I Gender studies

I Gender studies.

(Bozza)

Nella cultura anglosassone sono chiamati Gender studies o Cultural & Queer studies un vasto campo di studi, di dibattiti e di controversie sulla questione dei gender.

Il significato di queste espressioni risente molto della loro storia recente, per cominciare diciamo che intorno al 1970 nelle università americane gli studi di gender diventarono molto popolari.

Questi studi erano indirizzati a dimostrare come le ineguaglianze – di cui sono vittime le donne nel mondo, oggi come ieri, si fondano su un’ideologia che tende ad accreditare (presentare) come naturale una ineguale divisione dei ruoli sociali tra uomini e donne.

Ineguaglianza o ingiustizia, va detto da subito, a cui hanno contribuito e contribuiscono in maniera più o meno determinante anche i paesi che si definiscono democratici e egualitari.

L’espressione di gender in inglese è polisemica, ma in sociologia appare oramai circoscritta al dibattito sul modo di formarsi dell’identità.  Nella lingua italiana genere aderisce bene al significato inglese, ma non possiede ancora quel senso che lo lega al tema dell’identità.  Lo stesso si può dire per la parola inglese sex che in italiano traduciamo con sesso.  Nella cultura latina questa espressione rinvia sia all’organo sessuale che al genere (maschile o femminile) determinato dal sesso stesso di cui è portatore il soggetto.

Ma qui c’è un problema.  Facendo dell’organo sessuale il contenuto dell’identità sessuale si banalizza e si toglie ogni significato all’elaborazione dell’identità sessuale, sia dal punto di vista del costume che dal punto di vista della percezione soggettiva della propria sessualità.

Nel 1972 uscì in Inghilterra un libro di Ann Oakley intitolato Sex, Gender & Society che divenne la bibbia delle femministe americane.  Ann Oakley è un’apprezzata sociologa inglese oltre che una scrittrice molto famosa.  Si è dedicata, in particolare, allo studio della sociologia medica per le donne ed è intervenuta con diversi contributi al dibattito sui metodi della ricerca sociale.

In questo libro la Oakley metteva in dubbio e in modo esplicito un’idea condivisa da molti, quella di un’equivalenza tra sesso e genere perché il fatto che il genere sembri qualcosa di naturale fa sottostimare la dimensione sociale attraverso la quale si accede all’identità sessuale e, in sub-ordine, all’identità in genere.

Se proviamo ad esaminare l’espressione di sessualità nella lingua italiana vediamo che abbraccia un campo di significati molto più vasto di quello di un semplice comportamento sessuale.

La sessualità, in sé, presenta almeno tre aspetti importanti:

– Quello di essere una pulsione a riprodursi che la specie umana condivide, sia pure in forma diversa, con tutti gli organismi viventi.

– Quello di esprimere il rapporto che ciascuno intrattiene con i propri organi genitali e con l’uso che ne fa.

– Quello di apparire come una rappresentazione sociale, determinata dalle norme e dal costume sociale che regolano i rapporti tra i sessi.

In breve, noi abbiamo un’identità sessuale e un’identità di genere che non deriva necessariamente dalla biologia.  In altri termini l’identità di genere è il modo in cui un individuo percepisce il proprio genere.

Un tempo il sesso di una persona era determinato esclusivamente da come apparivano i genitali.

Con la scoperta del DNA e dei cromosomi la determinazione divenne più accurata, ma al tempo stesso in qualche modo si attenuò la netta divisione genitale tra uomini e donne.

Ha scritto Simone de Beauvoir in quello che probabilmente è il suo libro più famoso, Il secondo sesso, uscito nel 1949:  Non si nasce donna, lo si diviene.

L’idea che il sesso delle donne è socialmente costruito dalla cultura – questa la tesi del libro – fece scandalo, ma non successe niente, ci vollero una ventina d’anni perché una nuova generazione di femministe soprattutto anglo-americane riprendessero questo concetto con l’espressione di gender.

Genere è una strana parola, per esempio nelle lingue neo-latine il genere maschile domina grammaticalmente il genere femminile.

Se dieci donne e tre uomini entrano o escono da una stanza si dirà che sono entrati o che sono usciti e non che sono entrate e sono uscite dieci donne e tre uomini.

C’è poi da osservare che le identità di genere sono divenute problematiche perché sono sempre meno differenziabili.  Negli anni ’20 del secolo scorso, al tempo del The Large Glass Marcel Duchamp poté disegnare nella parte bassa dell’opera, di fianco alla macina di semi di cioccolato, una serie di divise di professioni che non avevano un corrispondente femminile.  Oggi sarebbe impossibile e prima ancora ridicolo.

La tendenza delle identità a diventare sempre più complesse non corrisponde però ad una scomparsa delle norme che regolano il genere.  I transessuali – cioè coloro che credono di appartenere all’altro sesso e sognano di poter “correggere” il proprio corpo – e i transgender – che rivendicano un’identità di genere alternativa – testimoniano un problema sociale molto importante soprattutto per quanto riguarda il passaggio da un genere all’altro o ad un genere che non riconosciamo.

Se consideriamo il genere la traduzione culturale delle differenze naturali è evidente che i transessuali e i transgender non possono tener conto della loro costituzione biologica per creare la loro identità e questo nonostante il progresso della chirurgia plastica e dell’endocrinologia.

Per riassumere, la nozione di genere rinvia agli aspetti sociali della differenza tra i sessi (cioè, al modo di vestire, di parlare, di muoversi, di posizionarsi sulla scena sociale).

La nozione di sesso rinvia agli aspetti biologici e alla sua dimensione empirica.

Oggi il genere assegnato corrisponde al genere di nascita.

L’identità di genere, invece, rinvia oltre che alla sessualità biologica anche all’identità sessuale vissuta.  Il ruolo di genere invece costituisce l’insieme delle pratiche e delle aspettative veicolate dalla propria soggettività.

Negli Stati Uniti in particolare ci sono poi altre due identità sociali che sono diventate socialmente importanti, soprattutto a livello psicologico.  La FTM, female to male, vale a dire la figura di una donna biologica che è divenuta un uomo.  La MTF, male to female, che corrisponde all’inverso, ad un uomo biologico che è diventato una donna.

Le teorie post-moderne sull’onda di questa attualità hanno contribuito alla nascita del movimento Queer.  Questo movimento esprime una posizione radicale all’interno della discussione sui generi.

Per i Queer quello che il soggetto vuole come genere si può definire una performance, parola che potremmo tradurre con prestazione.

In pratica è come dire che il genere non ha altro riferimento che non sia il soggetto, o meglio, che il soggetto vuole come genere a prescindere da qualunque altra considerazione.

L’individuo così, recita o interpreta la mascolinità e la femminilità scelta per acquisire un’identità corrispondente che sia valida per se e per gl’altri.

Teoricamente, come sappiamo da tempo, si può intervenire a diversi livelli dell’apparenza o dell’apparire – vestiti, maquillage, modo di camminare e di gesticolare, timbro di voce – al fine di sembrare maschile o femminile, ma non è ritenuto sufficiente.  Quello che conta per il movimento Queer è l’intimo convincimento di ciò che si vuol essere indipendentemente da come si appare.

Queste brevi osservazioni sottendono un problema sociale molto importante per la nostra epoca che investe anche le credenze religiose e la relazione con la malattia e la morte.

Vale a dire: Fino a che punto una persona può disporre del proprio corpo?

Oggi, si stima che il due per cento delle nascite presenta caratteristiche più o meno divergenti dallo stereotipo maschile o femminile.

Come abbiamo visto l’identità di genere va al di là della semplice sessualità biologica e coinvolge il ruolo di genere della persona.  Questo ruolo riguarda quell’insieme di elementi che suggeriscono agli altri la categorizzazione sessuale di un individuo.

Ricordiamo che gli aspetti che vengono associati a un genere piuttosto che a un altro variano notevolmente a seconda della cultura, dell’epoca, della condizioni sociali in cui vive una determinata persona.

In linea generale è costante nel tempo la tendenza a costruire categorie che possono essere più o meno rigide e più o meno polarizzate su un sesso, con una netta prevalenza,dal punto di vista del valore, del sesso maschile.

Un esempio recente.  In Cina dove una politica demografica sconsiderata in molte provincie ha imposto alle coppie di poter avere un solo figlio a generalizzato la pratica dell’infanticidio delle bambine appena nate.  Ma non è così dappertutto.

In Pakistan e nel Bangladesh sono chiamati hijra le persone che non sono considerate né uomini e né donne, queste persone da secoli hanno un ruolo di genere differente ben integrato nella società.

I nativi americani, quelli che noi chiamiamo pellirossa, accettavano prima di essere colonizzati i ruoli di genere differente e definivano queste persone portatrici di due spiriti.

Nella società polinesiana, a Samoa in particolare, il ruolo di genere è parte integrante del costume e non c’è nessuna discriminazione sociale fondata sul sesso.

In breve, il ruolo di genere è una serie di norme di comportamento associate ai maschi e alle femmine in un dato gruppo o sistema sociale.

Prima di spostarci su un tema connesso domandiamoci, questa questione dei generi è importante?

È una questione sentita a livello politico?  La risposta è si nei paesi di lingua inglese e di cultura protestante, meno nei paesi latini e di cultura cattolica.

Una prova?  Il primo di settembre in Australia è passata una legge per la quale sul passaporto degli australiani alla voce sesso, nel rispetto dei diritti umani, ci saranno tre caselle da riempire, femmina, maschio oppure “x”, vale a dire, transgender.

Una delle ragioni per cui abbiamo parlato dei generi non è tanto la difesa delle inclinazioni sessuali di ciascuno di noi, quanto il fatto che sui ruoli di genere si è formata e strutturata quella che è usualmente definita la famiglia nucleare.  La famiglia nucleare, formata da un padre, una madre e dei figli, a partire dal secondo dopoguerra, cioè, a partire dalla metà del secolo scorso, è diventata come abbiamo osservato nel corso base la cellula della società moderna.  Infatti, controllare la famiglia significa controllare la società, ma per controllare la famiglia con la persuasione occorre conoscerla.

Negli USA, sulla scorta della teoria della famiglia di Talcott Parsons si è ritenuto per molto tempo che il ruolo femminile fosse di tipo espressivo, mentre quello maschile fosse di tipo strumentale.

Cosa vuol dire?  Che il ruolo delle donne in una famiglia doveva esprimersi nell’arte di rafforzare i legami interni ad essa, mentre quello dell’uomo doveva sviluppare le relazioni esterne e sociali e insieme provvedere al supporto monetario per mantenere la famiglia stessa.

Da qui i due modelli divergenti di famiglia, quello improntato sulla separazione dei ruoli e quello caratterizzato dalla loro dissoluzione.

Nel campo dell’istruzione nel primo modello si esaltano le specializzazioni professioni maschili che si ritengono superflue per le ragazze.  Nell’altro si privilegiano le cosiddette scuole co-educative, che hanno gli stessi contenuti e qualifiche per tutti a prescindere dal sesso.

Nel campo delle professioni per il primo modello il posto di lavoro è prioritario per gli uomini e l’avanzamento professionale deve essere considerato importante per questi e secondario per le donne. Nel secondo modello al contrario la carriera e le opportunità devono essere uguali per tutti e comunque non discriminanti in base al sesso.

Nel campo della gestione della casa e dei figli, nel primo modello la loro cura è vista come il compito principale della donna ed è ritenuto secondario per gli uomini.  Al contrario, nel secondo modello le faccende domestiche sono svolte da tutti e l’educazione dei figli e un compito equamente diviso tra i genitori.

Per quanto riguarda il potere decisionale nell’ambito della famiglia nel primo modello in caso di conflitto l’uomo ha sempre l’ultima parola, soprattutto nelle scelte che riguardano dove risiedere, le scuole per i figli, gli acquisti importanti, le vacanze.  Nel secondo modello l’uomo e la donna si spartiscono queste funzioni in parti uguali e in base alla loro esperienza.

Naturalmente questi due modelli esprimono delle posizioni estreme difficili da rilevare nella vita di tutti i giorni.

Più realisticamente il comportamento degli uomini e delle donne si colloca a metà tra questi due modelli, ma è importante notare che questi modelli hanno dei risvolti significativi che vanno ben oltre il nucleo familiare.  In pratica c’è un influenza emulativa, che può essere reciproca, sul comportamento dei parenti e degli amici, sulla comunità in cui si vive, sul quartiere in cui si abita.

Un’influenza che arriva fino alle opinioni politiche e ai giudizi morali.

Naturalmente dentro questi due modelli e nelle loro varianti i ruoli non sono fissi, ma vengono in continuazione rinegoziati dagli attori sociali.  Si rinegozia soprattutto il modo di vestire, la scelta del lavoro, le relazioni interpersonali, lo stato genitoriale, i giudizi legati al costume e alle abitudini.

Questa rinegoziazione a sua volta contribuisce a formare l’identità sociale di gruppo.

Gli uomini, come sappiamo, tendono naturalmente ad aggregarsi e il gruppo è in qualche modo il luogo in cui si plasma la loro identità sociale.

In questo quadro come c’è il gruppo di appartenenza ci sono quelli di non-appartenenza, verso il primo si ha in genere un atteggiamento benevolo, verso i secondi si va dall’indifferenza all’ostilità.

La Social Identity Theory, come viene chiamata la disciplina che studia questi processi sostiene che l’identità sociale si struttura su questi tre step.

Il primo è quello della categorizzazione.

L’individuo ha la tendenza a costruire delle categorie discriminanti di appartenenza basate su i fattori più vari, età, genere o sesso, posizione sociale, lavoro, religione, convinzioni politiche, tifo sportivo, ideologie culturali di riferimento, gruppo etnico, eccetera.

Queste categorie discriminanti tendono a massimizzare le somiglianze all’interno del proprio gruppo di riferimento e a massimizzare le differenze verso gli altri.

Il secondo step è quello dell’identificazione.

Tutti noi di fatto apparteniamo a più gruppi e questi concorrono a fornire le basi psicologiche della nostra identità sociale.  Alcuni gruppi, naturalmente sono più importanti di altri, altri gruppi possono essere transitori ed aggregarci per fatti specifici, com’è per esempio la tifoseria.

Il terzo step è quello del confronto sociale.

L’individuo è portato in continuazione a confrontare il proprio gruppo di appartenenza con gli altri gruppi valorizzando il proprio e svalutando gl’altri.

Ciò può indurre a sentimenti errati di autostima e ad assumere atteggiamenti di superiorità che possono essere pericolosi quando spingono ad un confronto sociale, come avviene spesso, nelle comunità chiuse, nei confronti degli immigrati.

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