IED – Materiali del corso IV (2011-12)

Una delle prime definizioni moderne di massa la si deve al sociologo americano Herbert Blumer (1900-1987) che la elaborò in contrapposizione ad altre forme di aggregazione come sono il gruppo, la folla, il pubblico e la usò soprattutto per studiare le masse che si creano a seguito degli strumenti di comunicazione di massa, come la radio, il cinema, o a seguito di certi fenomeni di mercato.

Abbiamo ricordato Herbert Blumer perché ci consente d’introdurre un altro tema del discorso sociologico, l’interazionismo simbolico.

L’interazionismo simbolico è un approccio teorico sviluppatosi negli Stati Uniti d’America. Rappresenta una prosecuzione, nel campo delle scienze sociali, delle tesi di filosofia pragmatica di William James.

Questo approccio pone l’accento sulla creazione dei significati nella vita e nelle azioni umane e lo fa sottolineando la natura pluralistica della società, il relativismo culturale e sociale delle norme e delle regole etiche, la visione del “sé” come socialmente strutturato.

In breve l’interazionismo si occupa soprattutto dell’interazione sociale che ha il suo centro nella vita quotidiana, in questo senso possiamo definirla come una teoria microsociologica.

Il pensiero interazionista è stato influenzato da Max Weber, Edmund Husserl e Alfred Schutz, ed esso rappresenta l’approccio teorico dominante nelle ricerche della Scuola di Chicago.

In particolare l’espressione interazionismo simbolico fu coniata da Blumer nel 1937 e si fonda su tre principi:

– gli esseri umani agiscono nei confronti delle "cose" (oggetti fisici, esseri umani, istituzioni) in base al significato che attribuiscono ad esse.

– il significato attribuito a tali oggetti nasce dalla loro interazione con gli individui ed è quindi condiviso da questi. In tale prospettiva il significato delle cose è un prodotto sociale.

– tali significati sono costruiti e ricostruiti attraverso un processo interpretativo messo in atto dalla persona nell’affrontare le cose in cui si imbatte.

Proseguiamo.  Un tempo, per il senso comune così come per le ideologie politiche, la cultura di massa era assimilata alla nozione di cultura per le masse.  Una forma di cultura che appariva ricca di significati, positivi per le sinistre e negativi per le destre. anche se entrambe queste posizioni concordavano sul fatto che le masse, volenti o nolenti, costituivano la base e lo strumento, sia pure rozzo e per molti versi incontrollabile, di tutti i cambiamenti sociali

In questo senso, cultura di massa significava soprattutto cultura per il popolo

Nel linguaggio corrente questa espressione è ritenuta offensiva perché sta ad indicare un mix di fattori che descrive le preferenze culturali delle persone semplici e grossolane.  

Da qualche tempo, in ogni modo, l’espressione cultura per il popolo è stata rivalutata ed è impiegata per definire il carattere diretto, semplice e genuino delle culture popolari e contadine, come delle società tradizionali, non inquinate dalle logiche di mercato e dalla pubblicità. 

Ma qui si nasconde un equivoco, perché in questa accezione la cultura per il popolo diventa cultura popolare e finisce per identificarsi con il folclore e/o le tradizioni localistiche.       Agli occhi dei suoi detrattori il difetto principale della cultura di massa sta nel fatto che, per risultare accessibile alle masse più o meno incolte, è costretta a mettere l’accento sulle emozioni e i sentimenti meno nobili e più diffusi.   Di conseguenza questa cultura appare come una cultura superficiale e sentimentale farcita di luoghi comuni.   Un concetto che, un tempo, veniva riassunto così:  La cultura di massa esprime i pensieri più profondi degli individui più superficiali. 

Per coloro che invece rifiutano di assimilare la cultura popolare alla cultura di massa l’accento è posto sull’autonomia della cultura popolare.

Un’autonomia costantemente minacciata dalla produzione e dalla distribuzione della cultura ridotta a merce delle élite capitalistiche. 

Vediamo, adesso, come le diverse concezioni della cultura di massa si sono trasformate nel tempo. 

Nell’Ottocento la cultura popolare si esprimeva soprattutto nell’abbigliamento, nel canto collettivo, nella danza, nelle abitudini alimentari, nelle piccole cose di artigianato

Era una cultura che, sia pure involontariamente, aveva esercitato un grande fascino sul romanticismo, cioè su quel movimento artistico e letterario che rappresentò, per almeno un paio di generazioni, lo spirito più vivo della cultura europea dell’Ottocento.    Molti protagonisti di questa corrente letteraria, che il successo fece diventare anche una moda e uno stile di vita, si prodigarono per salvare la cultura popolare nella sua originale genuinità attraverso la promozione, soprattutto nella mitteleuropea, delle scuole di arti e mestieri

Sono scuole che, in molti casi, finirono per alimentare una vera è propria ideologia del passato, in contrapposizione alla nascente industrializzazione, snaturando le premesse che avevano portato alla loro istituzione.   

In sostanza, la cultura popolare nell’Ottocento, a differenza di quella di massa, nasceva ancora in modo spontaneo, avvalendosi soprattutto di materiali e mezzi espressivi tradizionali.       

L’odierna cultura di massa, invece, tende a sfruttare il patrimonio delle culture popolari per farne dei prodotti di massa, da veicolare attraverso i mass-media e da vendere attraverso la grande distribuzione.  Prodotti che sono stati prelevati un po’ dappertutto, nelle tradizioni contadine come nelle periferie urbane – vedi il caso di molte forme di musica giovanile – così come nelle etnie emigrate o emergenti.  Sono prodotti sui quali il mercato opera quello che i professionisti del marketing chiamano oggi restyling, prodotti che paradossalmente finiscono per essere venduti soprattutto a chi abita le aree urbane delle grandi metropoli. 

Ciò avviene perché il concetto di cultura di massa è strettamente associato alla società dei consumi e, nella modernità, una parte rilevante dei rapporti che intercorrono tra le persone sono di natura economica e i consumi sono diventati dei veri e propri fenomeni sociali primari. 

In questo senso la cultura di massa ha finito per istituzionalizzare e “conformare” la nostra vita su scala planetaria.  Questa cultura coinvolge le forme della conoscenza artistica e letteraria, l’educazione, gli stili di comportamento, i modi di pensare, le proposte della politica traducendoli in atti di consumo e, di riflesso, in codici di riconoscimento sociale. 

Proviamo ad entrare di più nei dettagli. Una delle principali caratteristiche della cultura di massa è di strutturale, razionalizzandoli, i rapporti tra le persone attorno alla sfera economica.  A questo proposito i critici della società di massa osservano come essa abbia finito per rattrappire il tempo libero sul tempo commerciale e di dominare con i media anche gli aspetti più privati ed emotivi della vita. 

Se consideriamo la cultura di massa dal punto di vista dei media possiamo dire che essa è nata in Europa tra la metà e l’ultima decade dell’Ottocento con il diffondersi della carta stampata e dell’alfabetizzazione primaria.  Si è poi rafforzata dopo la fine della prima guerra mondiale con l’avvento della radio e del cinema.  Ed è diventata quello che è oggi soprattutto a partire da quel fenomeno di costume e di modelli di consumo che è stata l’american way of life

Se esaminiamo questo fenomeno della cultura di massa in filigrana con il tema della cultura popolare, vediamo che essa ha integrato l’ambiente operaio, soprattutto delle periferie urbane, con il mondo contadino e, tutti e due, con alcuni stili di vita della borghesia. 

Un fenomeno che viene definito come una popolarizzazione dei valori della borghesia o, meglio, una sorta di scivolamento di questi valori verso le classi inferiori a cui non sono estranei l’economia, la divulgazione dei paradigmi delle scienze della comunicazione e i media. 

Alla luce di queste osservazioni è indubbio che la cultura popolare, concepita per un pubblico di massa, appare come un utensile facile da usare, a buon mercato, producibile in serie, destinato soprattutto ad un pubblico giovanile perché seducente e niente affatto complicato.

  L’esempio che gli esperti fanno a questo proposito è quello della musica pop che domina gli schermi televisivi di tutto il mondo il cui contenuto estetico ed artistico viene preso come rappresentativo della società orientata al consumo di massa.   

C’è un altro punto da segnalare.  La teoria sociologica ritiene che si corre un grosso rischio nella trasformazione delle culture in prodotti di massa. 

Queste culture, infatti, quando sono manipolate, inevitabilmente si svalutano e si degradano ad un punto tale che la loro alterazione produce inevitabilmente dei deficit culturali che sono in continua e costante evoluzione.  In altre parole, queste operazioni di trasformazione danneggiano irreparabilmente ciò che c’è di genuino in tutto ciò che nasce spontaneamente dal basso.   

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Passiamo ad esaminare altri due lemmi fondamentali del discorso sociologico.  Il primo, che vedremo in sintesi, è quello delle strutture sociali.    L’altro lemma è quello dell’interazione sociale, che ha numerose implicazioni e sottotemi di grande interesse.

L’importanza dell’analisi delle strutture sociali, in sociologia, deriva dalla considerazione che non è mai possibile isolare una dimensione pura ed autonoma della soggettività, come se fosse un’identità sociale, perché gli attori sociali (individuali e collettivi) rappresentano, allo stesso tempo il motore e il prodotto che in qualche modo determinano queste strutture. 

Nel loro significato sociologico il termine fu coniato da Herbert Spencer nel 1858. 

Questo filosofo inglese di matrice positivista tentò di elaborare una teoria generale del progresso umano o meglio, si rese conto che la filosofia positiva aveva ancora un compito da realizzare: di unificare i risultati delle scienze per farli progredire verso obiettivi più alti.  

In particolare, per Spencer il processo evolutivo consentiva un progresso perché permetteva di passare: 

dall’incoerente al coerente. 

dall’omogeneo all’eterogeneo. 

dall’indefinito al definito.  

Egli mise in luce il fatto che, in una struttura sociale, le parti che la compongono s’identificano con le relazioni fra le persone, e come, l’insieme organizzato delle parti che la compongono può essere inteso una rappresentazione della società nel suo complesso. 

Spencer, poi, identificò nel perdurare nel tempo (nella durata) una delle caratteristiche più importanti di una struttura sociale.  Vale a dire, tutte le strutture sociali hanno una vita più o meno lunga e, in genere, la loro durata depone a favore della loro importanza.

 

Per Spencer c’era poi un altro problema fondamentale.  Le strutture sociali si basano sul consenso o sulla coercizione

Da convinto funzionalista la società era per lui un organismo vivente nel quale tutte le parti contribuiscono a mantenerlo in vita.  In questo senso le strutture sociali non avrebbero dovuto produrre conflitti e non avrebbero dovuto fondarsi sulla coercizione. 

D’avviso diverso, tra i suoi contemporanei, erano i movimenti politici d’ispirazione socialista, per i quali, invece, la società è l’esito di un perenne conflitto tra le classi. 

In ogni modo, oggi, non si discute più di questo perché è più importante un altro aspetto del problema, vale a dire: 

In che modo le strutture sociali sono in grado di favorire il mutamento sociale?

Una società che non muta, infatti, è una società che non cresce o cresce male finendo per ripiegarsi su se stessa o addirittura implodere. 

In questa analisi dobbiamo anche considerare la circostanza che le società sono condizionate dall’ambiente naturale e dalle forme di sociabilità che riescono a sviluppare.  Così come le loro strutture sociali sono condizionate anche dalla storia sociale dei loro attori, siano essi gli individui o i collettivi. 

Ne consegue che, le strutture organizzative e istituzionali nel loro evolversi normativo, nel loro essere legislatrici, sono il prodotto diretto dell’agire storico sociale, come delle rappresentazioni e delle credenze degli attori sociali.

Spostiamo l’angolazione del tema. Dell’importanza dell’ambiente naturale per lo sviluppo della società se ne sono occupati, in passato e a diverso titolo, molti autori, tra i quali Emile Durkheim, Max Weber e Georg Simmel

Oggi, le scienze sociali definiscono l’ambiente naturale come il complesso delle possibilità nei confronti delle quali si sviluppa l’azione degli attori sociali, intesi sia come individui che intesi come gruppi agenti o comunità. 

In altri termini, non c’è nulla di pre-definito offerto dalla natura all’uomo, o, più generale, d’imposto.  C’è semplicemente la capacità dell’uomo all’adattamento naturale e alle sue capacità di agire su di esso.    In breve, non si può non tener conto del fatto che le strutture pubbliche e politiche che contribuisco a disegnare le forme urbane e a tracciare le loro vie di comunicazione hanno influito e influiscono in maniera rilevante nel condizionare lo spazio sociale della persona e delle comunità, la loro libertà di scelta e di movimento e il loro grado d’interazione sociale. 

Per completare questo punto, dobbiamo ricordare come in questi ultimi anni si è diffusa una nuova sensibilità per i problemi dell’equilibrio tra l’uomo e il mondo.  Sensibilità che ha mostrato la grande rilevanza dell’azione umana sia nella conservazione che nella distruzione dell’ambiente.  Da qui la constatazione che l’adattamento non può essere all’insegna del mero sfruttamento della natura, ma deve tener conto del fatto che gl’interessi dell’uomo non possono infliggere all’ambiente dei danni irreparabili o superiori ai vantaggi Da un punto di vista storico le contraddizioni tra le strutture ambientali artificiali costruite dall’uomo e la natura sono state messe in evidenza, per la prima volta, da un fortunato libro di Georg Simmel, pubblicato nel 1903, intitolato, La metropoli e la vita dello spirito.

In Italia, per chi volesse leggerlo è stato pubblicato per la prima volta integralmente nel 1995 ed è ancora in commercio. 

Vediamo adesso qualcosa su un altro importante elemento che ci lega alla natura: il tempo.  Rappresenta una delle dimensioni della realtà che abitiamo o, se si preferisce, dello spazio sociale.  Di conseguenza, la temporalità, che definiamo come ciò che è iscritto nel tempo, deve essere considerata come un carattere fondativo delle relazioni sociali. 

Il tempo, in pratica, è un’infrastruttura strategica dell’azione e dell’interazione sociale, rappresenta e rende visibile il carattere processuale e storico di ogni attività umana, spesso drammatizzandola, perché la natura del tempo è di essere irreversibile.   

In sociologia, il primo a parlare di tempo sociale è stato Durkheim nel 1912.  Questa espressione esprime la dipendenza del tempo individuale da quello più ampio del gruppo o della comunità che funzionalmente lo comprende. 

Ma, qual è, in breve, la funzione del tempo sociale?  Attraverso la sua periodizzazione gli uomini organizzano e ritmano la loro vita privata e collettiva, di più, questa periodizzazione ne assicura il suo coordinamento e la sua sincronizzazione. 

Nella ricerca empirica sul tempo una delle tecniche più utilizzate in sociologia è quella indicata con l’espressione di time-budget (bilancio del tempo).  Storicamente, questa tecnica fu inizialmente elaborata dalla sociologia russa per studiare le problematiche della vita quotidiana della classe operaia. Oggi, invece, è adoperata per delineare i modi e gli stili di vita, per disegnare le cosiddette mappe dei comportamenti abituali

Attraverso il tempo o, meglio, attraverso l’esperienza del tempo, noi stabiliamo una continuità narrativa tra passato, presente e futuro e, come ha notato Alfred Schütz, un sociologo tedesco sul quale ritorneremo, il tempo è un fattore essenziale per la comprensione dell’agire umano. 

Il tempo, dunque, è una risorsa sociale, la cui disponibilità è diversa da individuo ad individuo e tra comunità e comunità.  Che cosa significa?  Che il tempo degli operai non è quello dei signori.  Che il tempo di una comunità di monaci non è quello di un collegio universitario o di una squadra di calcio.  Eccetera.    Nella modernità il tempo come risorsa, è soprattutto una risorsa economica, diversamente valutabile e valutata.

Karl Marx nei suoi studi di economia definisce il tempo come qualcosa che possiede un valore e lo considera da un punto di vista macroscopico, una variabile economica dei processi di produzione.  Di conseguenza, esso costituisce un importante fattore nei processi di razionalizzazione della modernità. 

Ricordiamo a questo proposito che è proprio dalla distinzione marxiana tra tempo di lavoro, o tempo produttivo, e tempo extra-lavorativo che hanno preso l’avvio gli studi sociologici sul tempo libero inteso come la quota di tempo che nella vita quotidiana un individuo ha a sua disposizione per dedicarlo ad attività – anche passive, come dormire – scelte liberamente in base ai suoi interessi e alle condizioni psicofisiche del momento.  

Vediamo altri due temi sensibili intorno alla relazione ambiente, individuo, natura.

Uno di questi temi, che compare sempre più spesso nel capitolo dedicato alle condizioni dell’ambiente naturale, è la nozione di corpo.

Oggi la sociologia del corpo è una disciplina indirizzata sia allo studio sistematico che alla costruzione di modelli esplicativi relativi al rapporto di reciproca determinazione o restrizione tra la società (ovvero i processi sociali) e il corpo inteso come un’unità psicosomatica.

I primi due autori che si sono occupati in modo specifico del corpo sono Georg Simmel e Marcel Mauss.

Lo hanno fatto in una prospettica culturalista creando i presupposto di una vera e propria sociologia del corpo o delle culture corporee successivamente elaborata anche da una grande antropologa inglese Mary Douglas (1921-2007).

Successivamente il corpo, come realtà fenomenologia, ha ricevuto una particolare attenzione nei lavori di Erving Goffman, Gregory Bateson e David Le Breton.

L’approccio in questi autori è essenzialmente di tipo strutturalista ed esso si è spinto fino a lambire il campo delle scienze bio-mediche.

Viceversa l’analisi della relazione tra il vissuto e la corporeità con i processi socio-culturali è centrale negli studi di due sociologi di origine austriaca, Thomas Lukmann (il cui libro più famoso è La realtà come costruzione sociale del 1966) e Alfred Schütz, che vedremo meglio più avanti per le sue ricerche sulla vita corrente è quello che la fenomenologia chiama Lebenswelt, cioè, mondi di vita.

Sempre sul tema del corpo e di ciò che rappresenta sia come elemento del mondo sensibile che espressione dell’individualità ricordiamo almeno due filosofi francesi Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty oltre che lo psichiatra inglese Roland Laing.

Infine, da un punto di vista gnoseologico di grande importanza sono le riflessioni di altri due grandi pensatori francesi, George Bataille e Michel Foucault a cui dobbiamo la nozione di biopolitica.

Il corpo in molti di questi studi viene indicato soprattutto come una macchina comunicativa, inteso sia come corpo vestito che corpo nudo.

Una macchina che si può costruire con l’attività fisica, si può modificare con una divisa, si può trasformare in un messaggio con un tatuaggio.

Il discorso sociologico, poi, si espande anche alle cosiddette pratiche che hanno per oggetto il corpo, perché servono a delineare, da una parte, gli stili di vita e, dall’altra, hanno un grosso risvolto economico, come sono le pratiche legate alla cosmesi, alla chirurgia plastica, alle diete, all’abbigliamento (…che fa il monaco!), eccetera.

Sempre a proposito di ambiente un altro tema divenuto sensibile, che noi non tratteremo per ragioni di tempo, è costituito da quelle che sono chiamate le riserve materiali del pianeta.

Questo perché se ieri avevano una grande importanza nell’espansione dell’influenza umana sul territorio, oggi hanno, di contro, notevoli implicazioni industriali (basti pensare alle guerre in corso sul pianeta e alla questione delle fonti di energia non rinnovabili come il petrolio) e il loro sfruttamento concorre al deterioramento dell’ambiente.

In particolare, ci sono due nuove discipline che si occupano di questo, sono l’ecologia e la geopolitica.

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Passiamo adesso ad un rapido esame delle istituzioni e delle organizzazioni formali che, in breve, possiamo definire come, dei sistemi relativamente stabili di relazioni retti da norme specifiche che assolvono o dovrebbero assolvere a funzioni e interessi della vita sociale.  

In altre parole le istituzioni sono organizzazioni o strutture sociali che amministrano e governano il comportamento degli individui. 

Esse, allo stesso tempo, materializzano, cioè, danno visibilità, ai principi giuridici fondamentali della forma di Stato, identificandosi con gli organismi politico-costituzionali che ne sono l’espressione.  

Per esempio, sono istituzioni formali i parlamenti, le forze armate, i ministeri, le fondazioni, i tribunali, eccetera. 

Le organizzazione formali, invece, hanno una natura più privatistica, come sono un’azienda, una squadra di calcio, un club, un’associazione di volontariato, un partito politico… 

Delle istituzioni e delle organizzazioni formali quello che più le contraddistingue è il carattere della stabilitàSono stabili nella misura in cui vengono codificate dagli usi, dal costume dalle norme. 

Poi, a misura in cui sono stabili tendono a caricarsi di valori immateriali, quali il prestigio o l’affidabilità, valori che consentono loro una certa autonomia, ponendole al di sopra delle parti e degli interessi di parte. 

La loro stabilità e la loro autonomia, infatti, hanno il potere di agire con autorevolezza sugli attori sociali condizionandoli, educandoli, indirizzandoli nella loro vita sociale.  Al limite, sanzionandoli.   

Va da sé, le istituzioni e le organizzazioni formali sono profondamente intrecciate al meccanismo dell’interazione sociale.  Per definire l’interazione sociale conviene partire dall’esperienza che ognuno di noi ha della società. 

Non è difficile constatare che questa esperienza consiste nell’insieme dei rapporti che intratteniamo a diverso titolo all’interno del nostro habitat socialeSi tratta di un insieme di azioni e di reazioni alle azioni  – da cui il termine interazione – mediante le quali gli individui entrano tra loro in contatto, comunicano, collaborano, giudicano.  

Definiamo allora come interazione sociale la sequenza dinamica e mutevole di atti sociali fra individui o gruppi di individui che modificano le proprie azioni e reazioni a seconda delle azioni dei soggetti con cui interagiscono.  Occorre sottolineare che l’interazione sociale non si esprime solo nelle situazioni di tipo ripetitivo, che riguardano la vita quotidiana, ma anche nelle situazioni che definiamo eccezionali o uniche. 

L’interazione, in sintesi, può essere allora definita come il luogo primario in cui si forma, si ratifica, si trasforma il legame sociale. 

Da qui ne deriva che l’interazione sociale determina l’ordine sociale. 

Un ordine che non si manterrebbe in equilibrio senza una costante e spesso lunga e silenziosa rinegoziazione dei suoi valori, delle sue norme, dei suoi saperi o delle sue credenze

Perché l’interazione sociale è così importante?  Perché essa rappresenta il nodo intorno al quale si sviluppano gli studi del comportamento sia collettivo che individuale.  Questi studi, che confluiscono in quelle che oggi si chiamano le microsociologie, hanno come tema principale i cosiddetti rapporti face to face, nella definizione della sociologia anglosassone    

Diciamo che la microsociologie studiano i legami sociali elementari. 

Il primo a rendersi conto dell’importanza di questi studi fu Georg Simmel che rifletté sull’importanza di certi fenomeni apparentemente minori della vita corrente, come sono i segreti, l’amicizia, l’ubbidienza, la lealtà, la fiducia, eccetera. 

Oggi le microsociologie hanno come campo d’interesse i comportamenti, i ruoli, le interazioni sociali, i conflitti, le identità e il modo di formarsi dei processi decisionali. 

Tra gli studiosi di queste microsociologie va ricordato anche George Gurvitch (1894-1965), un sociologo russo, naturalizzato francese che studiò anche il diritto sociale e la funzione del fattore tempo nelle scienze sociali. 

Uno dei primi ricercatori che si pose il problema di indagare le relazioni tra gli individui, nell’ambito della vita quotidiana, fu un filosofo delle scienze sociali di formazione fenomenologica – la fenomenologia è stata una delle correnti filosofiche più importante del ventesimo secolo – Alfred Schütz (1899-1959). 

Schütz era austriaco, dovette emigrare in America a seguito delle leggi razziali e lì, anche per motivi personali, si dedicò allo studio del comportamento collettivo che illustrò in moltissimi saggi critici.  L’opera a cui faremo riferimento uscì nel 1932, s’intitola La fenomenologia del mondo sociale, è uno studio nel quale, partendo dalle ricerche di Max Weber, Schütz sviluppò le problematiche dell’agire sociale. 

Egli definì la vita quotidiana, come l’insieme di azioni, di rapporti, di conoscenze e di credenze familiari all’interno dei quali, per così dire, scorre l’esistenza materiale degli individui, un’esistenza che è segnata dall’esperienza e la produce.

   Si tratta di quel insieme di microrelazioni che in genere si danno o passano per scontate, come salutare un conoscente, prendere un appuntamento, uscire in compagnia per una cena, telefonare per informarsi sulla salute di un parente ammalato, avvertire casa per un improvviso contrattempo, mettersi d’accordo con qualcuno per andare ad un concerto, eccetera…    

Alfred Schütz con i suoi studi dimostrò che questi rapporti costituiscono il cemento dell’esperienza sociale degli individui.   

Esaminiamo allora, sotto questa luce, alcuni caratteri della vita quotidiana.   

Il primo di essi è la routine. Costituisce il carattere più evidente della vita quotidiana e, per molti versi, anche il più sorprendente quando lo andiamo a focalizzare.  È un carattere che esprime la ripetitività e la prevedibilità delle azioni, dei comportamenti e dei pensieri

La prevedibilità, in particolare, agisce sul comportamento degli individui abbassando il livello d’interesse dell’osservatore e/o dell’attore sociale e così agendo favorisce un risparmio di energie. Ma c’è anche un risvolto negativo.     

La ripetizione e la prevedibilità dei comportamenti possono finire per stimolare risposte automatiche o stereotipate, che abbassano il nostro grado di comprensione di ciò che ci circonda.   

Perché ripetizione e prevedibilità sono così importanti per la sociologia?  Perché quando ripetitività e prevedibilità tendono ad occupare quasi per intero il tempo della vita quotidiana si può affermare di essere in presenza di vissuti che tendono a deteriorarsi

Come dicono i filosofi sociali, siamo davanti ad una alterazione del quiora che induce ad una sorta di smarrimento sociale e, spesso, nei casi più gravi, a forme di angoscia e di disagio psichico.    

I processi interattivi generano anche un altro fenomeno, le tipizzazioni.   

La tipizzazione, in buona sostanza, agisce come uno strumento di previsione del comportamento.  Vuol dire, capovolgendo un proverbio popolare che l’abito, a dispetto del nostro senso critico, fa spesso il monaco.  Le tipizzazioni possono essere involontarie, ma il più delle volte sono il risultato di una scelta consapevole tra i vari modelli di comportamento che l’esperienza sociale ci fornisce. 

Perché è importante il tema della consapevolezza?  Perché ciascuno sa bene che ad ogni passo della nostra giornata come della nostra vita sociale siamo costantemente osservati, e in qualche modo interpretati e giudicati.  Perché ciascuno di noi si rende conto che gli altri reagiscono nei nostri confronti secondo il loro modo di essere che si esprime attraverso il loro modo di interpretare e vivere le situazioni sociali.      

Un altro aspetto importante dell’interazione e quello che la lega ai processi della rappresentazione sociale.  Gli individui che vivono i processi d’interazione sociale, non solo sono coscienti delle azioni e delle reazioni che questi processi comportano, ma, in genere, sono consapevoli anche dei loro effetti.

       

Secondo Erving Goffman (1922-1982) a causa della consapevolezza che gli individui hanno di influenzare con le proprie azioni l’opinione che gli altri si fanno della situazione alla quale essi stanno partecipando, questi individui finiscono (inevitabilmente) per comportarsi come se recitassero una parte, come se fossero attori su un palcoscenico.   Come se vivessero dentro una rappresentazione teatrale o in uno spettacolo.   

Goffman è un sociologo di origine canadese, ma è vissuto negli Usa ed ha studiato a Chicago.  Lo ricordiamo perché a Chicago ha operato una delle scuole di sociologia urbana più prestigiose degli Stati Uniti.  

Uno degli scritti più importanti di questo studioso, pubblicato nel 1956, s’intitola, La vita quotidiana come rappresentazione.  Con questo scritto Goffman, introduce nella sociologia il concetto di prospettiva drammaturgica

Il suo campo di ricerche principali furono gli aspetti trascurati della vita quotidiana, quelli che appaiono banali, ma che possiedono, in sé, una forte carica recitativa.  Aspetti che, nelle società complesse, come sono quelle del mondo Occidentale, sono divenuti spesso oscuri ed equivoci e che, sempre di più, vengono usati o manipolati per offrire agli altri un’immagine in qualche modo valorizzata di noi stessi.  

I sociologi americani definiscono queste situazioni come face to faceperché sono costruita essenzialmente sulle piccole situazioni della vita di tutti i giorni. 

Per analizzarle Goffman immaginò la vita quotidiana come un gioco di rappresentazioni.    Un gioco nel quale l’identità dell’individuo – che nella lingua inglese è definita con l’espressione di selfcoincide di volta in volta con le maschere che costui indossa sul palcoscenico della vita corrente

In questo quadro la vita di tutti i giorni è di fatto analizzata come una scena sulla quale si recita, una scena con i suoi attori, il suo pubblico, le sue quinte, dove spesso gli attori contraddicono quello che hanno detto o fatto davanti ai riflettori.  Su questa scena gli attori si mettono in gioco, si riconoscono, si alleano, si scontrano s’ingannano, mostrano la loro capacità d’impersonare un ruolo, s’immergono o prendono le distanze dalle situazioni che li coinvolgono 

Occorre persi una domanda:

Gli individui sono coscienti di recitare una parte sociale? 

Per Goffman lo sono sempre, anche se non sempre ne sono fino in fondo consapevoli.  

In certe occasioni questa recitazione è assolutamente partecipata in altre, come una parte recitata mille volte, diventa quasi automatica, in altre ancora è recitata di malavoglia.  

C’è poi da considerare un fatto relazionale:Come l’Altro o gli altri giudicano chi sta recitando. 

Questo perché in base a come chi sta osservando valuta la spontaneità o, se si vuole, l’abilità oppure la qualità della recitazione dell’altro o degli altri suoi interlocutori ne tira delle conclusioni che influenzeranno il suo modo di comportarsi.  Come in una partita a ping-pong, ogni tiro provoca una reazione di tiro, che a sua volta provoca una reazione…e così via….  

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