Naturalmente, l’aver posto la data del 1789 come quella d’inizio della modernità non significa che la modernità è nata il 14 luglio di quel anno, giorno della presa della Bastiglia, ma che è maturata in un certo intervallo di tempo di cui quel anno è lo spartiacque. Questa data è funzionale al paradigma delle scienze sociali e della sociologia in particolare. Per altri versi e nell’ambito di una storia più generale delle idee la modernità nasce con la scoperta dell’America, in pratica con il XVI secolo.
La sociologia, soprattutto all’inizio, ha poi contribuito a diffondere, perlomeno tra le classi dominanti, due grandi miti dell’Ottocento:
il mito della tecnica, più specificatamente, della macchina,
il mito del progresso, come speranza di un futuro radioso per un numero d’individui sempre più numeroso.
Questo secondo mito rappresenta una piena fiducia nell’avanzamento continuo e instancabile della scienza e con essa delle condizioni materiali e spirituali dell’umanità.
Abbiamo già velocemente visto come il positivismo abbia in qualche modo orientato, nel corso dell’Ottocento, le principali ricerche intorno al tema della società e delle sue leggi.
Lo ha fatto mentre alle sue spalle si scolorivano e si dissolvevano le strutture e i valori tradizionali dell’Ancien Régime. Mentre si spegneva lo splendore effimero dei reami per volontà di dio, lasciando ai più l’impressione che si fosse creato un vuoto di valori che riapriva drammaticamente una nuova stagione di conflitti tra vecchie e nuove classi.
È in questo contesto che maturarono molte ricerche e si aprirono dibattiti e polemiche su concetti, teorie o riflessioni che oggi sono popolari, ma che allora, agli occhi dell’opinione pubblica, sembravano per lo più irriverenti, improponibili, blasfemi o addirittura intoccabili.
Per esempio, si cominciarono ad affrontare i temi del rispetto culturale dell’altro, come individuo, e dei popoli come identità di un sentire condiviso.
Si riflette sul tema della cooperazione internazionale come strumento per un sentire comune delle differenze culturali, sociali e politiche.
Si cominciò a sviluppare l’idea di nazione e di solidarietà sociale.
Si diffuse il principio dell’assistenza agli indigenti e ai malati, l’idea di consenso come base di ogni democrazia, la pratica del suffragio elettorale per eleggere i parlamenti.
Si cominciò a riconoscere il diritto di voto delle donne.
Molti paesi introdussero il divorzio che, implicitamente, trasformava il matrimonio da sacramento divino a semplice contratto tra un uomo e una donna.
Si cominciò a parlare di controllo delle nascite.
In buona sostanza di temi che oggi costituiscono (o, dovrebbero costituire) la spina dorsale delle democrazie moderne.
Compare, in questi anni, anche una nuova filosofia sulla condizione sociale dell’uomo, il materialismo storico e dialettico.
Dal punto di vista della storia della filosofia è una costola del cosiddetto “hegelismo di sinistra”.
Nella realtà storica di quel periodo rappresentò una speranza per le classi sfruttate dalle nuove strategie dell’economia capitalistica, speranza che si trasformò quasi subito in un’idea politica fondata sull’analisi scientifica delle leggi che governano i rapporti di produzione e le forze che li gestiscono.
Nell’ambito del discorso sociologico il materialismo storico dialettico può, dunque, essere considerato come un’importante teoria scientifica del conflitto di classe.
L’influenza del pensiero marxiano sulle scienze sociali, da cui discendono i capisaldi del materialismo, (perché è soprattutto a Karl Marx (1818-1883) che va riconosciuto il merito di aver elaborato questa dottrina) è stato determinante da molti punti di vista.
Ha consentito di elaborare una teoria critica delle ideologie come rappresentazioni illusorie della realtà materiale. Come sovrastrutture al servizio delle idee dominanti destinate a giustificare gli egoismi di classe, a razionalizzare le illusioni, a legittimare il potere costituito e a giustificarne le contraddizioni.
Ha rafforzato il discorso critico intorno alla scientificità del pensiero scientifico, procedendo ad una analisi delle condizioni che la determinano. Tema questo che ha poi dato vita a diverse specializzazioni della sociologia, come sono la sociologia della conoscenza, della tecnica, del pensiero scientifico.
Ha introdotto nell’analisi delle forme sociali il concetto di alienazione. Questo concetto, di origine hegeliana, era stato, prima di Marx, elaborato in chiave di critica filosofica della religione da Ludwig Feuerbach (1804-1872) e prima ancora da Jean-Jacques Rousseau. Secondo Marx è il processo per cui ciò che è proprio dell’uomo, in quanto prodotto del suo lavoro, gli diventa estraneo a causa del processo di sfruttamento capitalista della forma di lavoro.
Oggi, nella cultura contemporanea, indica la condizione dell’uomo ridotto ad oggetto e dunque estraniato dalla sua identità.
Abbiamo visto come con la modernità i temi che dominano il mondo, intorno ai compiti e al destino degli uomini e delle nazioni, siano cambiati radicalmente. Oggi si parla di società contemporanea. Secondo i sociologi e i politologi essa si caratterizza per almeno tre aspetti:
– Una spinta globale all’interconnessione attraverso dei sistemi di rete sempre più estesi all’intero pianeta.
– Una evoluzione degli stili di vita sempre più rapidi e profondi che sono, per la prima volta nella storia dell’uomo direttamente legati all’innovazione tecnologica.
– Una trasformazione dell’ambiente e dell’habitat di un’ampiezza senza precedenti dovuta a dei fattori evolutivi di natura sociale, culturale, economica e tecnologica.
Quello che più conta, in sintesi, è però altro. Si stima, infatti, che questi mutamenti siano di natura irreversibile e che coinvolgano direttamente tutti, sia pure in modi differenti, a partire dal quotidiano, cioè, dal nostro modo di concepire la convivenza umana.
Qualche dato.
A livello dei mezzi di comunicazione i collegamenti via “internet” si sono diffusi con grande rapidità. Nel 2004 si valutavano 140 utenti ogni mille abitanti. Oggi sono così tanti e dappertutto nel mondo da costituire il più grande strumento di consenso mai visto, capace di trasformare i modelli della politica, della forma di Stato, dei modi di pensare le scelte, così come d’innestare processi che nessuno sa gestire ancora per la loro rapida capacità di diffusione.
Vedremo più avanti che cosa sono i processi di sincronia di massa.
Per quanto riguarda la globalizzazione basta riflettere su questo semplice dato. Nel corso di questi ultimi cinquant’anni la produzione mondiale espressa dal prodotto interno lordo è aumentata di circa cinque volte, ma nessuno sa gestirla. Di contro i poteri economici sono diventati immateriali e hanno riscritto la carta delle relazioni sociali.
Vedremo meglio in seguito l’importanza di questi fatti.
Parte seconda.
Torniamo, adesso, ad un protagonista del pensiero positivista, Emile Durkheim (1858-1917), un filosofo sociale francese, considerato il fondatore della moderna sociologia.
Di fatto Durkheim conciliò la sociologia con l’antropologia culturale studiando le società primitive e le forme religiose. Il tema dominante del suo lavoro fu la società considerata come una realtà sui generis, che trascende i desideri, la volontà i convincimenti culturali degli individui da cui è composta.
Durkheim per spiegarlo ricorre ad una arguta metafora metallurgica.
“La durezza del bronzo non si trova né nel rame né nello stagno che sono serviti a formarlo, e che sono sostanze molli o flessibili. Essa si trova nella loro mescolanza”.
In altri termini, la società detta le sue leggi dall’alto ed attraverso un processo coercitivo costante costringe i suoi membri a conformarsi alle sue regole.
La caratteristica principale della scuola sociologica francese da lui fondata fu quella di considerare i fenomeni sociali come fatti aventi una vita propria, un’esistenza indipendente dall’apporto delle singole coscienze degli individui, capaci, in conseguenza di ciò, di esercitare una pressione costante sulla società.
Ora, se la società è un aggregato (sociale) di che tipo è la solidarietà, ossia, il grado di coesione esistente tra gli individui? Per Durkheim è di due tipi.
Una solidarietà di tipo meccanicistico, che deriva dall’indifferenziazione tra gli individui, tipica delle società primitive. Una solidarietà di tipo organico, in cui ogni singolo membro assolve o dovrebbe assolvere ad una particolare funzione. Questo tipo di solidarietà è tipica delle società complesse in cui domina la divisione del lavoro.
In pratica ogni società per Durkheim, è caratterizzata da una coscienza collettiva, ossia da quel insieme di norme, credenze e sentimenti comuni alla media dei membri che la costituiscono.
Da questa coscienza collettiva derivano a cascata la condotta degli individui in pubblico e lo strutturarsi del consenso sociale. Per questo filosofo l’individuo è un prodotto della società e non viceversa.
Ogni azione che egli compie in società è dunque, il risultato di una coscienza che gli è superiore e dalla quale dipende.
Vediamo in pratica queste tesi applicate ad un tema di grande interesse sociale, il suicidio.
Da tempo, come è anche emerso dalla “Giornata di prevenzione al suicidio”, che si è tenuta a Roma nel Settembre del 2006, il suicidio è la seconda causa di morte tra gli adolescenti, dopo gl’incidenti stradali.
Dato riconfermato anche in altre sedi internazionali al quale non si riesce a dare una spiegazione che sia capace di tradursi in una pratica di prevenzione.
In Italia l’otto per cento di tutti i decessi tra i ragazzi dai dieci ai ventiquattro anni è determinata dalla scelta di togliersi la vita.
Il quaranta per cento di chi non riesce nell’intento è portato a ripetere il gesto.
Come abbiamo detto il tema centrale delle ricerche di questo filosofo è sempre stato il rapporto, spesso problematico, tra gli individui e la società, tema anche di uno dei suoi libri più eruditi, quello sulla divisione sociale del lavoro.
Tuttavia, il suo studio più famoso, anche per la natura dell’argomento, rimane quello sul suicidio che pubblicò nel 1897. In esso si riflettono anche tutte le problematiche di una società, quella del suo tempo, dominata dalla confusione ideologica, dall’instabilità politica e dalle incertezze economiche.
Ciò che rende questo lavoro importante sono soprattutto due motivi. Un motivo di natura etica, perché Durkheim esamina il suicidio sotto l’aspetto di una disfunzione drammatica nel rapporto individuo-società.
Vale a dire lo considera come la spia di una crisi nell’organizzazione sociale, affermando che esistono sempre delle responsabilità nell’azione degli uomini che hanno degli effetti sul comportamento di altri uomini e della società nel suo insieme. Come dire che, in un certo senso, tutti siamo compromessi. Il secondo motivo è di natura metodologica. Durkheim, per difendere le sue tesi, non esitò a studiare i dati di una scienza nascente, la statistica. Con essi mise in evidenza un fatto fondamentale, che i tassi di suicidio si mantengono , a livello statistico, costanti nel tempo e nei luoghi. Da qui ne dedusse che il suicidio va considerato come un fatto sociale. Sempre con l’ausilio delle tabelle statistiche Durkheim mise in luce che il suicidio varia in modo inversamente proporzionale al grado di socialità che l’individuo riesce a sviluppare, dunque, si presenta come un fenomeno che prescinde per buona parte dalla psicologia individuale.
Un cruccio di Durkheim a questo proposito fu il fatto che non riuscì mai a spiegare perché il tasso di suicidio è più elevato tra le professioni liberali che tra gli operai, tra gli uomini che tra le donne, tra i protestasti che tra i cattolici…
Più in generale un altro motivo importante è che con questo libro Durkheim perfeziona quella che oggi potremmo chiamare una “metodologia della ricerca sociale“.
Una metodologia che, con grande intelligenza, egli elaborò a partire dal pensiero di John Stuart Mills, di cui abbiamo già ricordato le tesi sui meccanismi dell’induzione nella ricerca scientifica.
Per venire al dunque Durkheim, individuò per il suicidio due cause, a ciascuna delle quali sono riconducibili due tipologie diverse di suicidio.
In pratica delineò quattro tipi di suicidio, a seconda della causa che lo scatena e del modo con cui essi si rapportano al tema dell’integrazione sociale che coordina il rapporto dell’individuo con la società.
Ad una debole integrazione sociale corrisponde, per Durkheim, il suicidio egoistico, motivato da sensazioni di esclusioni. Caratterizzato da una scarsa interazione con il proprio gruppo sociale di riferimento, in sostanza, con il proprio ambiente.
Questo suicidio, in qualche modo, risponde ad una logica individuale che esclude una responsabilità diretta del gruppo. È una forma di suicidio che, per la psico-analisi, ha forti componenti narcisistiche.
In termini psichiatrici lo si può definire un suicidio reattivo e d’impulso, nel senso che in esso c’è una causa molte volte improvvisa, scatenante e impossibile da controllare.
All’opposto c’è il suicidio altruistico.
È una figura di suicidio a dire il vero molto rara, almeno nella cultura Occidentale. Si potrebbe dire che questo suicidio è la conseguenza di una integrazione sociale eccessiva. Rappresenta un sacrificio personale – che si ammanta del tema dell’onore – in nome degli interessi del gruppo o di un’ideologia. Di fatto, però, questo suicido molto spesso discende da una patologica mancanza di un’autonomia personale.
Nelle sue forme eroiche è il caso del capitano che si lascia affondare con la sua nave. Del gruppo di soldati che si votano alla morte. Della madre che sceglie di morire per dare alla luce un figlio che altrimenti sarebbe nato morto o, per fare un esempio recente, di quei tecnici giapponesi che sono entrati nella centrale nucleare danneggiata dal maremoto per cercare di raffreddarne il reattore che è esploso, e così facendo si sono esposti ad una fortissima dose di radiazioni nucleari. In altre parole è un suicidio che, per l’ipocrisia, appare con forti componenti di natura etica, che sono vissute come imperativi morali.
Il terzo tipo di suicidio è il suicidio fatalista.
Spesso è la conseguenza di una forte pressione delle norme e dei valori del gruppo che risultano alla fine insopportabili per i più deboli. Di una sopravalutazione isterica dello spirito di disciplina. Questo suicidio indica sempre che la società in cui avviene ha una forte regolazione sociale. Oggi le motivazioni per questo suicidio sono per lo più di natura economica o, in ogni caso, legate a dei fattori riconducibili alla sfera economica.
È un suicidio che ha sempre attirato l’attenzione degli psichiatri perché è comune tra coloro che soffrono di depressione.
Il quarto suicidio è il suicidio anomico, (da a-nomos, cioè, senza leggi, qui, la “a” ha una funzione privativa). È il suicidio di chi non vuole stare in balia delle leggi e dei costumi di una società che non accetta, di sottostare alle leggi, alle disposizioni o alle consuetudini che orchestrano quella che i sociologi chiamano la “competizione sociale”.
Più in generale per Durkheim l’anomia è un fatto molto comune di ogni società in trasformazione che subisce importanti cambiamenti sul piano economico e più generalmente quando esiste uno scarto importante tra le teorie ideologiche e i valori comunemente insegnati nella pratica della vita quotidiana.
In tutti e quattro i casi, come è facile costatare, per Durkheim c’è una compromissione della società nella storia e nelle ragioni dell’individuo che in essa vive e che, in qualche misura, la rende co-responsabile del suo stile di vita e del suo agire, ed è proprio questa co-responsabilità che sollevò le polemiche più feroci contro questo filosofo, perché l’epoca non era ancora disposta, intrisa com’era di individualismi e di egoismi sociali, ad accettare delle responsabilità di questa natura, anche e soprattutto perché non voleva essere coinvolta nella ricerca dei rimedi. Veniamo, adesso, all’ultimo dei sociologi che sono legati in qualche modo all’infanzia della sociologia e alla corrente positivista, Vilfredo Pareto, un italiano nato a Parigi nel 1848 e morto a Ginevra nel 1923.
Nei panni dell’economista, Pareto concepiva l’economia come una scienza che ha per oggetto le azioni logiche dell’uomo.
Sono quelle azioni in cui appare che le scelte e i mezzi impiegati sono obiettivamente adeguati al raggiungimento dei fini desiderati. Per questo eccentrico sociologo l’uomo, anzi, l’homo oeconomicus, è guidato dai fini, cioè, dai sui gusti, dalla sua educazione, dalle sue mete ed agisce quasi sempre entro degli ambiti determinati dai mezzi e dalle disponibilità.
Partendo da questo modello di tipo meccanicistico dell’equilibrio economico generale, la sua sociologia si proponeva di trovare le condizioni che garantirebbero l’equilibrio del sistema sociale. Ma siccome, come dovette ammettere, nessun sistema sociale è costituito solo da azioni logiche, Pareto introdusse nelle sue riflessioni anche le cosiddette azioni non-logiche.
In altri termini, egli arrivò alla conclusione che l’uomo non ha sempre una grande consapevolezza di ciò che fa ed è questo che inceppa il meccanismo di realizzazione dei fini. Pareto, in sostanza, concluse che in generale le azioni logiche dovrebbero essere soprattutto quelle economiche.
Pareto costatò anche che l’individuo sociale, pur agendo in modo non-logico, cosa che lo fa assomigliare – come lui scrive – alla specie animale, rispetto a quest’ultima presenta la caratteristica di accompagnare i propri comportamenti con delle formulazioni verbali la cui funzione è quella di fornire un motivo apparentemente logico del comportamento stesso.
Compito della sociologia, dunque, è di spiegare quali sono le costanti del comportamento sociale non-logico e quali sono i caratteri e le funzioni del discorso sociale.
Intanto, quali le azioni non-logiche? Sono le azioni in cui i processi induttivi e deduttivi sono alterati da errori di giudizio. Questi errori sono in genere individuali, ma possono riguardare ed è molto più grave anche gruppi d’individui o intere classi sociali.
È facile constatare che questo problema, oggi, si è ingigantito con l’avvento dei sistemi mediali di comunicazione nei quali è riconosciuto un grande potere ai testimoni (in genere personaggi famosi) d’influenzare le masse o, come si dice oggi, l’opinione pubblica e di manovrare i consumi e i consensi politici. Che cosa c’è di più illogico di comprare una determinata automobile perché ce lo suggerisce un giocatore di calcio o un frigorifero perché ce lo propone una bella attrice in mutandine? Soprattutto, perché, a mente fredda ridiamo di queste cose e poi, al dunque, ci caschiamo?
Dall’analisi del pensiero di Pareto si deduce che egli considerasse come uno degli obiettivi principali della sociologia quello di analizzare ed interpretare quelle azioni e quei comportamenti collettivi che appaiono come irrazionali.
In questa ottica e con le dovute approssimazioni sono azioni-non logiche quelle che sfuggono allo schema mezzi-fini. Riassumendo per questo studioso: La scienza economica ci consente di conoscere il modo in cui operano gli individui in funzione dei fini che si danno.
La sociologia ci permette di entrare nelle ragioni che impediscono loro di agire o di non raggiungere gli obiettivi che vorrebbero.
Più semplicemente, la sociologia ci consente di mettere in evidenza i determinismi sociali, che limitano l’autonomia degli individui.
Per concludere una curiosità.
Pareto studiando la distribuzione dei redditi rilevò come una costante il fatto che in un dato territorio solo pochi individui possiedono la maggior parte della ricchezza.
Elaborando questa osservazione e confrontandola con altri fenomeni sociali arrivò a formulare la famosa legge del “80/20”.
Possiamo sintetizzarla così, la maggior parte degli effetti è dovuta ad un numero ristretto di cause. È una legge empirica ed è più conosciuta come il principio di Pareto. In sostanza, in molti campi delle attività umane, l’ottanta per cento dei risultati dipende dal venti per cento delle cause. Nell’economia come nei processi industriali.
Facciamo qualche esempio:
Il venti per cento dei possibili tipi di errori in un processo produttivo genera l’ottanta per cento dei difetti totali.
Oppure, l’ottanta per cento dei reclami di un servizio proviene in genere dal venti per cento dei clienti insoddisfatti.
L’ottanta per cento dei ricavi di una compagnia aerea deriva dal venti per cento delle rotte non in perdita.
L’ottanta per cento delle perdite del servizio sanitario si concentrano in un venti per cento di “aziende sanitarie locali” distribuite sul territorio.
***
Proviamo, adesso, a riassumere alcuni caratteri del discorso sociologico.
Come tutte le discipline empiriche anche questa disciplina ha della variabili e delle invarianze.
Tra le invarianze ricordiamo: L’interconnessione dei fenomeni sociali, da cui ne deriva la necessità di studiarli come un insieme di realtà correlate. L’importanza dei dati oggettivi, i soli che possono confluire nell’elaborazione delle teorie e, i soli che contano nei confronti tra le situazioni. La tendenza, sviluppatasi nella modernità, alla razionalizzazione della vita sociale, che si riflette su una semplificazione pragmatica dei comportamenti sociali. L’affermarsi del discorso scientifico come base per lo studio del consenso sociale e dunque, delle forme di evoluzione della socialità.
Da un punto di vista storiografico, invece, lo sviluppo della sociologia può essere per comodità distinto in quattro grandi fasi: La prima fase va dalla sua nascita ai primi abbozzi di sistematizzazione del suo discorso specifico, grossomodo dalla fine del ‘700 ad oltre la metà dell’800.
La seconda fase è caratterizzata dall’emergere degli studi specifici, cioè, da un tentativo di circoscrivere i diversi aspetti di questa disciplina in funzione dei diversi modi di intendere la società nel suo complesso a partire dai fatti. Questa fase va dalla seconda metà dell’Ottocento al 1930 circa. (Il libro di Durkheim sul suicidio è un esempio degli studi che caratterizzano questa fase.)
C’è poi una fase neo-sistematica che va dagli anni ’30, del Novecento, agl’anni ’50 circa. Sono gl’anni in cui si cercano le fondamenta specifiche della dottrina sociologica.
Infine c’è la stagione della sociologia critica, inaugurata dalla ricerca sulle teorie del conflitto sociale e successivamente estesa alla riconsiderazione dei suoi fondamenti ottocenteschi che, bene o male, arriva fino ai nostri giorni.
Per completare questa prima parte che, abbiamo visto, connette la storia della sociologia con le ragioni che l’hanno determinata e con i meccanismi cognitivi che la fanno funzionare, ritorniamo sul tema delle invarianze per vedere più da vicino alcuni autori che se ne sono interessati.
Queste invarianze furono l’oggetto di discussione di un grande filosofo della politica, un tedesco, un berlinese, come si definiva, ancora oggi molto apprezzato come giurista e studioso di economia politica, oltre che sociologo, Max Weber(1864-1920).
Per sintetizzare possiamo dire che l’obiettivo scientifico di Weber era di verificare se fosse possibile conciliare il capitalismo (come teoria economica) con la razionalizzazione delle forme sociali.
Weber, in beve, sosteneva che molte delle conclusioni che costituisco il corpo del discorso sociologico, non rappresentano delle verità, ma sono il frutto dei caratteri e dei criteri di ricerca che sono stati impiegati per studiare la società.
Per Weber, in estrema sintesi, le teorie sono le impalcature provvisorie per comprendere e catalogare i fatti.
Esse costituiscono una sorta di rifugio temporaneo alla conoscenza in attesa di potersi orientare nel caos dei fatti empirici.
In questi termini si può dire che Weber ha introdotto nelle scienze sociali la discussione sulla forma di teoria.
Nei suoi studi, soprattutto quelli del periodo del suo insegnamento ad Heidelberg, egli si fece promotore di una sociologia fondata sulla comprensione della realtà umana più che sulla spiegazione delle sue istituzioni oggettive. D’accordo con Georg Simmel (1858-1918), un altro sociologo tedesco di estrazione filosofica, Weber in qualche modo difende il carattere relativo della cultura e mette in luce i rischi di una sua razionalità esacerbata. Una razionalità che per Weber, tende inevitabilmente a diventare un carattere formale che possiede un suo naturale terreno di diffusione nelle forme della burocrazia, in tutti i loro aspetti, dallo Stato alla famiglia. La razionalità, per Weber, in determinate condizioni o in particolari momenti storici, può diventare impersonale, statica, ripetitiva e, alla fine, sostanzialmente repressiva rispetto alle esigenze di espressione spontanea o imprevedibili da parte dell’individuo.
Ma da dove hanno origine queste contraddizioni? Dal fatto, dice Weber, che nella società moderna spesso i mezzi tendono a subire una metamorfosi, a diventare dei fini.
Così, quelle che fino ad un momento prima sembravano delle strutture sociali, create per facilitare la vita degli individui, si trasformano, per così dire, in strutture autonome, astratte, autoritarie, diventino delle gabbie dalle quali è spesso difficile liberarsi o non essere oppressi.
Qui, siamo di fronte ad uno dei grandi temi della sociologia, quello della libertà.
Non lo tratteremo in modo specifico, diciamo solo che per Weber spesso le competenze tendono a diventare normative e si trasformano in punti di vista vincolanti. In questo modo gli aspetti soggettivi della vita finiscono per essere preda di quelli oggettivi e le regole generali e formali concorrono a condizionare la routine soggettiva del vivere.
Veniamo adesso ad un ultimo autore, Talcott Parsons (1902-1979), uno dei sociologi che hanno rinnovato la sociologia americana, nonostante abbia studiato in Europa. Era nato a Colorado Springs. Il libro più importante di Parsons s’intitola: The Structure of Social Action, la cui prima edizione risale al 1937. Il punto di vista di questo autore è di tipo funzionalistico.
La sua teoria, in questo senso, si definisce struttural–funzionalistica ed egli l’ha elaborò nel tentativo di riuscire a coniugare le scienze sociali con le scienze dell’agire umano, cercando una sintesi tra le idee di Durkheim, Pareto e Weber.
Il funzionalismo, come indica la parola, è una dottrina delle scienze sociali che fa uso del concetto di funzione. In sostanza predilige la ricerca delle condizioni in cui un determinato fenomeno si manifesta invece di esaurirsi nella ricerca delle sue cause in senso stretto.
Oppure, in parole più semplici, la ricerca di Parsons privilegia l’analisi delle conseguenze piuttosto che delle cause di un insieme dato di fenomeni empirici. Per Parsons la ricerca sistematica delle conseguenze va poi distinta anche da un’altra nozione delle scienze sociali, quella di scopo. Lo scopo, infatti, ha a che fare con le motivazioni coscienti degli attori sociali, mentre l’analisi delle conseguenze tiene conto anche delle motivazioni non-coscienti, non volute o inconsce.
In breve, La struttura dell’azione sociale di Parsons, parte da un assunto, che il comportamento individuale è il primo gradino di ogni ricerca sociologica, assolutamente necessario per arrivare a comprendere l’ordine sociale.
Appendice. Fino a quando la sociologia è stata la scienza delle spiegazioni dei fenomeni sociali e il suo oggetto è stato considerato astratto, le ricerche sono rimaste confinate nell’ambito della definizione delle sue metodologie.
Poi, con l’affermarsi della ricerca empirica e del fatto come il mattone del suo edificio formale. Con il nascere di una certa domanda di risposte “sociali” da parte del mondo del lavoro, dell’imprenditoria o, più semplicemente, del tempo libero, la sociologia cominciò a diversificare e a specializzare i suoi strumenti d’indagine e il suo linguaggio dando vita a numerose “sociologie“.
Una delle prime sociologie fu quella dell’industrializzazione, il cui tema centrale sono ancora oggi i risvolti sociali della tecnica e delle relazioni umane nei luoghi di lavoro. Come si può intuire è una sociologia che ha molti punti in comune con la politica e la cultura.
Accanto a questa sociologia troviamo la sociologia delle classi sociali che si è successivamente evoluta verso i problemi dei consumi, della emulazione sociale e degli stili di vita, come fattore d’imprinting tra le classi.
Ricordiamo la sociologia del lavoro, che ha avuta grande diffusione soprattutto nei paesi di lingua inglese.
Complementare a queste due sociologie è la sociologia della famiglia, intesa come una delle istituzioni della società. Per questa sociologia la famiglia è la fabbrica del privato, capace d’influenzare la società nel suo insieme e, di riflesso, di restarne influenzata. Controllare ideologicamente la famiglia – come sa bene la politica – significa controllare politicamente la società.
C’è poi la sociologia urbana, con i suoi studi sulla nascita delle metropoli e di molti fattori connessi, socialità, devianza, flussi migratori, eccetera. Questa sociologia si è di recente evoluta in una sorta di sociologia dei sistemi, per sottolineare il passaggio da una sociologia descrittiva ad una sociologia critica, che studia le forme urbane come se fossero sistemi collegati a sottosistemi, eccetera.
Altre sociologie, tra di loro connesse da quella che si definisce l’astrazione argomentativa, sono la sociologia delle religioni, la sociologia del diritto, la sociologia delle forme di conoscenza.
Sono discipline che sconfinano in continuazione nella morale e nell’etica, sollevando ampi dibattiti, come quello, oggi attuale per via dei flussi migratori, delle conseguenze di certi riti religiosi o legati
Per fare un esempio significativo prendiamo in considerazione la pratica dell’infibulazione e dell’escissione, cioè delle mutilazioni sessuali sulle donne. Secondo dati recenti di alcuni osservatori internazionali nel mondo circa 150milioni di donne hanno subito una qualche mutilazione sessuale. Queste mutilazioni si praticano ancora in circa 20 paesi africani e 4 asiatici (Yemen, Oman, Indonesia e Malesia). Si calcola che ogni giorno 6000 ragazze di età compresa tra i sei e i dodici anni subiscono mutilazioni genitali e che in Egitto, per fare un solo caso, l’80 per cento delle ragazze sono infibulate, anche se di recente questa pratica è stata messa fuori legge. Con l’infibulazione e l’escissione – cioè con la rimozione della clitoride – le donne non possono più provare piacere sessuale. A che scopo si fa tutto questo? Di fatto non esistono a questo proposito precetti di natura religiosa, l’unico scopo ammesso è di tutelare quella stupida cosa che si chiama l’onore dei padri e dei mariti togliendo alle donne un motivo legittimo per essere libere nelle loro scelte sessuali. La domanda, di per sé, è semplice:Dobbiamo imporre la nostra morale, così come abbiamo imposto un po’ dappertutto nel mondo i nostri stili di vita o, dobbiamo rispettare le tradizioni locali che molte culture si tramandano da decine di secoli? E’ giusto o ingiusto mutilare delle bambinette e perché? Se i genitori di queste ragazze vivono in Italia sono liberi di mutilare le loro figlie o devono sottostare alle nostre leggi e alla nostra cultura, che di recente ha deciso di punire questa pratica? (L’Italia di recente ha detto “no” ed è stata varata una legge che punisce ogni forma di mutilazione sessuale.) In questo contesto la questione del velo femminile è analoga anche se è infinitamente meno drammatica, ma proprio per questa più subdola sul piano dell’affermazione dei principi sulla libertà della persona.
Ci sono poi le sociologie minori, del turismo, del tempo libero, dell’abbigliamento e della moda, così come ci sono sociologie nate da pochissimo, come quelle legate all’impatto ambientale delle biotecnologie o al formarsi di nuclei di realtà virtuali.
Possiamo fermarci qui, non senza aver ricordato la sociologia economica, quella della ricerca scientifica, la sociologia della comunicazione, alla quale dedicheremo parte di questo corso e, per finire la sociologia dei gruppi, che oggi sta diventando sempre più importante, sia per lo studio del mercato dei beni di largo consumo, sia per lo studio delle mode, delle opinioni, o delle élite, che condizionano le abitudini legate al tempo libero e al loisir.
C’è infine un ultimo punto, non certo minore, da considerare prima di lasciare questa sezione sulla nascita di questa disciplina. Per la sociologia non tutti i problemi reali sono anche problemi veri e viceversa. Un problema, per un sociologo, è reale se si può tradurre in termini tali da risultare verificabile sperimentalmente.
Se può essere considerato un fatto…a prescindere dalla sua veridicità.
Per esempio, la sociologia può studiare le apparizioni degli UFO tra la gente, a prescindere dalla considerazione che gli oggetti volanti non-identificati siano navi spaziali aliene, esperimenti scientifici segreti o allucinazioni collettive. Di contro, esistono anche problemi reali che per la sociologia sono insolubili perché non sono traducibili in termini operativi. Non lo sono perché spesso ci sono delle volontà politiche che non vogliono affrontarli a causa delle conseguenze che potrebbero comportare o, più semplicemente, perché anche la sociologia è stata ed è ancora succube di volontà politiche forti. Negli stati del Sud degli Stati Uniti, prima della guerra di secessione, i neri o, meglio i “negri” venivano quasi sempre tenuti alla catena mentre lavoravano nelle piantagioni di cotone. Perché? Perché alcuni cattedratici di alcune università del Sud avevano riscontrato in questi neri una propensione alla fuga dal lavoro e dalla fatica. In altri termini, a differenza dei bianchi, non amavamo lavorare, non avevano principi morali ed erano portati all’ozio, ai vizi, al bere e al fare l’amore.