comune).   

Va notato come questo antico pensiero politico veniva sviluppato soprattutto per via deduttiva, ovvero, come abbiamo visto, partiva da concezioni razionali astratte, di tipo divino e/o metafisico, dalle quali erano poi dedotti i principi che fissavano i criteri del buon governo.   

In altri termini, possiamo affermare che a partire dal pensiero politico dell’antica Grecia, tra alti e bassi, comincia a farsi strada il criterio della razionalità, criterio che, con il crescere delle società antiche, finisce con l’emarginare sempre di più le concezioni di carattere idealistico.    

Per riassumere, è dallo sviluppo di queste considerazioni che, sostanzialmente, nasce la teoria contrattualistica della società.  Ne fu uno degli artefici principali un filosofo inglese, Thomas Hobbes (1588-1679).  Il punto di partenza di questa teoria è che il mondo dell’agire umano è retto da leggi analoghe a quelle dell’ordine naturale.  In questo modo si può arrivare a sviluppare una scienza della società umana che ha la stessa oggettività della geometria o della fisica, anche se questo modo di procedere implica una concezione meccanicista della realtà e, di riflesso, il convincimento che la società e il potere politico non sono affatto naturali per l’uomo, ma costituiscono una convenzione (un compromesso) per mettere fine allo stato d’insicurezza permanente che caratterizza lo stato di natura. 

Oggi è una teoria che può apparire ingenua, allora rifletteva abbastanza fedelmente il pensiero laico del Seicento, soprattutto quello inglese. 

Per Hobbes, dunque, le origini della società erano fondate su un patto, su di una specie di contratto liberamente espresso e, attraverso la rappresentanza politica, sottoscritto dai cittadini i quali, per sottrarsi al disordine dello stato di natura come stato a-sociale, caratterizzato dalla lotta di tutti contro tutti (homo hominis lupus), avrebbero convenuto (come male minore) di sottoporsi al governo di un sovrano assoluto.  Di fatto, è una teoria che non va sottovalutata, soprattutto per le implicazioni che ebbe nel suo tempo.  Vediamo le due principali.  Pensata in questo modo la società diventa un prodotto storico, un prodotto convenzionale privo di una sua necessità ontologica o di un destino, cioè, di “un dover essere così”…per esempio, per volere di Dio o di un ente superiore.   

Come sosterranno le correnti illuministiche settecentesche, se la società scaturisce da un patto tra gli uomini, questo patto si può anche rivedere e, magari, riformulare completamente.  Nulla esclude, poi, che la revisione di questo patto possa avvenire – se chi detiene il potere non è disposto a cederlo – anche con una rivoluzione, come sogneranno molti uomini dell’Ottocento europeo e tutti i movimenti riformatori d’ispirazione socialista. 

Il passaggio dal Seicento al Settecento delle teorie sulla società segna anche quello del passaggio dal modello matematico-deduttivo di Hobbes, che derivava dai principi universali le forme delle sue applicazioni pratiche, al metodo dialettico-induttivo, che invece parte dall’osservazione dei fenomeni particolari per arrivare a determinare le leggi universali e i principi che sono loro sottese.  

Ricordiamo, tra coloro che promossero questo progresso delle idee, il filosofo scozzese David Hume (1711-1776) e soprattutto CharlesLouis de Secondat, conte di Montesquieu (1689-1755), filosofo, giurista e saggista.

Il Settecento, poi, fu il secolo dell’Illuminismo e degli Enciclopedisti francesi che raccolsero l’eredità dell’empirismo inglese.

L’Illuminismo è un movimento di idee caratterizzato dalla convinzione di poter risolvere tutti problemi della società con i soli lumi della ragione e a dispetto di ogni rivelazione religiosa o di ogni tradizione.

È il secolo di Diderot, D’Alambert, Rousseau, Helvétius, Voltaire e dei primi filosofi materialisti tra i quali spicca la figura di Paul-Henry barone d’Holbach.

Per semplificare, diciamo che gli illuministi rimproveravano ai filosofi che li avevano preceduti di non aver considerato con la dovuta importanza i fenomeni “fattuali“, ma di essersi inutilmente infatuati delle teorie astratte.

Ciò implica che, per gl’illuministi, e questo rappresenta una grossa novità metodologica, la spiegazione razionale non viene mai prima dell’osservazione, come se fosse una dote innata dell’individuo, ma è indissolubilmente legata al mondo dei fenomeni dei quali costituisce il nesso.

***

Proviamo adesso, ad intrecciare la domanda relativa a quando è nata la sociologia con quella che s’interroga sulle ragioni della sua comparsa

In altri termini è essenziale capire, prima di procedere oltre, perché, la sociologia e, in generale, tutte le scienze sociali hanno avuto la loro culla nel corso dell’Ottocento.    Capire perché scienze come la psicologia, la psicanalisi, l’antropologia, l’etnologia, la pedagogia, la psichiatria, la criminologia, la biologia, eccetera, ognuna nel suo specifico campo di studi, erediti, sia in misura diversa, il patrimonio della filosofia classica e in un certo modo, i suoi progetti. 

Tutte queste discipline rappresentano il tentativo di reagire ad una crisi di portata epocale, la crisi della metafisica, cioè, di quel discorso sulle cose del mondo che si pongono oltre la fisica, dunque oltre gli aspetti materiali della mondanità e che apparentemente la sostengono.    La parola metafisica è di origine greca, indica, alla lettera, l’azione di pensiero che oltrepassa gli aspetti fisici del mondo: meta ta phusika, dopo la fisica.  

Nello specifico è un’espressione che si fa risalire ad un grande filosofo greco o, più correttamente, macedone, Aristotele (384-322 a.c.).

Con essa si indicano i suoi studi sulle cause prime e i principi che governano tutte le cose.   Meglio, raccoglie quegli studi che non si possono classificare né come logica, né come fisica, né come etica, i tre rami canonici che compongono la sapienza greca. 

Poiché questo non è un corso di storia della filosofia, limitiamoci ad osservare che la crisi della metafisica corrisponde nella modernità ad un’altra grande crisi, la crisi della conoscenza

La crisi di un modello di pensiero che si credeva oggettivo, che aveva preteso di studiare le cause che muovono il mondo e che s’illudeva di essere al di sopra delle opinioni e delle credenze, così come, al di sopra delle osservazioni dell’esperienza pratica e sperimentale.    Questa crisi della conoscenza corre parallela alla nascita dell’idea di modernità che, per convenzione, la maggior parte degli storici fa risalire alla Rivoluzione francese, vale a dire al 1789

Il termine modernità appare per la prima volta in un testo di Honoré de Balzac (1799-1850) per indicare la presa di coscienza della singolarità dell’epoca, in materia letteraria ed artistica, in rapporto al passato. Per estensione è diventata il carattere proprio di un mondo, una società, un’epoca che sa che il passato non rinvia più a nulla.   Certi storici fanno risalire la modernità, come coscienza di un cambiamento irreversibile delle cose, al Rinascimento, altri al XVII secolo, cioè all’Illuminismo, altri ancora alla rivoluzione industriale del XIX secolo.  La data del 1789, quella della Rivoluzione Francese, è quella più accettata e, in qualche modo, la più suggestiva. 

 Di fatto, la crisi della conoscenza classica si colloca tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, gli anni in cui si conclude anche la parabola dell’Illuminismo, che aveva mostrato come il mondo che abitiamo fosse più complesso di quello che sembrava e ancora per buona parte inspiegabile.  Una inspiegabilità che metteva in luce, di riflesso, come, con il proseguire della conoscenza sperimentale, tutte le idee semplici ed astratte e tutte le invocazioni della fede religiosa non servissero più a nulla.  Questa crisi, che parte dal dissolversi del pensiero della metafisica, può anche essere interpretata come una crisi dell’umanesimo, delle sue speranze e delle sue utopie, e un grande impulso a ritornare ai fatti e alle loro logiche.               In altre parole, con la Rivoluzione francese l’antico affresco del mondo, che era stato dipinto a cominciare dalla filosofia greca, va in pezzi dando vita a tutta una serie di tentativi per uscirne fuori. 

Generalmente si chiamano conservatori o reazionari gli sforzi impiegati a ricomporlo e progressisti o rivoluzionari quelli impiegati per trovare dei nuovi e più avanzati equilibri.   

Come abbiamo sommariamente visto, il positivismo e con esso l’empirismo logico o scientifico, lo storicismo, e il materialismo dialettico sono alcune delle correnti di pensiero che si formarono in questo periodo. 

Pur con accenti diversi, in queste teorie la crisi della filosofia classica, e della metafisica in particolare, associata al progredire del pensiero scientifico, indusse molto presto all’affermarsi generale di una conoscenza fondata sui principi della razionalità invece che sui meccanismi della speculazione astratta.  

Ma, c’è un fatto nuovo, decisivo per il mondo Occidentale, l’avanzare prepotente in tutti i campi della vita corrente, dagli affari alla politica, dalla morale al governo delle nazioni, di una nuova classe sociale, quella che aveva vinto la Rivoluzione francese e che adesso esigeva che le venissero riconosciuti quei diritti per i quali aveva preso le armi: la borghesia.   

Bourgeois o Bürger, dal latino burgensis, erano detti nell’alto medioevo coloro che abitavano nei borghi anziché nel castello o nel contado.  In genere svolgevano mestieri liberi anziché funzioni politiche, militari o religiose, oppure mansioni servili al servizio del castello.  In questo modo per attività, luogo di abitazione e status, si differenziavano sia dai nobili che dal clero, per un lato, dai contadini e dai servi per l’altro. 

Il 14 luglio 1789 la borghesia in armi e il popolo di Parigi assaltano la Bastiglia, ma nel suo diario Luigi XVI, quello stesso giorno scrive una sola parola: Rien. 

Dunque, siccome le idee non cascano dal cielo, ma si formano e si sviluppano tra gli uomini, una tale rottura epocale che da vita alla modernità e a tutte queste trasformazioni è soprattutto l’effetto di questa nuova classe in ascesa.   

La sociologia, dunque, come scienza della società, non poteva nascere in un altro momento Essa era funzionale ad un nuovo modo di vedere il mondo, rispondeva alle aspettative di una classe sociale alla ricerca della sua identità, tanto che questa nuova disciplina non solo ne esprimeva i suoi punti di vista, ma la rafforzava nella sua consapevolezza e nelle sue determinazioni

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Pubblicato in Il Corso | Commenti disabilitati su IED – Materiali del corso I (2011-12)

Un cappellificio a forma di… cappello, ed una torre che è… quel che sembra! – IED Design – Esercitazione 10 – 2010-11

D – IED, Milano. Anno accademico 2010-2011

Cattedra di sociologia.

Esercitazione numero dieci.

Giovedì 26 maggio 2011

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Un cappellificio a forma di…cappello, ed una torre che è… quel che sembra!

La Hut Fabrik (il Cappellificio Steinberg) a Luckenwalde (°) e la Einsteinturm a Potsdam

di Erich Mendelsohn.

Dobbiamo essere con consapevolezza architetti immaginari”, scriveva Bruno Taut nel 1919. L’anno appresso fondò una rivista di architettura che chiamerà Frühlicht, l’alba, è una delle palestre dell’espressionismo. Nell’aprile del 1919 Walter Gropius è nominato direttore del Bauhaus.

In questa manciata di anni che seguono la fine della prima guerra mondiale a Mosca trionfa la rivoluzione leninista, in America si processano Sacco e Vanzetti, Mussolini marcia su Roma. Nelle arti l’asciutto realismo dei pittori della Neue Sachlichkeit si stempera nelle passioni e nelle ombre dell’espressionismo che sogna cattedrali di cristallo. La biografia di Henry Ford celebra la produzione industriale, è tradotta in tedesco e solleva un certo entusiasmo: la “catena di montaggio” diventa un paradigma della “volontà di potenza”. Vladimir Tatlin progetta il “Monumento alla Terza Internazionale”, Naum Gabo, che soffre di miopia, l’accusa di essere una copia della Torre di Eiffel. La poetica formalista proposta da Vasilij Kandinskij è bocciata dall’Inkhuk di Mosca. Si gettano le fondamenta della grande Exposition di Parigi. A Los Angeles nel 1922 si costruisce una nuova casa ogni ventisei minuti. Kurt Schwitters prosegue la costruzione della Merzbau, è un work in progress.

Intanto, a Parigi dominano le idee enigmatiche di Dada e si prepara il secondo avvento, si chiamerà surrealismo. Chi va a Tokyo dorme all’Imperial Hotel di Frank Lloyd Wright. Mezzo secolo dopo diranno che è la sua opera più bella. Mies van der Rohe, sogna ancora la poesia congelata e veste gli edifici di cristalli, un omaggio al narcisismo che passa per Paul Scheerbart e gli amici della Gläserne Kette. Siamo lontani dalla stazione tra la neve di Helsinki disegnata da Eliel Sarinen, così come dal cupo e pretenzioso neo-goticismo del Chicago Tribune di Jood e Howells.

Ulisse di James Joyce è del 1922. Psicologia delle masse ed analisi dell’Io, di Sigmund Freud del 1921. Nel 1921 è completato il “quarto” volume della Recherche di Marcel Proust, s’intitola Sodoma e Gomorra. Nel 1919 erano usciti Mont de piété di André Breton e Allegria di naufraghi di Giuseppe Ungaretti. L’anno dopo Filippo Tommaso Marinetti pubblica due lavori, Elettricità sessuale e Al di là del comunismo.

Peccato per l’architettura, Antonio Sant’Elia era morto a Quota 77, vicino Monfalcone nel 1916, in quella che lo stesso pontefice definì “un’inutile strage”.

Eric Mendelsohn, nato il primo giorno di primavera del 1887, nella Prussia Orientale, e morto a San Francisco nel 1953, è uno dei più importanti esponenti dell’architettura espressionista tedesca, amico e sodale degli artisti del “Blaue Reiter” e di “Die Brücke”, fondatore con Mies van der Rohe e Gropius del gruppo noto come Der Ring. Tra le sue opere più importanti ricordiamo la fabbrica “Bandiera Rossa” a San Pietroburgo e il De Warr Pavilion a Bexhill on Sea nell’East Sussex.

La sua popolarità, però, è legata ad altri due edifici in cui ironia e funzionalismo, plasticità e dinamismo sono l’impronta delle sue idee sul “progettare”. Entrambi sono stati realizzati nello stesso periodo, sono la “Torre Einstein” a Potsdam e una “Fabbrica di cappelli” a Luckenwalde. Il primo edificio, voluto su iniziativa di Herbert Freundlich per verificare la teoria della relatività, celebra piuttosto “la materia sessuale di massa” di Wilhelm Reich. Il secondo è un omaggio all’arguzia. Mette insieme “quel essere matti come un cappellaio”, come recita un proverbio inglese, che Lewis Carroll trasformerà in uno dei protagonisti delle avventure di Alice, con la nascita della reclame, come allora si chiamava la pubblicità ingenua.

(° ) Per la memoria. A Luckenwalde, durante la seconda guerra mondiale i nazisti vi installarono un campo di concentramento. Oggi è quasi dimenticato, ma non è stato meno efferato di altri.

Obiettivo dell’esercitazione è quello di interpretare la “morfologia” del pensiero architettonico di questo autore per la realizzazione di un monumento al design nel cortile dello IED di via Sciesa 4 a Milano.

Ogni gruppo può elaborare le immagini di questa esercitazione con il mezzo espressivo che ritiene più opportuno, disegno, foto, fumetto, collage, rappresentazione elaborata per via elettronica.

L’elaborato dovrà essere consegnato in copia su dischetto, accompagnato da una breve relazione esplicativa. Non sono accettati altri supporti.

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Pubblicato in IED - Esercitazioni 2010-11 | Commenti disabilitati su Un cappellificio a forma di… cappello, ed una torre che è… quel che sembra! – IED Design – Esercitazione 10 – 2010-11