Parte prima:
Fondamenti di Sociologia e di Sociologia della comunicazione. EXCERPT
Sapientia prima est stultitia caruisse. Orazio.
Obiettivi formativi.
La sociologia, come scienza dei fenomeni sociali, costituisce uno dei più efficaci paradigmi per la comprensione della complessità e delle antinomie che caratterizzano il mondo moderno. In questa prospettiva si pone come uno degli strumenti più validi per conoscere il modo di formarsi della cultura, dei valori etici e sociali, degli stili di vita e dei nuovi mutamenti collettivi, come sono, oggi, la globalizzazione dei mercati e delle risorse, l’affermarsi delle società multietniche, l’incidenza dei mass-media sulle mode, i costumi e le abitudini.
L’obiettivo principale del corso è dunque quello di illustrare le dinamiche che conciliano e spiegano il vissuto, le passioni e le azioni, il fare degli uomini, con la cultura dei segni e dell’immaginario che domina la modernità e le sue rappresentazioni. Di favorire l’acquisizione delle metodologie per decifrare i significati del reale dietro le apparenze e i simulacri che lo appannano ed essere capaci di governarli.
Particolare rilievo, in quest’ottica, sarà dato alla comunicazione e alla sua storia, dai primi rudimenti verbali al computer e alle sue pratiche di rete. Al progressivo sforzo dell’uomo di abbattere i limiti tecnici e pratici che si frappongono alla circolazione dei saperi e delle conoscenze. Tutto questo considerato che siamo, di fatto, entrati in un’epoca nuova, in cui le forme culturali in qualunque modo espresse – immagini, suoni, testi – sempre meno dipendono dal loro corpo materiale e sempre più problematico appare il loro ciclo immateriale di produzione, circolazione, fruizione e riproduzione.
Nel corso delle lezioni saranno, di volta in volta, suggeriti allo studente i riferimenti bibliografici e gli strumenti necessari a sviluppare i molti e specifici argomenti della materia, tenendo costantemente conto dei loro interessi culturali e professionali.
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Parte seconda:
Sociologia generale e della comunicazione visuale. (omissis)
Testi di riferimento:
Anthony Giddens, Fondamenti di sociologia, 2006.
Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, 2008.
Jérome Bordon, Introduzione ai media, 2001.
Hal Foster, Il ritorno del reale, 2006.
(a cura di) A. Caoci e F. Lai, Gli “oggetti culturali”,2007.
(I testi di riferimento sono pubblicati nelle principali lingue europee.)
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Sociologia generale e dei processi culturali. (omissis)
Testi di riferimento:
Anthony Giddens, Fondamenti di sociologia, 2006.
Cornelius Castoriadis, L’enigma del soggetto. L’immaginario e le istituzioni, 1998.
Émile Durkheim, Le regole del metodo sociologico, 2008.
Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, 2008.
Hal Foster, Il ritorno del reale, 2006.
(I testi di riferimento sono pubblicati nelle principali lingue europee.)
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N.B.:Quello che segue è un EXCERPT della parte generale costituito da un documento a circolazione interna, ad uso scolastico, non redazionato.
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TOMO PRIMO.
Prologo.
La sociologia, oggi, è comunemente definita una scienza per l’interpretazione dei fenomeni sociali.
Nel linguaggio corrente il termine di sociale e di società (a cui la sociologia fa riferimento) hanno più di un significato.
Per esempio, è sociale tutto quello che costituisce un problema che coinvolge un individuo o una collettività. Per fare qualche esempio, la povertà, la droga, il bullismo, le migrazioni, le pandemie, le conseguenze dei disastri ambientali e climatici.
L’idea di società è più complessa, rinvia sia alle contrapposizioni funzionali che si formano nel corso del tempo, soprattutto tra le libertà individuali messe a confronto con le limitazioni che derivano dalla convivenza collettiva, che all’insieme concreto delle persone che formano le nazioni, i popoli, le etnie.
La sociologia oggi è indirizzata soprattutto ad analizzare ciò che è critico o che produce crisi, come sono i nuovi fenomeni di migrazione, le nuove forme dell’immateriale, le crisi dei valori morali, i rapidi mutamenti degli stili di vita così come di ciò che è funzionale al vivere collettivo, ma è in continua trasformazione, come il lavoro, le abitudini legate ai costumi, le forme di comunicazione e le reti.
In breve, studia i caratteri che formano l’individuo come studia le nuove forme di collettività che non sono più limitate all’antico paradigma dello Stato-Nazione. Studia le storie individuali come studia la vita dei gruppi. In questo modo appare come un punto di vista privilegiato sulla realtà umana e come una ricerca sull’uomo in quanto individuo che vive in gruppo.
In questo senso, sempre a grandi linee, l’oggetto della moderna sociologia bascula tra i sistemi d’interazione e i modelli di comportamento degli uomini in società.
Più precisamente la sociologia si occupa della società come un prodotto umano e dell’uomo come un prodotto sociale.
Per capitoli potremmo dire che essa studia:
– il divenire della società.
– le relazioni e le correlazioni tra i fenomeni sociali.
– i rapporti tra le varie componenti che costituiscono i sistemi sociali.
– le interdipendenze tra i valori, i significati e i simboli che formano la cultura.
– i fattori e le modalità dell’azione sociale.
– il linguaggio condiviso che consente la costruzione di un senso e che orienta i comportamenti.
– la costituzione e il funzionamento dell’organizzazione sociale e delle forze che in qualche modo la determinano.
Questa disciplina, poi, ha una peculiarità che deriva da essa stessa:
– sia perché gli uomini conservano sempre il loro libero arbitrio è quindi possono agire in qualunque momento anche contro la società.
– sia perché la società è un’entità notevolmente più complessa, articolata e dinamica delle parti che compongono il campo di studi delle scienze dell’uomo.
– sia perché chi la studia – il sociologo – fa parte di ciò che studia, dunque, non potrà mai essere obiettivo e sarebbe vano cercare di esserlo.
Tutto ciò senza sottovalutare il fatto che ci sono tanti modi di parlare della sociologia e della sua storia quante sono le teorie sulla quale essa si fonda e, per di più, ogni epoca tende ad elaborare in continuazione le rappresentazioni che meglio la rappresentano.
A grandi linee, nella stagione del positivismo, quando nasce, la sociologia si forma per accumulo di conoscenze oggettive. La sua storia corre parallela a quella dell’idea di progresso.
Segue una stagione in cui la sociologia si espande in tutte le direzioni della storia dell’uomo.
C’è chi, con un’espressione colorita, l’ha definita la stagione del “campo fiorito”. Ogni fiore è un argomento e da ogni argomento scaturiscono scuole e modelli di ricerca nei quali si accumula un’immensa riserva d’idee per l’interpretazione del mondo.
Verso la metà del Novecento, dopo la seconda guerra mondiale, nella sociologia si cominciano a ideare delle sintesi strutturali.
In altri termini, le scienze sociali di questo periodo definiscono il proprio paradigma sul quale far convergere la tradizione e la ricerca.
Qui, paradigma sta per modello epistemologico condiviso in un dato momento che la ricerca può accettare o mettere in discussione e che finisce per trasformarsi nel corso deltempo. Un esempio lo spiega bene. In astronomia il paradigma tolemaico fu per secoli accettato dagli scienziati, ma poi – mostratosi falso e inadeguato – fu rimpiazzato da quello copernichiano che consentì a questa scienza di continuare a svilupparsi.
Seguì una stagione in cui si riscoprirono e si riconsiderarono le preoccupazioni e gli interrogativi etici e morali dei grandi padri fondatori di questa scienza. Sono gli anni che vanno tra il 1960 e il 1980 circa.
Oggi siamo in una fase che si definisce contestualistica.
Vale a dire le teorie sociologiche sono trattate come se fossero degli strumenti ideologici per comprendere e adattare ai bisogni di un’epoca in rapida trasformazione.
In chiave politica è come se le diverse sociologie, in cui si divide lo studio della società, siano diventate dei mezzi con i quali si legittima l’ordine sociale, sia esso improntato alla conservazione, sia esso di natura progressista o innovatrice.
Parte prima.
Per cominciare conviene, prima di tutto, definire il campo “fattuale” della disciplina che studieremo. In pratica, significa rispondere ad alcune domande. Che cos’è la sociologia? Come possiamo definirla? Quando è nata? Che cosa ne ha determinato la nascita e quali sono i suoi obiettivi? Come questi si trasformano nel tempo.
In astratto la sociologia è la scienza che studia con i propri metodi e strumenti d’indagine i fondamenti, i fenomeni, i processi di strutturazione e destrutturazione, le manifestazioni della vita associata e le loro trasformazioni. Per questo essa è anche definita, come abbiamo visto, la scienza dei fenomeni sociali.
Per le scienze sociali un fenomeno sociale è caratterizzato dalla proprietà di esistere al di fuori delle coscienze individuali.
In questo modo gli individui se li trovano di fronte come realtà che preesistono loro e che sono indifferenti alla loro presenza a meno che questi individui non siamo in grado di mettere in campo degl’altri fenomeni sociali a questi antagonisti. In secondo luogo, i fenomeni sociali sono anche dotati di un potere imperativo e coercitivo in forza del quale s’impongono agli individui con o senza il loro consenso.
La parola sociologia fu coniata nel 1824 dal filosofo francese Auguste Comte (1798-1857) che, nel suo Corso di filosofia positiva, pubblicato nel 1839, la impiegò al posto di un’espressione allora più popolare, fisica sociale.
Un’espressione divenuta d’uso corrente a partire dalla seconda metà del ‘700 per definire lo studio positivo dell’insieme delle leggi fondamentali proprie dei fenomeni sociali.
Questa idea di una fisica sociale, come strumento per studiare gli uomini, può oggi apparire bizzarra, ma nella seconda metà del Settecento serviva a rivoluzionare un certo modo di vedere il mondo, a mettere in discussione le sue fragili certezze centenarie, a seminare il dubbio là dove gli antichi saperi costituiti avevano i loro acritici capisaldi, costruiti sulla sabbia dei luoghi comuni.
Apriamo, ora, una piccola parentesi su cosa dobbiamo intendere per positivismo. Il termine fu usato per la prima volta da Claude Henri conte di Saint–Simon (1760-1825) del quale, tra l’altro, Comte fu un collaboratore, per definire un metodo esatto, dal punto di vista scientifico, con il quale fosse possibile affrontare in modo razionale i grandi temi con i quali la società e gli uomini devono in continuazione misurarsi.
L’idea di partenza, invece, affonda nelle tesi dei filosofi illuministi, in particolare di Jean-Baptiste d’Alambert (1717-1783) e Jacques Turgot (1727-1781).
In seguito questo termine fu ripreso da Comte e divenne una vera e propria corrente di pensiero che, a partire dalla metà dell’Ottocento, si diffuse dappertutto in Europa.
Il problema non era tanto quello di sottrarre alla filosofia alcune sue competenze, quanto quello di orientare le ricerche sulla società dando loro come punto di partenza la sua natura empirica, fondarle sui dati concreti della vita vissuta.
Alla filosofia si rimproverava di non sapersi muovere oltre la semplice proclamazione dei principi fondativi di una società giusta. Di riflettere sull’ordine sociale lasciandolo, però, nella sua astrattezza di principio, senza metterne in discussione i contenuti e il senso.
Da un punto di vista storico, possiamo dire che il positivismo contribuì ad affermare il principio di una organizzazione scientifica della società (soprattutto di quelle industriali, vale a dire delle più progredite sulla strada del progresso) dando così un senso ad un grandissimo fenomeno, sociale, politico ed economico: la tecnica, intesa come una scienza dei mezzi, che si materializza nella tecnologia e da vita alla civiltà industriale.
Nel suo corso di filosofia positiva Comte, con un certo entusiasmo, sosteneva che lo spirito umano nel corso del tempo storico si è evoluto attraverso tre stadi. – Lo stadio teologico nel quale i fenomeni venivano spiegati attraverso il ricorso a entità soprannaturali. – Lo stadio metafisico o astratto che studiava i fenomeni attraverso il ricorso ad astrazioni filosofiche. – Lo stadio scientifico o positivo nel quale la ricerca delle cause ultime è abbandonata in favore dell’indagine sulle leggi, cioè sulle relazioni invariabili di successione e di rassomiglianza che connettono i fenomeni tra di loro.
Comte, dunque, coniò il termine di sociologia per designare la scienza che avrebbe dovuto sintetizzare tutte le conoscenze positive, svelare il mistero degli aspetti statici e di quelli dinamici della società e guidare alla formulazione di una politica positiva. In complesso le tesi fondamentali del positivismo si possono sintetizzare così: Primo.
La scienza è l’unica forma di conoscenza reale (dunque, possibile) del mondo. In altri termini, solo i principi scientifici e le cause analizzabili con il metodo delle scienze danno origine alla conoscenza.
Secondo.
Il metodo scientifico, di per sé, è di natura descrittiva, delinea i fatti e mostra i rapporti che intercorrono tra di essi. Esso per essere efficace deve essere capace di spiegare la genesi evolutiva dei fatti complessi a partire da quelli semplici.
Terzo.
Il metodo scientifico può essere esteso a tutti i campi dell’attività degli uomini perché è l’unico che ha in sé i fondamenti della ragionevolezza e funziona come una guida per lo studio dell’evoluzione della società.
Di fatto, oltre che nel discorso delle scienze dell’uomo, il paradigma del positivismo, nel corso dell’Ottocento, penetrò nella medicina, nella politica, nella giurisprudenza, nell’insegnamento, nell’economia, nella filosofia e in molte altre discipline ancora. Dunque, la parola sociologia rimanda ad un discorso sull’individuo come membro della società, cioè, ad una disciplina che studia il fondamento dei rapporti intersoggettivi (cioè, tra soggetti) come se fossero una scienza.
Torniamo, ora, alla parola sociologia.
Vediamone l’etimo. Esso è composto da due parole, una latina, socius (alleato) che sta ad indicare l’individuo in quanto membro della società, ed una di origine greca, logos, che qui sta a significare “un discorso su…(qualcosa)” Dunque, l’espressione di sociologia rimanda ad un discorso sull’individuo come membro della società, cioè, ad una disciplina che studia il fondamento dei rapporti intersoggettivi (tra soggetti) come se fossero una scienza.
A grandi linee sulla scia delle teorie di Auguste Comte troviamo Herbert Spencer (1820-1903), un filosofo inglese, di orientamento positivista, con grandi interessi per la psicologia. È considerato il padre della filosofia evoluzionistica ed è l’autore di un trattato di sociologia in cui, per la prima volta, le teorie di Charles Darwin sull’evoluzione sono applicato alle scienze sociali.
Notiamo, per curiosità che l’interesse di Spencer verso l’evoluzionismo nasceva da un sentimento antiautoritario, antidogmatico e antiaccademico che gli derivava dalla sua educazione.
Oggi diremmo che era un liberale e un libertario con un solo grande interesse: elaborare una teoria generale del progresso umano.
L’evoluzionismo, infatti, ebbe il merito di focalizzare l’attenzione sullo stretto legame tra passato, presente e futuro, facendo del passato non una storia morta, ma il materiale vivente, o con un’immagine suggestiva, il materiale geologico con cui l’uomo studia il suo presente, cerca d’immaginare il suo avvenire e gli dà un senso.
In questo contesto dobbiamo ricordare anche John Stuart Mills (1806-1873).
Mill è stato un filosofo ed un economista inglese, studioso di un particolare aspetto delle forme economiche, quelle espresse dall’utilitarismo che determinano i modelli delle scelte individuali. Di per sé le tesi sull’utilitarismo sono antiche, si possono far risalire addirittura ad Epicuro, vale a dire, al 300 circa prima dell’era comune. L’utilitarismo elaborato da Mills tende a legare il bene con l’utile e a trasformare l’etica e le forme della morale, in una scienza della condotta umana.
Mills in Inghilterra è ricordato con simpatia soprattutto dal femminismo perché fu uno strenuo partigiano del diritto delle donne al voto.
L’utilitarismo inglese ha un altro importante padre nobile in Jeremy Bentham (1748-1832). Bentham è un filosofo riformatore fautore di un piano organico di riforme sociali eque per tutti. Bentham è in genere conosciuto come il filosofo della felicità, avendo posto questo sentimento a guida e a motore dell’azione degli uomini. Le sue tesi possono essere riassunte in questo principio: Il dovere dei legislatori, dunque dei parlamenti e dei governi, è quello di assicurare il massimo della felicità possibile al maggior numero possibile di individui.
Una curiosità Bentham conosceva molte lingue e fu lui a tradurre in inglese il saggio di Cesare Beccaria (o, meglio di Cesare Bonesana marchese di Beccaria 1738-1794) Dei delitti e delle pene, 1763.
Tornando a Mills. Per lui la sola conoscenza possibile è quella empirica ed è il metodo della logica che deve guidarla.
Un metodo per creare inferenze (cioè, per arrivare a determinate conclusioni) fondato sull’induzione e la deduzione e, in sub-ordine, sull’abduzione (che è una sorte di sillogismo debole, come lo si definisce oggi in logica) in pratica, un metodo improntato ad un mero realismo metodologico. Mills, a questo proposito, è anche l’autore di un libro intitolato, Sistema della logica deduttiva e induttiva, uscito a Londra nel 1843.
Induzione. In filosofia si definisce induzione l’argomentare dal particolare al generale, più in generale, il risalire dalla conoscenza dei fatti alla conoscenza delle leggi che li regolano. Questo processo, nel linguaggio comune, si chiama “congettura”. Possiamo aggiungere che, quando la congettura diventa particolarmente barocca e tende al delirio o si nutre di elementi soltanto immaginati, prende in psichiatria un altro nome, quello di paranoia. (La gelosia, per esempio, come la paura sono due grandi stimoli alla costruzione dei processi paranoici.)
Deduzione. La deduzione, invece, è il contrario dell’induzione. Vale a dire è il processo logico con il quale si procede dal generale al particolare.
Induzione, deduzione ed abduzione costituiscono nella pratica scientifica tre degli strumenti più importanti del ragionamento scientifico e, in qualche misura, dialettico. Possiamo definire l’abduzione anche come una sorta di deduzione probabilistica.
Il suo concetto è stato elaborato dal filosofo americano Charles Sanders Peirce (1839-1914).
Riprendiamo il nostro discorso da un altro punto di vista.
Nelle società primitive o tribali non esisteva il problema di dover conoscere e riflettere sui fondamenti dell’ordine sociale. I rapporti sociali all’interno di queste società erano basati sui vincoli di sangue, di latte, di parentela e su credenze di natura magica o sacra.
Erano società semplici, con strutture organizzative elementari, poco dinamiche, con scambi e contatti ridotti con le realtà sociali esterne ad esse, spesso conflittuali.
La semplicità di cui parliamo è di tipo tecnico-organizzativo, questo non toglie che fossero culture ricche di contenuti immaginari e complesse nell’elaborazione dei contenuti simbolici.
Ad un certo punto, con la crescita demografica (che si ebbe grazie alla diffusione delle culture cerealicole cominciata in quella regione che oggi viene definita della “mezzaluna fertile”, che corrisponde grossomodo al Medio-Oriente) e, di riflesso, della complessità sociale, con il diffondersi dei commerci e dei trasporti, le strutture di tipo ancestrale cominciano ad entrare in crisi e a collassare. Questo collasso gli storici lo fanno risalire, per quanto riguarda l’area del Mediterraneo, al settimo/sesto secolo prima dell’era comune, a partire dalla Grecia, che allora esprimeva il modello di società più evoluta.
Sono gli anni che vedono nascere la forma della città-stato, delle polis. Città che, sia pure in modo embrionale, hanno inventato e sviluppato al loro interno delle configurazioni sociali diverse, in continuo movimento e spesso concorrenti tra di loro.
Da un punto di vista funzionale, in queste città-stato l’organizzazione comunitaria cominciò a formarsi principalmente intorno ai due temi contrapposti della solidarietà sociale e dell’interesse economico. La considerazione più importante è che queste micro-società tesero a diventare dinamiche, mirarono, cioè, ad un costante mutamento.
Le società primitive erano società statiche, lente, fondate su valori considerati divini, che si ritenevano eterni e indiscutibili. La città-stato greca, invece, è estremamente articolata, fluida e in qualche misura laica. Dalla polis è poi derivata la tà politikà, la scienza degli affari pubblici, la politica, che qui possiamo definire come l’insieme dei problemi che riguardano la polis dal punto di vista dell’esercizio del potere nel quadro della forma di Stato. Problemi che, nella sostanza, erano il riflesso di due preoccupazioni principali. Uno. Ricercare nuove forme di legittimazione, di delega e di controllo per coloro che dovevano guidare la polis, in pratica, esercitarne il governo.
È il tema della rappresentanza come lo chiamiamo oggi che crediamo di aver risolto con la forma della democrazia parlamentare. Due. Trovare e definire quelle regole che, se osservate da tutti, garantiscono la pace sociale e fanno prosperare il cosiddetto bene comune.
Ricordiamo, a questo proposito, due grandi opere di filosofia politica di quel tempo, La Repubblica di Platone (427-347 prima dell’era comune ) e la Politica di Aristotele (384-322 prima dell’era comune).
Va notato come questo antico pensiero politico veniva sviluppato soprattutto per via deduttiva, ovvero, come abbiamo visto, partiva da concezioni razionali astratte, di tipo divino e/o metafisico, dalle quali erano poi dedotti i principi che fissavano i criteri del buon governo.
In altri termini, possiamo affermare che a partire dal pensiero politico dell’antica Grecia, tra alti e bassi, comincia a farsi strada il criterio della razionalità, criterio che, con il crescere delle società antiche, finisce con l’emarginare sempre di più le concezioni di carattere idealistico.
Per riassumere, è dallo sviluppo di queste considerazioni che, sostanzialmente, nasce la teoria contrattualistica della società. Ne fu uno degli artefici principali un filosofo inglese, Thomas Hobbes (1588-1679). Il punto di partenza di questa teoria è che il mondo dell’agire umano è retto da leggi analoghe a quelle dell’ordine naturale. In questo modo si può arrivare a sviluppare una scienza della società umana che ha la stessa oggettività della geometria o della fisica, anche se questo modo di procedere implica una concezione meccanicista della realtà e, di riflesso, il convincimento che la società e il potere politico non sono affatto naturali per l’uomo, ma costituiscono una convenzione (un compromesso) per mettere fine allo stato d’insicurezza permanente che caratterizza lo stato di natura.
Oggi è una teoria che può apparire ingenua, allora rifletteva abbastanza fedelmente il pensiero laico del Seicento, soprattutto quello inglese.
Per Hobbes, dunque, le origini della società erano fondate su un patto, su di una specie di contratto liberamente espresso e, attraverso la rappresentanza politica, sottoscritto dai cittadini i quali, per sottrarsi al disordine dello stato di natura come stato a-sociale, caratterizzato dalla lotta di tutti contro tutti (homo hominis lupus), avrebbero convenuto (come male minore) di sottoporsi al governo di un sovrano assoluto. Di fatto, è una teoria che non va sottovalutata, soprattutto per le implicazioni che ebbe nel suo tempo. Vediamo le due principali. Pensata in questo modo la società diventa un prodotto storico, un prodotto convenzionale privo di una sua necessità ontologica o di un destino, cioè, di “un dover essere così”…per esempio, per volere di Dio o di un ente superiore.
Come sosterranno le correnti illuministiche settecentesche, se la società scaturisce da un patto tra gli uomini, questo patto si può anche rivedere e, magari, riformulare completamente. Nulla esclude, poi, che la revisione di questo patto possa avvenire – se chi detiene il potere non è disposto a cederlo – anche con una rivoluzione, come sogneranno molti uomini dell’Ottocento europeo e tutti i movimenti riformatori d’ispirazione socialista.
Il passaggio dal Seicento al Settecento delle teorie sulla società segna anche quello del passaggio dal modello matematico-deduttivo di Hobbes, che derivava dai principi universali le forme delle sue applicazioni pratiche, al metodo dialettico-induttivo, che invece parte dall’osservazione dei fenomeni particolari per arrivare a determinare le leggi universali e i principi che sono loro sottese.
Ricordiamo, tra coloro che promossero questo progresso delle idee, il filosofo scozzese David Hume (1711-1776) e soprattutto Charles–Louis de Secondat, conte di Montesquieu (1689-1755), filosofo, giurista e saggista.
Il Settecento, poi, fu il secolo dell’Illuminismo e degli Enciclopedisti francesi che raccolsero l’eredità dell’empirismo inglese.
L’Illuminismo è un movimento di idee caratterizzato dalla convinzione di poter risolvere tutti problemi della società con i soli lumi della ragione e a dispetto di ogni rivelazione religiosa o di ogni tradizione.
È il secolo di Diderot, D’Alambert, Rousseau, Helvétius, Voltaire e dei primi filosofi materialisti tra i quali spicca la figura di Paul-Henry barone d’Holbach.
Per semplificare, diciamo che gli illuministi rimproveravano ai filosofi che li avevano preceduti di non aver considerato con la dovuta importanza i fenomeni “fattuali“, ma di essersi inutilmente infatuati delle teorie astratte.
Ciò implica che, per gl’illuministi, e questo rappresenta una grossa novità metodologica, la spiegazione razionale non viene mai prima dell’osservazione, come se fosse una dote innata dell’individuo, ma è indissolubilmente legata al mondo dei fenomeni dei quali costituisce il nesso.
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Proviamo adesso, ad intrecciare la domanda relativa a quando è nata la sociologia con quella che s’interroga sulle ragioni della sua comparsa.
In altri termini è essenziale capire, prima di procedere oltre, perché, la sociologia e, in generale, tutte le scienze sociali hanno avuto la loro culla nel corso dell’Ottocento. Capire perché scienze come la psicologia, la psicanalisi, l’antropologia, l’etnologia, la pedagogia, la psichiatria, la criminologia, la biologia, eccetera, ognuna nel suo specifico campo di studi, erediti, sia in misura diversa, il patrimonio della filosofia classica e in un certo modo, i suoi progetti.
Tutte queste discipline rappresentano il tentativo di reagire ad una crisi di portata epocale, la crisi della metafisica, cioè, di quel discorso sulle cose del mondo che si pongono oltre la fisica, dunque oltre gli aspetti materiali della mondanità e che apparentemente la sostengono. La parola metafisica è di origine greca, indica, alla lettera, l’azione di pensiero che oltrepassa gli aspetti fisici del mondo: meta ta phusika, dopo la fisica.
Nello specifico è un’espressione che si fa risalire ad un grande filosofo greco o, più correttamente, macedone, Aristotele (384-322 a.c.).
Con essa si indicano i suoi studi sulle cause prime e i principi che governano tutte le cose. Meglio, raccoglie quegli studi che non si possono classificare né come logica, né come fisica, né come etica, i tre rami canonici che compongono la sapienza greca.
Poiché questo non è un corso di storia della filosofia, limitiamoci ad osservare che la crisi della metafisica corrisponde nella modernità ad un’altra grande crisi, la crisi della conoscenza.
La crisi di un modello di pensiero che si credeva oggettivo, che aveva preteso di studiare le cause che muovono il mondo e che s’illudeva di essere al di sopra delle opinioni e delle credenze, così come, al di sopra delle osservazioni dell’esperienza pratica e sperimentale. Questa crisi della conoscenza corre parallela alla nascita dell’idea di modernità che, per convenzione, la maggior parte degli storici fa risalire alla Rivoluzione francese, vale a dire al 1789.
Il termine modernità appare per la prima volta in un testo di Honoré de Balzac (1799-1850) per indicare la presa di coscienza della singolarità dell’epoca, in materia letteraria ed artistica, in rapporto al passato. Per estensione è diventata il carattere proprio di un mondo, una società, un’epoca che sa che il passato non rinvia più a nulla. Certi storici fanno risalire la modernità, come coscienza di un cambiamento irreversibile delle cose, al Rinascimento, altri al XVII secolo, cioè all’Illuminismo, altri ancora alla rivoluzione industriale del XIX secolo. La data del 1789, quella della Rivoluzione Francese, è quella più accettata e, in qualche modo, la più suggestiva.
Di fatto, la crisi della conoscenza classica si colloca tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, gli anni in cui si conclude anche la parabola dell’Illuminismo, che aveva mostrato come il mondo che abitiamo fosse più complesso di quello che sembrava e ancora per buona parte inspiegabile. Una inspiegabilità che metteva in luce, di riflesso, come, con il proseguire della conoscenza sperimentale, tutte le idee semplici ed astratte e tutte le invocazioni della fede religiosa non servissero più a nulla. Questa crisi, che parte dal dissolversi del pensiero della metafisica, può anche essere interpretata come una crisi dell’umanesimo, delle sue speranze e delle sue utopie, e un grande impulso a ritornare ai fatti e alle loro logiche. In altre parole, con la Rivoluzione francese l’antico affresco del mondo, che era stato dipinto a cominciare dalla filosofia greca, va in pezzi dando vita a tutta una serie di tentativi per uscirne fuori.
Generalmente si chiamano conservatori o reazionari gli sforzi impiegati a ricomporlo e progressisti o rivoluzionari quelli impiegati per trovare dei nuovi e più avanzati equilibri.
Come abbiamo sommariamente visto, il positivismo e con esso l’empirismo logico o scientifico, lo storicismo, e il materialismo dialettico sono alcune delle correnti di pensiero che si formarono in questo periodo.
Pur con accenti diversi, in queste teorie la crisi della filosofia classica, e della metafisica in particolare, associata al progredire del pensiero scientifico, indusse molto presto all’affermarsi generale di una conoscenza fondata sui principi della razionalità invece che sui meccanismi della speculazione astratta.
Ma, c’è un fatto nuovo, decisivo per il mondo Occidentale, l’avanzare prepotente in tutti i campi della vita corrente, dagli affari alla politica, dalla morale al governo delle nazioni, di una nuova classe sociale, quella che aveva vinto la Rivoluzione francese e che adesso esigeva che le venissero riconosciuti quei diritti per i quali aveva preso le armi: la borghesia.
Bourgeois o Bürger, dal latino burgensis, erano detti nell’alto medioevo coloro che abitavano nei borghi anziché nel castello o nel contado. In genere svolgevano mestieri liberi anziché funzioni politiche, militari o religiose, oppure mansioni servili al servizio del castello. In questo modo per attività, luogo di abitazione e status, si differenziavano sia dai nobili che dal clero, per un lato, dai contadini e dai servi per l’altro.
Il 14 luglio 1789 la borghesia in armi e il popolo di Parigi assaltano la Bastiglia, ma nel suo diario Luigi XVI, quello stesso giorno scrive una sola parola: Rien.
Dunque, siccome le idee non cascano dal cielo, ma si formano e si sviluppano tra gli uomini, una tale rottura epocale che da vita alla modernità e a tutte queste trasformazioni è soprattutto l’effetto di questa nuova classe in ascesa.
La sociologia, dunque, come scienza della società, non poteva nascere in un altro momento. Essa era funzionale ad un nuovo modo di vedere il mondo, rispondeva alle aspettative di una classe sociale alla ricerca della sua identità, tanto che questa nuova disciplina non solo ne esprimeva i suoi punti di vista, ma la rafforzava nella sua consapevolezza e nelle sue determinazioni.