SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE
(PARTE SECONDA)
La velocità (più ciò che ne consegue: l’accelerazione della vita corrente) e i numerosi cambiamenti tecnologici, intervenuti a partire dalla seconda metà del secolo scorso, hanno disegnato un mondo costituito da realtà separate e conflittuali, delimitate da confini sia reali che simbolici, spesso delineati con cura e difficili da ridurre a un unico paradigma se escludiamo quello della globalizzazione economica.
In altri termini, per secoli la coincidenza di territorio, cultura, lingua e popolo – che si intravede dietro questo mondo, sostanzialmente ideologico e politico – ha rappresentato una delle più importanti motivazioni per la nascita e la costruzione degli Stati nazionali.
Un mondo che ritroviamo celebrato e commentato sia in molte opere letterarie, artistiche e musicali, che in molte analisi politiche, economiche e sociologiche, opere ed analisi che hanno spesso alimentato rimpianti, nostalgie e rivendicazioni di ogni genere. (Un esempio di scuola è il risorgimento italiano).
Ma poi con la fine del ventesimo secolo è in modo accelerato (imprevisto per i più) si è verificato un importante sovvertimento del rapporto tra gli spazi nazionali e i territori locali. Tra gli spazi sociali e quelli politici. Tra gli spazi della cultura e quelli dei poteri transnazionali.
Questo sovvertimento – in molta parte dell’opinione pubblica – ha generato la convinzione che i linguaggi, le pratiche culturali, le relazioni sociali, i patrimoni simbolici, i manufatti (soprattutto quelli artigianali) siano radicati non già nello Stato nazionale, ma in luoghi e in comunità geograficamente definibili.
Va aggiunto che fuori dall’Europa storica i conflitti etnici, più o meno indotti e spesso segretamente finanziati, hanno rivelato come la forma di Stato nazionale è un coacervo di interessi diversi, quasi sempre in polemica o in conflitto tra di loro.
Interessi manovrati da gruppi spesso assimilabili a “comunità immaginarie” più che a un tessuto di comunanze sviluppate e omogenee.
In questa prima parte del nuovo secolo molti Stati sono stati attraversati da tensioni separatiste, altri sono stati messi in discussione da realtà locali in concorrenza tra di loro, altri ancora sono stati minacciati, soprattutto sul piano economico, da poteri sovra-nazionali.
In un suo saggio, il filosofo e sociologo tedesco Jürgen Habermas (uno tra gli ultimi e più autorevoli esponenti della Scuola di Francoforte) ha così riassunto il problema: “Uno dei principi più importanti elaborati negli ultimi due secoli dello scorso millennio – vale a dire la nozione di sovranità della coppia Stato/Nazione – è stato messo in discussione e si è frantumato tra autorità locali, regionali, nazionali, globali”.
Le nuove e massicce forme di migrazione, i nuovi sistemi di comunicazione digitale, le strategie finanziarie globali e i nuovi assetti politici, sono paradigmi (strutture argomentative) che hanno attraversato i vecchi confini e generato politiche e pratiche socioculturali inedite che hanno dato vita a inediti modelli di multipolarità territoriale.
Nella storia del mondo occidentale questi paradigmi sono sempre esistiti – disposti in aree più o meno vaste e contraddistinte dagli stili di vita, dalle relazioni sociali, dagli orientamenti ideologici, dai sistemi simbolici, dai manufatti e dagli artefatti – ma avevano una caratteristica: quella di poter essere iscritti in un unico schema ideologico di comprensione e di elaborazione più o meno condiviso o accettato.
E’ sufficiente pensare al ruolo delle religioni, a partire dalla chiesa cattolica, così come al ruolo giocato dai grandi imperi o, in chiave più sociologica, dalle tradizioni e dagli stili di vita.
Oggi tutto è cambiato, le idee si sono globalizzate, come si sono globalizzati i consumi, la morale e i costumi sempre più caratterizzati da una propensione all’esotico.
Le ragioni sono molte.
Dai sistemi di comunicazione di massa in tempo reale, alle nuove tecnologie di trasporto.
Dai movimenti reali (spontanei o indotti) di grandi masse migranti, al fascino dell’infosfera che spinge centinaia di migliaia di individui a sognare i nuovi paesi di Cuccagna e le nuove Calicut dello spettacolo. Sognare l’altrove.
Tutte ragioni che spingono a desiderare nuove patrie e nuove opportunità di vita, di lavoro, di affermazione di sé.
Oppure ragioni che spingono a fuggire guerre, carestie, persecuzioni religiose, repressioni politiche, disastri climatici e ambientali.
Sono le ragioni di individui su cui fa presa una circolazione vertiginosa di immagini, idee, oggetti, usi, consumi e costumi che hanno reso reale quella che nel 1968 fu chiamata la dittatura della forma di spettacolo.
Questa dislocazione di vissuti, progetti, merci, sogni e la concomitante con-presenza di mutazioni culturali e sociali (spesso di difficile definizione) ha, nei fatti, svalutato le ragioni di un organico rapporto di cultura, persone e territorio.
Sono processi in via di sviluppo, spesso incontrollabili, e riguardano l’intero pianeta.
Processi che hanno fatto conoscere in ogni angolo del mondo la facilità e la comodità dei collegamenti.
La velocità di circolazione delle informazioni.
I vantaggi della mobilità.
La varietà e la ricchezza dei consumi.
Circostanze che sono sempre esistite, ma che un tempo erano limitate alle élite, a cominciare da quelle imprenditoriali e finanziarie.
Questo non significa che siamo diventati tutti nomadi, molta parte dell’umanità è ancora dominata dai processi localistici, radicati e diffusi, spesso degradati o limitanti.
Tuttavia, le élite del pianeta – politiche, finanziarie, manufatturiere, militari, religiose, culturali e scientifiche – s’identificano sempre di più tra di loro, assumendo come modelli di vita i processi (a loro vantaggiosi) della globalizzazione.
Che cosa comporta tutto questo al di là dell’epifenomeno del nomadismo di élite?
Che le differenze – spesso profonde e radicate – che affliggono il mondo assumono fisionomie, percorsi, esiti assolutamente diversi dal passato.
Soprattutto, queste differenze fanno saltare le contrapposizioni classiche, come sono quelle tra culture dominanti e sub-culture, tra centro e periferia, sminuendo la visibilità tra colonizzatori e colonizzati.
In altri termini, dal punto di vista dell’identità i nuovi confini socio-culturali si spostano in continuazione senza alcuna linearità o logica apparente.
C’è poi da osservare che, un tempo, le diversità culturali andavano incontro all’assimilazione o al rifiuto, oggi, invece, si manifesta nei loro confronti un’attenzione mimetica.
Gli avversari dell’Occidente tendono sempre più a imitarne gli stili di vita e a volere i beni e le tecnologie che l’Occidente produce, feticizzandoli.
Il caso della moda abbigliamento e di molti congegni digitali è un classico.
Del resto, non solo i prodotti digitali, i beni di consumo e i divertimenti sono globalizzati, ma anche – a livello della qualità della vita corrente – la passività politica, il consumismo, la sottoistruzione, così come, a livello residenziale sono globalizzati le bidonville, i campi profughi, le tendopoli legate agli stati di eccezione, come sono quelli che derivano dalle attività militari o dai disastri climatici.
Ha scritto Arjun Appadurai – un antropologo inglese di origine indiana – appena le forze innovatrici provenienti dalle aree metropolitane sono portate all’interno di nuove società, tendono, in un modo o nell’altro, a subire un processo di indigenizzazione.
Questo processo riguarda la musica, l’abbigliamento gli stili abitativi, i procedimenti scientifici, il terrorismo, gli spettacoli, i prodotti alimentari di massa.
In altri termini, è sempre più frequente il caso di culture (soprattutto ex-coloniali) che riproducono o ricostituiscono la loro specificità sottoponendo le forme culturali transnazionali a un processo di indigenizzazione.
Ha notato il filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman, i processi e i prodotti culturali oramai tendono a svincolarsi da uno spazio definito, perdono la loro identità territoriale, divengono mobili e a volte liquidi.
Oggi, la pluralità culturale della città si manifesta nella costante presenza di localismi e nella continua ri-elaborazione del rapporto tra il locale e il globale.
Da tempo il tessuto urbano è stato ricomposto per fornire uno sfondo, ai materiali e alle occasioni per la celebrazione di rituali propri di ogni gruppo sociale che vuole affermare sia la propria diversità che il proprio inserimento nel contesto in cui si trova a vivere.
In questo contesto, i mezzi di comunicazione di massa svolgono un’azione di esaltazione, immettendo gli eventi e i loro protagonisti nella rete (culturale e digitale) che congiunge i diversi luoghi in cui risiedono i gruppi emigrati dalle stesse patrie e figli della stessa lingua.
È facile intuire come tutto ciò alimenti, musiche, vestiario, produzioni artistiche e artigianali, esperienze cucinarie che possono nascere sia come rimpianto, sia come rivendicazione di una identità lontana.
In queste condizioni la cultura – da quella di élite a quella popolare a quella diffusa dai mezzi di comunicazione di massa – tende a cambiare completamente tempi, modi e luoghi della sua produzione.
Essa può ancora conservare qualcuna delle sue radici, ma deve assimilare anche i nuovi paradigmi transnazionali e deterritorializzati che l’affiancano, la sovrappongono o la penetrano.
Così, i confini della colonizzazione continuano ad essere – in principio – territoriali e economici, per essere successivamente mescolati, sovvertiti, resi opachi dalla produzione di un immaginario nella forma, molto comune, di un orientalismo esotico.
In questo contesto anche lo studio della cultura è cambiato.
Per esempio, non è più importante il suo studio per aree geografiche specifiche, mentre è cresciuto il dibattito sulle diaspore, sugli esili, sui movimenti migratori.
Ancora, sono stati fatti molti studi e ricerche sul ruolo della memoria nella formazione dei nazionalismi. Sono state realizzate delle inchieste sui modelli di articolazione metropolitana di centro e periferia e sulla crescente difficoltà a applicare i “diritti umani” davanti alla relatività delle culture.
Per concludere, voler studiare le nuove interrelazioni tra cultura e territorio implica porre l’accento sui processi del nomadismo contemporaneo sia a livello globale che a livello locale, con particolare attenzione alla vita corrente, ai sogni, alle speranze e ai vissuti.
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Da almeno un ventennio a questa parte la definizione più funzionale di informazione è quella di “dati” più “significati”.
Dati che, per essere dotati di significato, devono rispettare:
– i significati del sistema scelto.
– il codice e/o il linguaggio in questione.
Va aggiunto che i dati – che costituiscono un’informazione – possono essere dotati di un significato indipendentemente dal destinatario dell’informazione.
Perché partiamo da qui?
Perché lo sviluppo dei sistemi di comunicazione e di informazione ha conosciuto, a partire dalla seconda metà del Novecento, una grande e costante accelerazione, destinata ad avere, in questo secolo, importanti ripercussioni sull’economia, la politica, l’industria manufatturiera, oltre che sul costume, la cultura, gli stili di vita, i consumi, i conflitti militari.
Gli studiosi di scienze sociali ritengono che questo sviluppo stia trasformando profondamente le basi bio-sociali della conoscenza e del pensiero umano.
Per comprendere questa trasformazione occorre aggiungere che, tra le caratteristiche specifiche dei new–media di questo secolo, c’è anche quella di essere auto-promozionali, vale dire, sono capaci di promuovere se stessi.
Sono capaci di generano miti che alimentano l’immaginario collettivo e suscitano attese spesso impossibili da realizzare.
In questo contesto l’espressione ICT, Information and Communication Technology, ovvero, tecnologie dell’informazione e della comunicazione, viene usata per definire l’insieme dei metodi e delle tecnologie che realizzano i sistemi di trasmissione, ricezione ed elaborazione delle informazioni.
Da un punto di vista storico è a partire dalla fine della seconda guerra mondiale che, nella gestione e nel trattamento delle informazioni, l’uso della tecnologia, ha progressivamente assunto un’importanza strategica crescente sia per le istituzioni che per i singoli.
Oggi l’informatica – come noi chiamiamo i device (dispositivi) digitali e i programmi di software – e le telecomunicazioni – costituite dalle reti telematiche – sono i due pilastri su cui si regge la società dell’informazione.
È complicato dare una definizione univoca delle ICT.
In generale possono essere considerate come una risorsa essenziale delle organizzazioni all’interno delle quali è sempre più importante riuscire a gestire in maniera rapida, efficace ed efficiente il volume crescente delle informazioni raccolte e lavorate.
In questo senso – le ITC – possono essere considerate come uno strumento strategico in grado di elaborare dati e informazioni qualitativamente evoluti e complessi.
Più in generale, il fine ultimo delle “tecnologie dell’informazione” è la manipolazione dei dati tramite la conversione, la conservazione, la protezione, la trasmissione, il recupero, con l’aiuto dei computer e delle tecnologie ad essi connessi.
In sociologia con l’espressione tecnologia dell’informazione viene indicato l’uso della tecnologia nella gestione e nel trattamento delle informazioni, in particolare, nell’uso delle tecnologie digitali, che consentono di creare, memorizzare, scambiare e utilizzare dati nei più diversi formati: numerico, testuale, video, auditivo, iconico e altro.
La trasmissione di informazioni tra calcolatori connessi fra loro, realizzata a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, costituisce poi un fenomeno di grande portata pratica e concettuale.
Vale a dire testimonia la progressiva convergenza e integrazione di informatica e telecomunicazioni.
Questi due settori, in passato, si erano sviluppati indipendentemente l’uno dall’altro, perché le telecomunicazioni utilizzavano soprattutto tecnologie analogiche.
È solo a partire dagli anni ’70 che le tecnologie informatiche hanno cominciato a essere mutuate dalle telecomunicazioni.
Infine, dalla metà degli anni ’80, anche grazie alla diffusione dei personal computer, e iniziata quella che chiamiamo la rivoluzione digitale applicata al campo audio-visivo.
La successiva diffusione della telefonia cellulare, contemporanea alla digitalizzazione delle reti telefoniche e di tutti i media di comunicazione (voce, video, immagini, documenti) ha poi favorito l’integrazione e la globalizzazione di tutte le reti.
Oggi, la tecnologia dell’informazione comprende le reti di comunicazione, i sistemi di elaborazione (qualunque sia la loro architettura) e la multimedialità.
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“Le ICT sono dispositivi che hanno operato delle trasformazioni radicali, dal momento che costruiscono degli ambienti in cui l’utente è in grado di entrare tramite porte di accesso (possibilmente amichevoli), sperimentando una sorta di iniziazione all’infosfera.
Non vi è un termine specifico per indicare questa nuova forma radicale di costruzione, in genere si usa il neologismo RIONTOLOGIZZAREper riferirsi al fatto che tale forma non si limita solamente a configurare, costruire o strutturare un sistema in modo nuovo (come una società, un’auto o un artefatto, ma fondamentalmente, comporta la trasformazione della sua natura intrinseca, vale a dire la sua ontologia.
In questo senso, come ha scritto Luciano Floridi in, La rivoluzione dell’informazione, le ICT non stanno soltanto ristrutturando il nostro mondo: lo stanno riontologizzando”.
NOTA BENE. L’ontologia è un concetto filosofico complesso, per il nostro corso è sufficiente considerarla una rappresentazione formale – condivisa –di una concettualizzazione di un dominio di interesse.
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In breve, le ICT stanno costruendo dei nuovi ambiente informazionali nel quale i nativi digitali trascorreranno la maggior parte del loro tempo e questo è ciò che interessa – per le sue conseguenze – le scienze sociali.
Ritorniamo ora sulla relazione dei new–media con gli individui.
È un’opinione diffusa che le conseguenze dello sviluppo dei sistemi di comunicazione siano sostanzialmente ambivalenti.
– Alcuni ritengono che l’aumento delle informazioni e l’accresciuta velocità nella circolazione dei messaggi, tanto a livello micro (su scala locale), quanto a livello macro (su scala planetaria), non significano in modo automatico un miglioramento o un peggioramento nella qualità della vita individuale o della società.
– Al contrario, altri ritengono che i sistemi di comunicazione e di informazione abbiano portato a un inquinamento culturale e mentale che sta provocando un degrado dell’ambiente simbolico umano.
Un degrado che corre parallelo a quello della biosfera (la biosfera è definita in biologia come l’insieme delle zone della Terra in cui le condizioni ambientali permettono lo sviluppo della vita) e che altera non solo il modo di produrre, ma la stessa organizzazione economica della società.
Tutto questo comporta, con il continuo sviluppo dei new–media (considerati come degli apparati sociali nei quali sono incorporate tecnologie per la comunicazione a distanza), soprattutto nell’opinione pubblica meno scolarizzata o anagraficamente anziana, grandi paure e nuove illusioni.
Abbiamo detto apparati sociali perché la loro funzione principale è quella di connettere e/o di comunicare con il maggior numero possibile di individui e di istituzioni, riducendo al minimo i tempi di diffusione dei messaggi.
Come abbiamo visto nel corso di questo ultimo mezzo secolo gli apparati sociali hanno favorito il moltiplicarsi di contatti fra culture lontane e accresciuto gli scambi a livello planetario.
Sono stati un indubbio e particolare fattore di sviluppo, anche se ciò non ha escluso che esistano fattori ambientali che possono ostacolare o distorcere la loro funzione e contribuire ad inquinare l’identità delle culture più deboli.
Il questo senso, il primo fattore ambientale di una certa rilevanza è costituito dal capitolo della disuguaglianza sociale.
La mancanza di istruzione e le condizioni di vita precarie in molte aree del pianeta (spesso al limite della sopravvivenza) escludono ampi settori della popolazione dalla fruizione dei new-media.
Per di più, come molte indagini hanno portato alla luce, lo sviluppo dei sistemi mediali e l’affermarsi di quella che viene chiamata la società dell’informazione non contribuisce a ridurre il gap esistente tra paesi ricchi e paesi poveri, ma tende a un suo aggravamento, generando nuove e più insidiose forme di disuguaglianza sociale e di ritardo culturale.
Un altro ostacolo alla funzionalità dei new-media è costituito dal fatto che in linea generale in tutti i paesi – compresi quelli che si definiscono democratici – essi subiscono, in una forma o in un’altra, condizionamenti da parte degli ambienti politici, economici, finanziari e militari, e sempre più spesso sono sottoposti a forme di controllo più o meno esplicite da parte di strutture più o meno legali e riconosciute.
Va aggiunto che i new-media, che abbiamo definito come apparati sociali, sono organizzati in base a routine formalizzate e dunque anch’essi sono soggetti a quel fenomeno che in sociologia viene chiamato di goal displacement, vale a dire, sono sottoposti a una distorsione degli scopi primari per il quali sono stati costituiti.
Le ragioni classiche di questa distorsione possono essere le più diverse, economiche, strategiche, tattiche, politiche.
Tra queste ragioni una delle forme più subdole di goal dispacement, perché inavvertita anche da chi ne è un attore, è la cosiddetta auto-referenzialità.
In cosa consiste?
Nel fatto che sempre più spesso coloro che hanno a che fare coi new–media – giornalisti, dirigenti politici, professionisti dei vari campi della comunicazione – invece di rivolgersi al pubblico e tenere in conto le sue esigenze, finiscono per dialogare tra di loro o con quei pochi che hanno un accesso privilegiato alle fonti d’informazione – come sono gli opinion leader, i grandi manager, gli intellettuali, insieme ad alcune categorie di personalità ritenute, non importa se a torto o a ragione, influenti, dai campioni sportivi ai divi dello spettacolo.
Per le scienze sociali questa auto-referenzialità dei new-media spicca nella sua evidenza se si considera l’importanza attribuita agli eventi e al modo di formarsi delle priorità comunicative (in fatto di temi etici, economici e sociali) e al modo di prodursi delle agende politiche (sia di chi governa, che di chi sta all’opposizione).
Con l’inevitabile conseguenza di uno scollamento tra le élite del potere e l’opinione pubblica.
Tra gli effetti paradossali, prodotti dall’espansione dei sistemi di comunicazione, vi è anche quello per cui quanto più cresce la quantità dell’informazione diffusa dai new–media, tanto più si appanna, si confonde o diminuisce l’attenzione del pubblico.
In altre parole, più i new-media allargano l’area della comunicazione, meno riescono a farsi sentire e più perdono di autorevolezza.
Si tratta di un fenomeno di saturazione che molti spiegano utilizzando il paradigma dell’utilità marginale che è alla base di molte analisi economiche classiche.
In linea generale, oggi, il valore aggiunto dei new–media, come è illustrato dal funzionamento dei mercati pubblicitari, è connesso alla loro capacità di attirare l’attenzione.
Come rilevano le indagini di mercato, il pubblico è in fuga dall’ascolto dei programmi televisivi e dalla lettura dei quotidiani. Anche se questo calo non è strutturale è tuttavia progressivo e si manifesta in tutti i sistemi mediali giunti a una certa soglia di sviluppo.
Di più, questo calo sembra irreversibile fuori dagli stati d’eccezione, come sono le catastrofi natali, le guerre, i grandi appuntamenti sportivi, eccetera.
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Facciamo un breve excursus riepilogativo, partendo dalla prima metà degli anni ’80, quando il sistema dei media andò incontro a una serie di cambiamenti importanti e rapidi.
Per cominciare è sufficiente ricordare che sino a quella data in quasi tutti i paesi del mondo occidentale, vi erano soltanto pochi canali televisivi, spesso monopolio di Stato e in bianco e nero.
L’introduzione della televisione a colori, avvenuta in quel periodo, apparve da principio solo come un miglioramento tecnologico, in analogia con quello che era successo nel cinema con l’introduzione della pellicola a colori.
Poi, più o meno nello stesso periodo in cui fu introdotto il colore vi fu l’esplosione della videoregistrazione e l’arrivo sul mercato dei primi compact disc.
Questo portò alla nascita di un nuovo settore di consumo mediale, quello del home video.
Sul piano strutturale la conseguenza di queste innovazioni fu di portare a una convergenza e a un uso combinato delle diverse tipologie di produzione audiovisiva, diminuendo i tempi di circolazione deiprodotticomunicativi e riducendo drasticamente l’intervallo che separa la produzione dal loro consumo.
Tra le innovazioni tecnologiche di quegli anni va ricordato anche il telecomando, che si è rivelato
più di una comodità, avendo determinato la nascita dello zapping.
Zapping, da (to) zap, eliminare, uccidere, e in gergo, spingere con forza o eliminare. È il cambiamento continuo, il rapido passaggio da un canale all’altro della televisione, premendo freneticamente i tasti del telecomando per passare in rassegna i diversi programmi, specialmente durante le interruzioni pubblicitarie. In molti casi rappresenta una vera e propria forma di nevrosi che ha indotto molte produzioni televisive ad accentuare i ritmi della narrazione visuale.
In breve, tutte queste innovazioni produssero una trasformazione degli assetti formali dei media.
Per esempio, negli Stati Uniti nacque la CNN, un canale televisivo che trasmette soltanto informazioni, ventiquattro ore su ventiquattro.
Oltre a rompere il preesistente sistema oligopolistico, dominato da alcune grandi compagnie televisive, la CNN introdusse un nuovo modello di gestione delle informazioni: quello della televisione tematica a flusso continuo che diffonde i programmi via satellite o via cavo e si finanzia tramite abbonamento.
In Europa ebbe fine il monopolio statale dell’audiovisivo e si affermò un modello misto di coesistenza tra radiotelevisione pubblica e radiotelevisione commerciale.
In questo modo la pubblicità, che sino ad allora aveva avuto un’incidenza relativamente ristretta, s’impose come una componente centrale del palinsesto televisivo, investendo il vissuto quotidiano degli spettatori con i suoi stilemi e le sue metafore.
Rappresentava un nuovo linguaggio visivo che contribuì ad alimentare un inedito e complesso immaginario collettivo che a sua volta diede vita a nuovi modelli culturali di massa.
Nonostante fosse considerata, soprattutto dal mondo della cultura, come una forma di manipolazione e di persuasione occulta, la pubblicità divenne una tra le forme più originali di espressione della sensibilità e della cultura postmoderna…anche se lo divenne a spese dei consumatori e della loro capacità di giudizio.
Con il risultato che ancora oggi una affascinante signorina in abiti succinti induce a consumi inutili e a fidelizzarsi verso prodotti di massa di cui si potrebbe fare a meno!
In sostanza, il cambiamento sistemico sviluppatosi nell’ultimo decennio del ventesimo secolo portò a un diverso modo di considerare il mezzo televisivo e a mettere in questione il concetto stesso di comunicazione di massa, così com’era stato inteso in precedenza.
La comunicazione di massa, in senso classico, è la forma culturale che ha caratterizzato la società industriale di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento, quando i media non-cartacei di fatto non esistevano o erano fruibili solo da una élite. Tra l’altro, vale ricordarlo, la comunicazione di massa è stata una delle componenti che ha favorito la nascita dei dispotismi politici che hanno caratterizzato il Novecento.
Spetterà a Marshall McLuhan (1911-1980) il merito di aver intuito per primo le nuove implicazioni sociali della nascente comunicazione elettronica di massa.
Ricordiamo da subito una delle sue celebri e controverse tesi secondola quale è il mezzo tecnologico che determina i caratteri strutturali della comunicazione, producendo effetti pervasivi sull’immaginario collettivo e indipendentemente dai contenuti dell’informazione che si sta veicolando.
In sostanza per McLuhan, the medium is the message, il mezzo è il messaggio.
Al suo nascere la televisione era stata considerata nient’altro che un perfezionamento della radiofonia, una “scatola dei suoni” a cui veniva ad aggiungersi l’immagine.
McLuhan dimostrò che la televisione era un medium del tutto diverso. Non solo perché incorpora una tecnologia nuova, ma perchè comunica in base a una logica mediale sua propria.
Il modo che McLuhan usava per esprimersi, aforistico e spregiudicato, costellato da enunciazioni paradossali, fecero sì che venisse amato e sostenuto da una schiera di seguaci entusiasti, quanto avversato aspramente fino ad essere considerato, da molti rappresentanti del mondo accademico, alla stregua di un ciarlatano.
Ciò portò a non poche incomprensioni delle sue teorie e a molti litigi.
Gli studiosi di comunicazione ricordano, a questo proposito, la spregiudicatezza con cui egli attaccò Wilbur Schramm (1907-1987), considerato allora come il maggior esponente della communication research, un filone di ricerche empiriche, sviluppatosi nelle università americane fin dagli anni quaranta del secolo scorso, che aveva portato a elaborato importanti conoscenze sui meccanismi della comunicazione di massa.
McLuhan sosteneva che la televisione, essendo un medium (mezzo) freddo, vale a dire povero di informazioni, in quanto comunica essenzialmente attraverso le immagini, richiede per funzionare la collaborazione dello spettatore, che deve poter attribuire un significato a ciò che vede sullo schermo e questo a differenza della radio, un mediumcaldo, che ha bisogno solo di essere ascoltata.
Da questa osservazione
McLuhan, in contrasto con la tradizione degli studi sulla comunicazione di
massa, ne deduceva – con una capriola logica – che la televisione, malgrado
l’apparenza, è un dispositivo interattivo.
Più ottimista di McLuhan, Schramm sosteneva che il pubblico non è completamente passivo, come per esempio affermava la cosiddetta Bullet Theory, o teoria dell’ago ipodermico, di ispirazione behaviorista, ma sa essere attivo e capace di reagire, a uno stesso messaggio, in molti modi, a volte inaspettati.
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Vediamo in breve che cos’è la Bullet Theory.
Questa teoria detta anche teoria dell’ago ipodermico (dall’inglese Hypodermic Needle Theory) è una teoria che considera i mass-media come degli strumenti di persuasione che agiscono direttamente sulla massa dei loro fruitori, considerati soggetti passivi e inerti.
Essa rappresenta uno dei primi tentativi di comprendere, in maniera sistematica, il funzionamento della comunicazione interpersonale.
Fu molto popolare soprattutto negli anni Quaranta del secolo scorso sulla base delle ricerche della psicologia comportamentale (behaviorismo).
Per queste ricerche, infatti, la comunicazione (dei mass-media) è assimilabile a un processo diretto di stimolo e risposta.
Traducendo alla lettera, il termine bullet significa proiettile, il messaggio mediale in questa teoria è considerato come un proiettile che colpisce in modo diretto un soggetto – un target, un bersaglio – che ha poche possibilità di opporsi.
In altri termini, si riteneva che il messaggio “sparato” dal medium venisse “iniettato” direttamente nella coscienza del ricevente senza che questi potesse evitarlo e senza che se ne rendesse conto.
La Bullet Theory, che fin dall’inizio appariva molto schematica, ha oggi un valore più che altro documentario, in ogni caso il concetto di target, usato ancora oggi in pubblicità per indicare i destinatari di un annuncio, deriva da questa teoria e ne sottolinea la grande popolarità che aveva raggiunto.
La Bullet Theory si sviluppò negli Stati Uniti soprattutto tra le due guerre mondiali (1920-1930), tra i suoi divulgatori ricordiamo in particolare Harold Lasswell, uno dei teorici della communication research una disciplina che rappresenta, più che una teoria argomentata, un’ideologia che si respirava in quegli anni intorno agli effetti dei media.
Occorre tener presente che in quel momento l’Europa era vittima dei grandi assolutismi politici e le masse erano assolutamente inconsapevoli del reale potere dei mezzi di comunicazione di massa, potere che invece spaventava molto gli uomini politici americani.
Per riassumere. Prendendo il nome dall’immagine dell’ago ipodermico (utilizzato per le iniezioni), questa teoria afferma che i messaggi colpendo gli individui, in modo diretto e immediato, sono in grado di modificare, gestire e controllare opinioni e comportamenti.
In altri termini, la teoria dell’ago ipodermico (o, teoria del proiettile) postula un forte effetto/potere dei mass-media su un’audience passiva e indifesa, manipolata dalla propaganda e dagli interessi (politici e economici) più o meno occulti.
Così, se una persona è raggiunta da un messaggio di propaganda, questa può essere facilmente manipolata e indotta ad agire secondo il messaggio ricevuto e senza averne una piena consapevolezza.
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Ritorniamo a McLuhan.
A oltre mezzo secolo dalla pubblicazione della sua opera più famosa e completa, Understanding media (1964 – in Italia stranamente tradotto con, Strumenti del comunicare), molte delle tesi sostenute da questo autore appaiono sorprendentemente attuali, soprattutto se riferite alle reti dei computer e alle nuove prospettive della comunicazione interattiva.
L’idea più sorprendente e funzionale di McLuhan è stata quella dei media come protesi, ossia come un’estensione del sensorio umano nell’ambiente e, insieme, un mezzo di interazione con esso.
In sintesi, McLuhan sosteneva che la comunicazione elettronica rende immateriale il nostro corpo, dilatandolo nell’etere con le nostre idee, e che questo fenomeno è in grado di generare (come effetto collaterale) nuove forme di interazione sociale.
Un’altra geniale idea di McLuhan, largamente ripresa in seguito, è quella secondo cui la comunicazione elettronica, considerata la sua velocità e la sua capacità di far circolare le informazioni quasi in tempo reale, rende il mondo un “villaggio globale“.
Vale a dire, la velocità con cui circolano le informazioni,
le persone e le merci, di fatto lo rimpicciolisce.
Tra gli interpreti più originali di McLuhan ricordiamo Derrick de Kerckhove (che di McLuhan è stato assistente e collaboratore).
De Kerckhove considera i media elettronici come psicotecnologie che stanno modificando il nostro modo di percepire l’ambiente e di pensare le relazioni fra ciò che riteniamo, da un punto di vista fenomenologico, un interno e ciò che riteniamo un esterno.
Sviluppando il tema del villaggio globale de Kerckhove ha anche descritto l’avvento di una intelligenza connettiva basata su un nuovo brain-frame (o, schema-mente), che rende obsoleti i limiti sia dell’individualismo che del collettivismo, così come sono pensati dalle scienze sociali e dalla filosofia ottocentesca.
Questo tema di un’intelligenza collettiva/connettiva superindividuale generata dalle reti mediali interattive è stato affrontato anche dal francese Pierre Lévy, che ha cercato di razionalizzarlo e di presentarlo come il progetto ideale di nuovi legami sociali senza ostacoli.
Pierre Lévy (1956) è uno studioso di scienze sociali e si occupa dell’impatto delle reti digitali sulla società. È stato un allievo di Michel Serres e Cornelius Castoriadis, si è specializzato a Montreal ed è il titolare di una cattedra sull’intelligenza collettiva all’università di Ottawa.
Può essere definito un esperto delle implicazioni culturali dell’informatizzazione e degli effetti della globalizzazione.
Lévy sostiene che il fine etico di Internet dovrebbe essere soprattutto lo sviluppo dell’intelligenza collettiva, un concetto già introdotto da altri filosofi-informatici.
Lévy ha scritto: “In primo luogo occorre rendersi conto che l’intelligenza è distribuita dovunque c’è umanità, e che questa intelligenza può essere valorizzata al massimo mediante le nuove tecniche digitali, soprattutto mettendola in connessione.
Oggi, se due persone distanti fisicamente tra loro sanno due cose complementari, per il tramite delle nuove tecnologie, possono davvero entrare in comunicazione l’una con l’altra, scambiare il loro sapere, cooperare. In breve e per grandi linee questo in fondo è il senso dell’intelligenza collettiva”.
Quanto alla tesi che il computer sia una protesi della nostra mente e che sia possibile, in un futuro più o meno prossimo, collegarlo a essa in modo da potenziare le nostre facoltà sensoriali e intellettive, è suggestiva e per ora utopica.
In passato questa tesi è stata sfruttata e resa popolare dalla letteratura di fantascienza, un filone letterario inaugurato da uno scrittore considerato un caso a sé, Philip K. Dick, che ha affrontato il tema dei simulacri, dei cloni e dei cyborg, e ha inaugurato la fantascienza cyberpunk.
In ogni modo, oltre a rimpicciolire emotivamente il mondo reale, i new-media digitali, cambiando la nostra concezione dello spazio, consentono la possibilità di creare nuovi luoghi, come le comunità virtuali, che pur non avendo come base una contiguità territoriale generano ugualmente delle relazioni di prossimità.
A questo proposito, Luciano Floridi ha definito l’infosfera come “lo spazio semantico costituito dalla totalità dei documenti, degli agenti e delle loro operazioni”.
Dove per “documenti” si intende qualsiasi tipo di dato, informazione e conoscenza, codificata e attuata in qualsiasi formato semiotico.
Gli “agenti” sono qualsiasi sistema in grado di interagire con un documento indipendente (ad esempio una persona, un’organizzazione o un robot software sul web).
Quanto al termine “operazioni” include qualsiasi tipo di azione, interazione e trasformazione che può essere eseguita da un agente e che può essere riversata in un documento.
(La semantica è la scienza del significato – delle parole).
Per proseguire ritorniamo alla convergenza multimediale tra video e computer, anche se per ora il computer rimane – soprattutto nelle aree non-urbane – un device usato di preferenza nel lavoro e nella vita attiva, mentre lo schermo televisivo continua a essere la scatola mediale che presiede al divertimento e al relax.
In ogni modo, anche se con ritmi più lenti del previsto, l’affermarsi di quella che molti definiscono la società dell’informazione, e che altri preferiscono invece definire società digitale o società in rete, sembra gradualmente proseguire.
Lo dimostra il crescente numero a livello planetario di possessori di personal computer,di tablet e di smartphone, che secondo un dato del 2019 sarebbero più di tre miliardi e mezzo nel mondo.
Gli utenti attivi di Internet, cioè coloro che passano almeno un’ora alla settimana collegati alla rete, erano circa 330 milioni nel 2000, nel 2019 erono diventati secondo alcune stime più di tre miliardi e mezzo, vale a dire quasi la metà della popolazione mondiale.
La storia del digitale è in continua evoluzione, un paio di anni fa alcune ricerche della Società Nielsen hanno messo in luce che il rapporto degli utenti di lingua inglese con Internet sta cambiando.
Si valuta che le app (ricordiamo che app è l’abbreviazione della parola inglese “application“), ossia le applicazione software rappresentano più dell’80 percento del tempo trascorso su Internet mobile.
Quasi tutti gli intervistati hanno dichiarato che è più comodo scaricare le app che collegarsi a un browser come Chrome, Internet Explorer, Firefox, eccetera.
Se questa tendenza si confermerà il web è destinato a diventare un insieme di comunità circoscritte, molto diverso dall’idea di rete immaginata qualche anno fa.
Questa tendenza era stata intuita dalla rivista Wired che nel 2010 annunciò – con un polemico articolo di copertina intitolato, The Web is Dead – come si poteva stare un giorno intero su Internet senza stare un minuto in rete.
Vale a dire, si poteva leggere i giornali, trovare indicazioni stradali, consultare il meteo e intervenire sui social network senza aprire un browser.
Per quanto riguarda l’Italia, nelle aree metropolitane si trascorre più tempo navigando sullo smartphone (circa 250 minuti al giorno) che connessi a Internet (circa 80 minuti).
Ancora, il 60 per cento di chi ha meno di venticinque anni naviga solo con un device mobile.
Negli Stati Uniti la popolazione adulta trascorre l’equivalente di circa sei mesi all’anno di vita attiva nell’infosfera.
Stiamo dunque passando da una fase, in cui l’attività di connessione e di accesso alle reti che erano appannaggio solo di ristrette élite tecnocratiche o contro-culturali, a una fase in cui entrano in scena fasce sempre più ampie di pubblico che, nell’America del Nord, arrivano a comprendere più dell’80 per cento delle famiglie.
In ogni modo per superare le difficoltà nell’accertare quale sia l’influenza dei new–media sul pubblico ha portato i sociologi della comunicazione a distinguere tra gli effetti cognitivi della comunicazione e quelli persuasivi.
Questa nuova prospettiva di ricerca è stata di fatto aperta dagli studi sul cosiddetto effetto di agenda.
Il termine agenda indica l’insieme dei temi (in inglese issue, in francese enjeux) a cui si attribuisce priorità nei processi di policymaking.
Secondo questa teoria, il più importante effetto dei new–media non è tanto quello di influenzare l’atteggiamento del pubblico pro o contro le alternative che un problema può avere, quanto piuttosto di rendere questo problema più visibile e quindi metterlo all’ordine del giorno e farlo considerare rilevante sia dall’opinione pubblica che da quelle forze politiche che non hanno un’influenza su i new-media.
Questo effetto viene chiamato agenda setting, o predeterminazione dell’agenda politica.
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Apriamo una parentesi.
Uno tra i contributi più originali sugli effetti della comunicazione è costituito dalla teoria della spirale del silenzio. Questa teoria tratta in modo specifico il potere persuasivo dei mass–media.
Fu elaborata negli anni Settanta del secolo scorso da Elisabeth Noelle-Neumann, docente di scienza della comunicazione e fondatrice, nel 1947, dell’Istituto di demoscopia Allensbach (Institut für Demoskopie Allensbach) di Magonza in Germania.
La tesi di fondo è che i mezzi di comunicazione di massa (ieri la televisione, oggi la rete e i social), grazie al notevole potere di persuasione che hanno su chi ne usufruisce e quindi, più in generale, sull’opinione pubblica, sono in grado enfatizzare opinioni e sentimenti prevalenti o convenienti, mediante la riduzione al silenzio delle opzioni minoritarie e/o dissenzienti.
In particolare la teoria afferma che una persona singola è disincentivata dall’esprimere apertamente un’opinione – che capisce contraria all’opinione della maggioranza – per paura di riprovazione e di isolamento da parte di questa maggioranza.
In questo modo le persone che si trovano in tale situazione sono spinte a chiudersi in un silenzio che, a sua volta, fa aumentare la percezione collettiva (non necessariamente corretta) di una diversa opinione della maggioranza, rinforzando di conseguenza, in un processo evolutivo, il silenzio di chi si crede minoranza.
Questa teoria ha avuto un notevole impatto sulla scienza della comunicazione, in modo particolare sullo sviluppo del dibattito sui poteri di persuasione dei media, in contrasto con le scuole liberali che sostenevano che l’effetto di essi sul pubblico non fosse rilevavante e che comunque fosse gestibile.
In estrema sintesi la tesi centrale della teoria della spirale del silenzio può essere riassunta così:
Il costante, ridondante e caotico afflusso di notizie da parte dei new-media col trascorrere del tempo può sviluppare un’incapacità nell’opinione pubblica a selezionare e a comprendere i processi di percezione e di influenza dei media stessi.
Nel corso delle sue ricerche, Noelle-Neumann ha anche dimostrato che le persone posseggono una specie di senso statistico innato, grazie al quale riescono a capire quale è l’opinione prevalente e, in questo modo, a conformarsi a essa senza tradire la propria.
Oggi le indagini sul campo hanno provato che i new-media non promuovono da soli la spirale del silenzio (in quanto fenomeni simili sono stati riscontrati anche in società dove i mass-media non sono diffusi), ma sono in grado di accentuare in modo significativo la paura dell’isolamento e quindi il processo di adattamento all’opinione generale.
C’è poi da sottolineare uno degli effetti collaterali che conseguono alla spirale del silenzio.
È l’esercizio, da parte dei mass–media, di una pervasiva funzione conformativa di omologazione e di conservazione dello statu quo che, di fatto, li spinge a svolgere un ruolo ostile al rinnovamento delle sensibilità, dei gusti e delle opinioni.
Secondo Noelle-Neumann gli individui si trovano da almeno la fine della seconda guerra mondiale immersi in uno stato di isolamento – definito pluralistic ignorance – per il quale sono indotti a cercare di comprendere se il loro punto di vista sia condiviso da altri, prima di esprimersi pubblicamente.
Se questi individui trovano delle conferme alla loro opinione, la sostengono apertamente, mentre tendono a tacere in caso contrario.
Questo innesca, anche non volendo, un processo a spirale in cui, di volta in volta, gli uni si zittiscono e gli altri parlano più forte finché non si raggiunge un punto di equilibrio.
Da questo punto di equilibrio scaturisce poi un clima rappresentato dall’opinione dominante.
I new-media digitali in questo processo svolgono un ruolo essenziale perché sono essi che forniscono le rappresentazioni e le narrazioni delle tendenze che si vanno affermando.
Ma è chiaro che tutto ciò è anche in relazione con il grado, maggiore o minore, di pluralismo e di libertà dei mezzi di comunicazione.
(Cfr.,La spirale del silenzio – Per una teoria dell’opinione pubblica. Roma, 2002).
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Ritorniamo al tema dell’agenda setting.
In una democrazia pluralistica l’agenda politica si dovrebbe formare all’interno di forum di discussione aperti e pluralisti. Forum di cui possiamo osservare una loro parodia nella formula dei talk–show, spettacoli a basso costo nei quali gli opinion leader e i rappresentanti degli apparati politici competono fra loro e interagiscono con i new–media, cercando, da una parte, di stabilire a quali temi vadano attribuita la priorità e, dall’altra, di promuovere una rappresentazione a loro favorevole del clima d’opinione.
È noto che la qualità di una democrazia, oltre che dal pluralismo dei mezzi di comunicazione, dipende anche dal mantenimento della distinzione dei ruoli tra coloro che informano e i politici.
Quando questa distinzione tende a scomparire, la capacità di tematizzazione dell’informazione viene meno, mentre il grado di auto-referenzialità del sistema di governo aumenta favorendo un distacco fra élite politica e cittadini.
Se ne deduce che l’influenza che i new–media hanno sulla politica varia anche a secondo del contesto sociale e politico dell’ambiente in cui operano.
In linea generale si può dire che nei paesi dove sono al potere i regimi autoritari, o dove è in corso una transizione alla democrazia, il giornalismo e i new–media hanno quasi sempre svolto o svolgono una importante funzione democratica e contribuito positivamente al ristabilirsi delle libertà civili.
Viceversa, nelle democrazie consolidate l’interazione fra new–media e politica tende a produrre effetti involutivi.
Va anche osservato che nelle democrazie consociative, basate su dei sistemi elettorali proporzionali, tende a generarsi il fenomeno della auto-referenzialità.
Nelle democrazie maggioritarie, invece, in particolare nei regimi presidenzialisti, la politica-spettacolo genera spesso forme di campagne negative basate sullo scandalismo e sull’attacco personale degli avversari che, a loro volta, diffondono cinismo e portano al rifiuto della politica da parte di larghi settori dell’opinione pubblica.
Tra gli elementi strutturali che caratterizzano l’evoluzione attuale delle democrazie mediatizzate, due in particolare vanno segnalati.
Il primo è costituito dall’uso sempre più frequente dei sondaggi d’opinione, non soltanto nell’imminenza delle campagne elettorali, ma in occasione di ogni evento o congiuntura di un qualche rilievo.
Questo crescente ricorso ai sondaggi assume la forma di una continua interrogazione del corpo elettorale e di una ininterrotta messa in discussione del consenso e degli equilibri di potere, che dà luogo al fenomeno definito delle campagne elettorali permanenti.
Il secondo elemento, che si intreccia con questo primo aspetto, è quello della formazione di apparati sempre più massicci di consulenti ed esperti di comunicazione e di campaigning, che devono essere considerati come un tipo nuovo di attore politico (così come lo sono gli influencer) differenziato sia dagli apparati dei new-media che da quelli dei partiti o dei leader.
Va ricordato che su questi temi una linea di interpretazione critica, che si potrebbe definire neo-tocquevilliana (da Tocqueville), è stata sviluppata in Francia da Pierre Bourdieu, il quale, già in un saggio del 1973, aveva affermato provocatoriamente che l’opinione pubblica non esiste e che le indagini d’opinione, lungi dall’essere obiettive, sono un simulacro della volontà popolare, costruito con la scusa di dare la parola alla gente e utilizzato poi (questo simulacro) come instrumentum regni.
Un punto di vista non dissimile è stato sostenuto negli Stati Uniti da Benjamin Ginsberg, un filosofo della politica docente alla John Hopkins University nel Maryland, secondo cui quella attuale è un’età in cui dominano le opinioni delle masse manipolate.
Per Ginsberg, tra le masse e i leader viene a formarsi una specie di circolo vizioso: i politici, interessati a assecondare il pubblico, con i sondaggi ne catturano l’immagine per poi usarla come una loro risorsa di potere.
Su questo tema, in particolare, Bourdieu ha insistito molto nei suoi ultimi scritti, accusando la televisione di cedere alla logica commerciale della misurazione dell’audience e di piegarsi alle esigenze demagogiche di quello che chiama il plebiscito commerciale.
°°°°°°
Vediamo adesso alcune considerazioni conclusive.
Le straordinarie potenzialità offerte dalle tecnologie della comunicazione, per essere sfruttate appieno, devono essere considerate sia in relazione ai rischi connessi che a un loro inappropriato utilizzo.
Il timore che la tecnologia possa sfuggirci di mano è sempre in agguato e ha radici profonde: basti pensare al mito di Prometeo o figure come sono il Golem o Frankenstein.
Diciamo che da qualche tempo a questa parte non sono solo il nucleare, l’inquinamento ambientale, la chimica e la manipolazione genetica a rivelarsi pericolosi, ma possono diventarlo anche le tecnologie digitali e alcuni fenomeni culturali spesso sottovalutati, come la cosiddetta esplosione informativa.
Per comprendere queste paure dobbiamo considerare le loro proporzioni.
Sul piano analogico, mentre la Biblioteca di Alessandria, con i suoi circa settecentomila rotoli di papiro e pergamena, conteneva tutto il sapere del mondo occidentale antico, il patrimonio librario della Bibliothèque Nationale de France che occupa oggi oltre 400 chilometri di scaffali, è solo un frammento delle nostre conoscenze.
Come sappiamo questo moltiplicarsi delle informazioni è divenuto esponenziale con Internet e la telefonia cellulare sta generando due fenomeni ancora incontrollati:
– l’anoressia informativa
– e il suo contrario, l’obesità informativa.
In entrambi i casi il proliferare dell’informazione riduce la capacità dell’uomo di assimilare in maniera razionale la conoscenza, spingendo, soprattutto i giovani, ad assorbire in maniera ossessiva, e spesso acritica, informazioni non nutrienti.
A ciò va aggiunto il cosiddetto sporco digitale, cioè le tracce che lasciamo sulla rete e che tendono progressivamente a diventare indelebili.
Oggi i motori di ricerca registrano tutto, ma non esiste un processo condiviso che elimini dalle liste dei motori le informazioni non più attendibili o invecchiate.
Anche strumenti rivoluzionari e apparentemente democratici, come l’enciclopedia online Wikipedia, vanno usati con cautela perché è la massa dei lettori che decide circa la veridicità dell’informazione, ma questa massa, come è oramai evidente, tende il più delle volte a riportare solo fatti banali e dati ritenuti oggettivi, eliminando giudizi e opinioni e favorendo la diffusione delle fake new.
Alla fine, questo processo di gestione del consenso finisce per creare un’unica base condivisa e massificata di conoscenza, eliminando le differenze, le ambiguità, le incertezze, la criticità.
Ecco perché da occasione democratica Wikipedia si sta mutando, per chi non sa già o non ha dimestichezza con le informazioni, in uno strumento di omogeneizzazione culturale.
Per gli studi sociologici ogni analisi delle nuove tecnologie della comunicazione non può assolutamente prescindere da come l’uomo ha reagito e si è adattato a esse.
Questo perché le tecnologie sono da tempo indissociabili dal cammino dell’uomo verso la conoscenza e l’affrancamento dalle forze della natura.
Un tale potenziamento delle capacità umane, infatti, si trascina dietro aspetti fortemente problematici.
Oltre ai benefici immediati e osservabili – maggiore velocità e capacità di calcolo, possibilità di accedere a enormi quantità di informazioni – possono subentrare effetti collaterali che, alla lunga, rischiano di vanificare i benefici conseguiti.
Non è raro che l’espansione di una funzionalità possa tradursi in una atrofizzazione di un’altra, soprattutto nell’ambito delle esperienze sensoriali.
In passato, se l’uomo non era in grado di usare una specifica tecnologia, si limitava a non utilizzarla, o la faceva usare da chi n’era capace.
Con le tecnologie digitali, questo non è più possibile, non soltanto per la pervasività di tali tecnologie, vale a dire che tendono costantemente a dilagare in ogni aspetto della vita corrente, ma anche e soprattutto, per la loro percepita necessarietà.
Oggi Internet è considerato un diritto e il cosiddetto – divario digitale – la separazione fra chi può accedere alla rete e chi no – viene ritenuta una nuova forma di esclusione sociale che deve, almeno a parole, essere contrastata a ogni costo, con attenzioni e investimenti importanti nel campo dell’istruzione.
Nel mondo occidentale dimenticare ha un’accezione prevalentemente negativa.
Colui che dimentica è, per definizione, distratto, poco attento alle cose, svogliato, forse addirittura malato. Ma per le neuro-scienze non è necessariamente così.
Se non si dimenticano i concetti obsoleti, non c’è spazio per le nuove idee.
In linea generale, se non scordassimo positivamente o attivamente alcune esperienze, o perlomeno se non fossimo in grado di contrastare i ricordi, non sempre potremmo apprendere qualcosa di nuovo, correggere i nostri errori, innovare vecchi schemi.
Per fare buon uso della memoria è quindi necessario sia saper ricordare sia saper dimenticare.
Dimenticare, in sintesi, è importante tanto quanto saper accumulare informazioni, tanto quanto saper alleggerire la mente dai suoi fardelli.
Si può quindi parlare di una vera e propria auspicabilità dell’oblio, soprattutto nella società attuale, dove il bombardamento informativo è divenuto in alcuni campi eccessivo.
Il medium digitale, poi, è doppiamente pervasivo, cioè,capace di espandersi.
È presente in modo sempre più diffuso negli spazi della vita corrente, come il lavoro, lo studio, la politica, il divertimento, la sessualità, la religione.
In questo contesto, poi, la pervasività ha fatto emergere un’identità digitale che ci renda riconoscibili e unici anche all’interno di questa sfera e ci consente di costruire relazioni virtuali con altre identità digitali.
Va aggiunto che questo uso delle tecnologie digitali, di fatto, non consente solo un’estensione e un potenziamento delle nostre capacità mentali, ma in prospettiva consente un vero e proprio sdoppiamento della nostra personalità di cui non siamo in grado di valutare gli effetti.
Oggi i siti personali possono avere una vita propria, possono venire consultati da terzi senza che i proprietari siano in quel momento collegati online, possono raccogliere automaticamente le informazioni, segnalare eventi, rispondere a richieste esterne.
L’esempio più elementare è quello delle nuove tecnologie vocali che permettono ai computer o alle segreterie telefoniche non solo di parlare e leggere i messaggi, ma anche di capire quello che gli chiediamo.
Oppure alle tecnologie di personalizzazione che consentono di lasciare tracce in ambienti digitali pubblici, consentendo all’utilizzatore di essere riconosciuto, di riprendere il lavoro fatto fino all’ultimo collegamento, di ricordare le preferenze manifestate.
Tutti questi contenuti richiedono un luogo personale di archiviazione che potremmo chiamare personal digital space i cui aspetti innovativi non sono legati tanto alla dimensione tecnica, quanto alle potenzialità del sistema rese disponibili nella forma di uno strumento conoscitivo.
Potenzialità che consentono di realizzare una vera e propria memoria estesa, a complemento e integrazione di quella fisiologica.
In breve, ogni riflessione sulla comunicazione digitale non può prescindere da questa trasformazione dei recettori dei messaggi comunicativi.
Il personal digital space, come abbiamo già sottolineato, consente anche il cosiddetto dimenticare consapevole, risparmiando alla memoria lo sforzo di memorizzare informazioni in quel momento non rilevanti.
A questo proposito il fenomeno dei siti personali è ancora relativamente poco diffuso, anche se la sua componente più narcisistica, il blog, è oramai un congegno di massa.
I blog, infatti, sono utilizzati soprattutto per rendere disponibili i punti di vista di chi li gestisce invece di essere usati per organizzare la propria conoscenza per un facile riutilizzo.
In chiave sociologica dobbiamo rilevare un paradosso significativo:
In una società che sembra trasformare tutto in virtuale, la dimensione corporea è ritornata a essere centrale, quasi per una sorta di bilanciamento fra aspetti immateriali e aspetti materiali.
Anche la crescente importanza – soprattutto in sede di management – della comunicazione extralinguistica e in particolare del cosiddetto linguaggio del corpo (per fare un esempio) va in questa direzione – lo si vede bene nella recente pubblicità televisiva.
Il luogo più interessante ed esplicito dove questo recupero del corpo sta avvenendo è nel mondo dell’arte con la performance.
I casi sono molti, alcuni estremi come le chirurgie plastiche pubbliche di Orlan pseudonimo di Mireille Suzanne Francette Porte o le performance di Stelarc, pseudonimo di Stelios Arkadiou, un artista australiano naturalizzato cipriota e considerato l’esponente teorico dell’estetica “postumana”.
Va aggiunto che le stesse abitudini giovanili di comunicare tramite il corpo, non tanto vestendosi in un certo modo, ma utilizzando in maniera diffusa tatuaggi e piercing, sottolineano questa dimensione.
È come se l’utopia cyborg, di fondere la tecnologia con il corpo – che ha visto nel Futurismo una lucida e anticipatoria concettualizzazione – stia uscendo dalle avanguardie artistiche e dall’impegno politico per diventare linguaggio quotidiano.
Abbiamo esaminato a grandi linee il paradigma esplicativo dell’evoluzione della comunicazione dal punto di vista delle scienze sociali.
In quest’ottica c’è un ultimo punto che qui deve essere sottolineato e che abbiamo fissato all’inizio del Novecento. La straordinaria mutazione seguita al diffondersi dell’elettricità, delle reti materiali e immateriali e dei congegni ad essi correlati può essere definita antropomorfa, perché ha coinvolto il rapporto tra corpo, mente ed esperienza della realtà, con esiti che ancora ignoriamo e con metamorfosi che continuano a rendersi palesi e a sorprenderci.
°°°°°
Marshall McLuhan (1911-1980) diceva che la storia della comunicazione umana si può definire composta da tre fasi.
– Una fase predominata dall’oralità, dal congegno della voce. (vedi appendice uno)
– Una fase dominata dalla scrittura.
– Una fase dominata dall’elettricità o meglio dai suoi device.
La prima è durata circa 250mila anni. La seconda circa 2500 anni. La terza, appena iniziata ha poco più di un secolo di vita. Tendenzialmente si preannuncia molto più breve della seconda.
A proposito della fase dominata dall’elettricità McLuhan osserva:
“Nell’era della meccanica avevamo operato una estensione del nostro corpo
in senso spaziale. Oggi, dopo un secolo e passa di impiego tecnologico
dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro sistema nervoso centrale in un
abbraccio globale che abolisce, di fatto, tanto il tempo che lo spazio.”
Ne consegue che tutte le forme di esistenza nella modernità sono state unificate da un vettore spaziale-iconologico – cioè, strutturato sulle immagini – che ha finito per rappresentare il senso stesso del mondo.
Questo vettore è caratterizzato dal fatto di essere un potente strumento di sincronia di massa.
La sincronia è un
concetto elaborato da Ferdinand de Saussure (1857-1913), il fondatore della
linguistica, per indicare la capacità di un linguaggio di costruire un senso.
Invece i linguaggi non-umani, animali o artificiali, servono a comunicare, ma non sono in grado di
costruire paradigmi cognitivi sensati (fondati sui processi di
simbolizzazione).
Parlando dei modi di connessione il modello che di fatto ha inaugurato il Novecento è stato un congegno straordinario, la radio, che ha dato vita ai primi importanti fenomeni di sincronia di massa.
Il carattere innovativo di questo modello di connessione sta nel fatto che il cuore della comunicazione non ha più al centro lo scambio comunicativo tra due o un piccolo gruppo di soggetti, ma il diffondersi dell’informazione (come una merce/prodotto generato da uno o più centri organizzati) verso una moltitudine di consumatori.
Per mostrare l’efficacia di questo fenomeno di sincronia è sufficiente ricordare l’impatto sui radioascoltatori di una trasmissione radiofonica, La guerra dei mondi di Orson Welles (1915-1985), realizzata negli Stati Uniti da questo allora giovane regista ventitreenne, nel 1938, alla vigilia di Halloween, la festa che noi chiamiamo di Ognissanti.
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Una curiosità. C’è nel Van Nest Park, a Grover’s Mill, nel New Jersey, un monumento commemorativo eretto nell’ottobre 1998 nel luogo di atterraggio dei marziani secondo la trasmissione radiofonica,
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In altre parole, quello che fino ai primi del Novecento era
affidato all’affabulazione di poeti, cantori, scrittori, eruditi, divulgatori
cominciò a essere distribuito su larga scala prima dalla radio e poi dalla
comunicazione filmica, televisiva, e infine
televisivo-informatico-personalizzata.
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Per la sociologia la multimedialità è la compresenza di più strutture comunicative sullo stesso supporto informatico che moltiplica i piani di lettura e, per conseguenza, i processi interpretativi.
Per estensione si
parla di contenutimultimedialiquando
un’informazione si avvale di molti media, immagini in movimento (video),
immagini statiche (fotografie), musica, grafi e testo.
Wikipedia è l’esempio più popolare di questa
multimedialità.
La multimedialità non va però assolutamente confusa con l’interattività.
L’equivoco, in genere, nasce dal fatto che la multimedialità è in genere interattiva, cioè, consente all’utente di interagire
con essa.
Che cosa vuol dire? Che si può comunicare con il mouse o la tastiera e ricevere delle risposte.
Perché è importante la interattività? Perché essa indica che un sistema non è fisso, ma varia al variare dell’input dell’utente o, meglio, varia in base al “poterecognitivo” che costui possiede.
In questo modo si riproducono le differenze culturali tra gli utenti dei sistemi informatici e spesso si accentuano.
La maggior parte dei
sistemi e dei congegni della modernità sono interattivi.
In linea di principio, anche una lavatrice lo è, perché di fatto modifica il
suo programma in base alle nostre richieste.
In ogni modo il sistema
interattivo per definizione è il computer.
Mentre non era interattiva la televisioneanalogica e
per questo il suo consumo
era definito una fruizione passiva.
La televisione digitale, invece, può essere interattiva e la sua attualità
dipende proprio da questo, di poer essere suscettibile di feedback.
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È qui importante sottolineare – da un punto di vista fenomenologico – che mentre l’interfaccia della lavatrice è un pannello di comandi attraverso il quale i suoi programmi entrano nel mondo di chi la utilizza.
L’interfaccia digitale è una porta attraverso la quale l’utente è messo in contatto con il cyber-spazio.
In altri termini siamo in presenza di una nuova e assolutamente inedita dimensione del fenomeno migratorio: dall’habitat fisico all’infosfera.
Afferma Luciano Floridi: Quando gli immigranti digitali saranno sostituiti dai nativi digitali il corso dell’e-migrazione sarà completato e le future generazioni si sentiranno sempre più deprivate, escluse, svantaggiate e povere, ogni qual volta si troveranno disconnesse dall’infosfera.
La comunicazione digitale come abbiamo già visto permette oramai una simultaneità intercognitiva delle esperienze che ha dato vita ad una ri-mediazione (remediation) della realtà.
Floridi parla di una ri-ontologizzazione.
In un certo senso è come dire che l’esperienza che attraverso i new-media digiali si acquisisce è il soggetto stesso della ri-mediazione.
La rimediazióne è un neologismo coniato da Jay D. Bolter e Richard Grusin, a partire dall’aforisma di Marshall Mc Luhan secondo cui il contenuto di un medium è sempre un altro medium (Understanding media. The extension of man, 1964).
In Remediation. Understanding new media, 1999) Bolter e Grusin utilizzano remediation per descrivere la nuova modalità di rapporto che si è oggi venuta a instaurare tra i mass media, sottolineando la loro forte e continua interrelazione in un panorama come quello che viviamo, contraddistinto dalla presenza delle tecnologie digitali. In questo senso, rimediazione indica l’operazione ininterrotta di commento, di riproduzione e di sostituzione reciproca tra un medium e l’altro, attraverso cui il nuovo ingloba e trasforma il precedente.
Tuttavia, se a causa di questo processo i nuovi mezzi di comunicazione si modellano a partire dalle caratteristiche e dalle finalità dei precedenti, nello stesso tempo i vecchi media, quali per esempio il cinema, sono costretti a ripensarsi sulla base delle innovazioni con cui continuamente vengono in contatto.
Si tratta di un modello di connessione che in qualche modo è sempre esistita, ma che secondo Bolter e Grusin assume oggi una diversa e maggiore importanza.
Si inserisce infatti in un orizzonte tecnologico totalmente inedito, in continua e rapida metamorfosi, al quale i mezzi di comunicazione preesistenti non possono che adattarsi.
Nell’epoca della rimediazione il rischio, anche da un punto di vista stilistico ed estetico, è quello costituito dal possibile dissolvimento delle qualità dei linguaggi mediali nella pluralità del mondo degli audiovisivi.
Ritorniamo al tema della connessione.
Che cosa va rilevato dal punto di vista fenomenologico?
Che essa dipende dai metodi, dalle forme, dalle tecniche con cui questa connessione si effettua. Che la comunicazione stessa evolve anche a dispetto delle attese degli utenti.
Evolve anche e soprattutto “con” e “per mezzo” dei meccanismi socio-economici che con essa interagiscono.
In linea generale va notato un fatto, tipico della contemporaneià, a cui non siamo – da un punto di vista sociale preparati – che nell’ambito dell’universo digitale le disparità economiche hanno un impatto minore delle disuguaglianze cognitive.
Se osserviamo la storia di questo ultimo secolo vediamo con chiarezza gli effetti di massa che tutto ciò ha generato tra i consumatori-utenti:
* Imitazione massiccia degli stili di vita (e quindi delle
forme di consumo) delle élite dello
spettacolo e del potere economico.
* Imitazione degli atteggiamenti divistici dello star–system.
* Uniformazione del modo di pensare il proprio corpo e il proprio modo di
abbigliarsi che ha dato vita a una sorta di conformismo creativo.
* Assimilazione, il più delle volte
inconscia, dei messaggi che orientano i consumi e le opinioni politiche ed
etiche.
Queste nuove forme di comunicazione hanno anche trasformato
il modo di pensare il tempo e quindi di rapportarci ad esso.
Il presente che viviamo si è dilatato e in esso non si coglie più il fluire
della “temporalità”, cioè, del divenire.
Per di più, viviamo un tempo visuale che fatica a diventare tempo storico.
Con quali conseguenze?
Che le strutture narrative, che in passato contribuivano alla costruzione del senso, si sono affievolite, mentre il progredire delle frontiere digitali – va di pari passo con le trasformazioni dei meccanismi cognitivi e degli artefatti legati alla visione.
In breve, il nuovo dominio del tempo e dello spazio ha ampliato i poteri della
mente, nello stesso movimento con il quale ha alterato il fluire della
coscienza conferendogli una dimensione visuale.
Sotto un altro aspetto è come se la contingenza legata alla visualità
avesse preso il posto della narrazione (story-telling). Cioè, del fluire del narrato.
Più concretamente, l’avvento del world wide web (www) ci ha proiettato in un’era di cui non sappiamo ancora tracciare in modo attendibile il suo divenire.
Sappiamo solo che i new-media – a ragione della loro struttura comunicativa – modificano profondamente la nostra percezione della realtà e della cultura senza per altro riuscirlo a percepire completamente nel momento in cui queste modificazioni avvengono.
Lo intuì Marshall McLuhan (1911-1980), che, come abbiamo già visto, lo sintetizzò in una formula efficace:
Il medium è il messaggio o, meglio, sul piano metaforico, il massaggio.
Il titolo del libro a cui questa formula fa capo è: The medium is the massage, McLuhan lo scrisse con Quentin Fiore nel 1967.
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Alcuni dicono che il mezzo è divenuto il massaggio a causa di un errore del tipografo che entusiasmò McLuhan, che lo lesse come “mass.age”.
Più verosimilmente, considerati gli studi di McLuhan, è ricavato da un’affermazione di Thomas S. Eliot, nato in America, ma stimato come uno dei poeti inglesi più famosi del Novecento.
Eliot in un suo saggio critico scrisse che il poeta si serve del significato come un ladro di serve del pezzo di carne che lancia al cane di guardia per distrarlo e entrare in casa.
Per analogia possiamo dire che credere che un sito Internet trasmetta contenuti piuttosto che “forme di mutamento” è come pensare che lo scopo del ladro sia sfamare il cane di guardia.
In realtà noi siamo massaggiati (circuiti) dai media e in qualche modo plasmati da essi.
In altri termini, i new-media ci condizionano e modellano il nostro modo di pensare.
A questo proposito nn va dimenticato che per McLuhan, IL CONTENUTO DI UN MEDIUM E’ UN ALTRO MEDIUM.
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McLuhan rappresenta l’autore più famoso di quella che è stata definita la Scuola di Toronto, a cui hanno dato il loro contributo Harold Innis, Walter Ong, Joshua Meyrowitz e molti altri.
Il fatto che la comunicazione visuale di massa sia diventata una merce preziosa rende estremamente importante lo studio delle strategie con cui vengono prodotti e diffusi i messaggi, specialmente quando lo scopo di questi è di prevedere è d’influenzare i comportamenti dei destinatari, se non addirittura costruirli.
Per la sociologia i mass–media digitali vanno dunque considerati
dei nuovi, potenti e in parte incontrollabili
agenti di socializzazione, come lo
erano ieri la famiglia, gli amici, le piazze, i teatri, la stampa
popolare.
Incontrollabili, lo ripetiamo,
soprattutto dal punto di vista della loro capacità di manipolare
l’opinione.
Questa socializzazione dipende sia dalle strategie intenzionali (come sono quelle contenute nelle trasmissioni radiofoniche, cinematografiche, televisive e in Internet…)
Sia da effetti indiretti (come la massificazione dei consumi e degli stili di vita che scaturiscono dalla pubblicità mascherata da informazione o occulta, com’è quella dei telefilm, dei reality show, dei serial.
Alcuni ritengono che queste nuove forme di socializzazione siano diseducative perché si concentrano sul solo vedere svalutando gli altri sensi.
Altri, fatalisti o ottimisti, poco conta, ritengono che ci aspetta un futuro all’insegna del visuale o, meglio, di una visual culture.
Nei paesi della fascia temperata del pianeta e, in
particolare, in quelli ad industrializzazione avanzata, i bambini stanno
davanti alla televisione, ai computer
o alle tablet per più di quaranta ore
la settimana. (Dato del 2016)
Cosa comporta questo?
Un’accentuarsi
della difficoltà a distinguere la realtà dalla finzione.
Una disumanizzazione dell’Altro da sé.
Il fatto poi che ci sia tanta violenza sul piccolo schermo induce il bambino ad una vera e propria indifferenza empatica per i problemi altrui.
Un’accentuata difficoltà a distinguere tra gli oggetti – in particolare quelli animati – e le persone, che induce a pensare di poter trattare le seconde come se fossero cose.
Un accrescimento dell’aggressività (che per molti sociologi i nuovi
paradigmi della velocità in qualche modo radicalizzano).
Come tutti hanno modo di costatare, nel
mondo degli adulti ci si commuove per gli avvenimenti di una fiction e si resta indifferenti mentre sullo
schermo nelle news scorrono scene di fame o di violenza. Per di più questi adulti non hanno alle
spalle una storia televisiva come quella dei loro figli.
Per ritornare in argomento la rete, in sostanza, è destinata a diventare uno strumento di nuove aggregazioni socio-culturali basate sia sugli interessi che sulle affinità di coloro che sapranno gestirla.
Qui c’è una considerazione da fare.
Sotto l’aspetto delle architetture cognitive sembra che tutto tenda a far si che l’informazione diventi un “vero” ambiente (assimilabile alla forma di un neo-luogo) in cui si muovono gli uomini e le idee.
Un ambiente in cui è determinante, per stabilirne il valore, l’importanza che acquisteranno i congegni (device) che veicolano i messaggi informativi.
(Vedi, appendice due: I non luoghi.)
Un’idea già avanzata da McLuhan quando affermò come i media
moderni possano essere equiparati a delle forme ambientali in cui vive l’uomo
che essi stessi modellato.
L’ambiente digitale, in buona sostanza, è un nuovo medium e sembra, paradossalmente, che l’uomo con questo ambiente abbia realizzato un modo di vivere nelle sue fantasie e nei suoi sogni.
Del resto, quando l’informazione viaggia alla velocità dell’elettricità, il mondo delle tendenze, delle immagini e delle voci diventa il mondo reale, o se si preferisce, lo specchio del mondo che conosciamo.
Ma perché questa nuova configurazione del mondo diventa il mondo reale?
Perché nel sistema delle comunicazioni via web l’intervallo temporale tra lo
stimolo e la risposta, tra chi trasmette e chi riceve è collassato.
Da tutto questo deriva una nuova interdipendenza, tra le tendenze sociali, economiche, culturali e politiche, che si realizzerà pienamente entro la fine del ventunesimo secolo.
Una interdipendenza che rende tutto apparentemente incerto (liquido) e certamente complesso, facendo crescere la necessità, poco importa se reale o solo immaginaria, di nuove forme di sicurezza non solo sociale.
Sotto un altro aspetto, tutto si presenta accelerato
e, per questo, vissuto in modo sempre più precario e aggressivo.
C’è continuamente meno spazio tra l’azione e la reazione, tra gli stimoli e le
risposte del pensiero connettivo, con la conseguenza che si sta formando una sorta
di contiguità tra il pensiero che pianifica e l’azione.
In questo modo la rete finisce per diventare una sorta di moltiplicatore, sia positivo che negativo, di tutti i processi reattivi portati alla luce dal comportamento collettivo. Dalle attività legate al commercio, al loisir, agli affari, allo sport e, non da ultimo, al terrorismo.
In pratica è come se dicessimo che l’inconscio collettivo sta scivolando o, se si è ottimisti, evolvendosi, verso un inconscio connettivo.
Un inconscio dove non domina più il simbolico, ma ciò che è condiviso nel wb con i social..
Questo globalismo planetario, che sta delineandosi nel nostro futuro, si fonda soprattutto su due fattori, il multiculturalismo e la condivisione dei destini.
Come dicono i poeti e i visionari di questa nuova realtà: Una farfalla sbatte le ali in Cina e in Europa trema una montagna.
Una tale condivisione dei destini è un tema importante per le scienze sociali
perché ridefinisce l’individuo dal punto di vista delle sue responsabilità sociali,
economiche, ecologiche e etiche.
In altri termini si sta sviluppando un nuovo paradigma intorno al tema della responsabilità civica e pubblica, perché globalità significa anche estensione delle responsabilità.
Non per caso nel tempo della velocità elettrica siamo tutti più vicini con il risultato che spesso il problema del mio vicino è anche il mio problema, sia che si parli di politica che di diritti umani, di economia, guerra o privilegi.
Da questo stato di cose si genera per reazione l’atteggiamento nimby – not in my back yard, non nel mio giardino.
In che cosa consiste?
Nel riconoscere come necessari, o possibili, gli oggetti o le circostanze che stanno alla base del contendere, ma allo stesso tempo nel non volerli nel proprio ambiente o nel proprio territorio a causa delle eventuali controindicazioni o disagi di cui sono portatori. …
Per concludere la “nuova modernità” si sta dunque configurando secondo tre direttrici fondamentali:
– L’interconnettività globale, vale a dire planetaria.
– Un’accelerazione mai conosciuta nell’evoluzione degli stili di vita.
– Una serie di trasformazioni ecologiche globali dovute all’interazione dei fattori evolutivi, sociali, culturali, economici e tecnologici.
Tutto questo riuscirà compatibile, osservano gli organismi internazionali, se:
– Miglioreranno le condizioni di vita. Ancora oggi più del venti per cento della popolazione globale vive in condizioni di povertà estrema.
– Se cresceranno le aspettative di vita alla nascita e se si saprà gestirle.
(L’aumento della vita media, infatti, crea dei forti problemi sociali, economici, sanitari, come dimostra in Italia la discussione sulle pensioni d’anzianità.)
– Se saranno risolti il problema dell’alfabetizzazione digitale e quello dell’emancipazione delle donne e dei più deboli in genere.
– Se sarà realizzato un accesso diffuso, libero ed economico ai mezzi di comunicazione.
– Se crescerà sia sul piano qualitativo il “prodotto interno lordo” dei paesi
industrializzati e se si svilupperanno le forme della democrazia nei paesi delle zone povere.
– Se le tensioni sociali – soprattutto quelle legate ai nuovi flussi migratori – non si trasformeranno in un rifiuto al cambiamento.
– Infine, ma non da ultimo, se non proseguirà a questa velocità la rottura degli equilibri naturali e climatici.
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Appendice uno. Chi siamo stati?
È stato un animale feroce, oggi è cattivo.
Per centinaia di migliaia di anni si è nutrito di erbaggi, bacche e frutti, poi ha scoperto i vantaggi nutrizionali della dieta carnea e ha cominciato a contendere ai piccoli carnivori le carogne avanzate dai grandi mammiferi vertebrati.
Non ha denti robusti, né artigli. Ci vede. Ma non bene. Non possiede una visione notturna. Ci sente poco. Non ha un odorato sviluppato.
Non ha neanche una muscolatura adatta alla predazione. Non ha una capacità di corsa.
Con l’orina lasciava segnali che nessuna altra specie animale prendeva sul serio.
Viveva in piccoli gruppi. Soffriva e soffre il freddo e il caldo eccessivi. Aveva e ha bisogno di un ricovero notturno.
Facile alla paura è sempre stato costretto a una produzione simbolica per tenere sotto controllo i suoi fantasmi.
I più compensati, con l’evoluzione, divennero sciamani ed anche se le loro allucinazioni si scontravano con il reale impararono a tenerlo a bada, sviluppando una capacità immaginaria notevole.
Non conosciamo ancora le modalità evolutive di questo animale ad ominide, ma possiamo arguire che si verificarono due trasformazioni importanti nella struttura della sua vita di gruppo.
Da una parte, l’acquisizione del cibo diventò progressivamente un compito collettivo, dall’altra, questa acquisizione cominciò ad essere differenziata sulla base del sesso.
La prima affermazione è una conseguenza della condizione di oggettiva inferiorità in cui si trovava l’individuo isolato che non aveva le capacità di performance dei predatori.
Qui, va da sé, non si tratta solo di strategie per migliorare la predazione, perché la caccia collettiva comporta molti elementi. Implica, per cominciare, un sistema di comunicazione gestuale e orale che sia in grado di coordinare l’azione.
In sub ordine, il rispetto di una gerarchia e l’obbedienza ad un leader, fatto che possiamo considerare naturale presso i primati.
Infine, c’è da apprezzare il formarsi di una distinzione tra il bisogno e la sua soddisfazione.
Vale a dire, di un catalogo di tattiche di caccia in relazione delle scelte che si operano, ma tutte fondate essenzialmente sulla voce e il pollice contrapposto alle altre dita, che consente alla mano di diventare assassina.
La differenziazione sessuale legata alla caccia è più controversa.
Certamente, sul piano funzionale, la disparità dei ruoli è più recente e, per certi versi, è una perversione sociale attraverso la quale si strutturano il comando e le forme di potere.
Discende essenzialmente dall’infanzia protratta del cucciolo degli ominidi che obbliga la madre ad accudirlo per tempi molto lunghi, avendo, la postura eretta ridotto il passaggio pelvico, obbligandola ad un parto prematuro.
Possiamo anche osservare che la caccia richiede, oltre all’attenzione, la vigilanza e la pazienza nel corso degli appostamenti. Soprattutto richiede, è una condizione essenziale, l’elaborazione di codici vocali che devono essere condivisi, pena la compromissione del risultato.
Da qui anche un altro aspetto dell’evoluzione umana, la specializzazione tra l’uomo cacciatore e la donna raccoglitrice e, in primis, l’organizzazione vocale degli scambi tra i gruppi perché il controllo del territorio, la savana, pericolosa quanto ricca di risorse, presupponeva delle azioni coordinate.
Esplorazione del territorio, mappatura dei luoghi, densità di rischio, concentrazione delle opportunità alimentari, socializzazione delle mappe, tutte operazioni che esigono una sincronia delle menti attraverso la voce.
Diciamo, in estrema sintesi, che un buon controllo del territorio presupponeva per questo ominide una comunicazione sistematica che solo la voce gli consentiva.
La voce, infatti, è unica ed è stata, insieme alla sopravvenuta ibridazione, la prima forma di distacco dalle grida dei primati.
La voce non è il muggire dei bovidi, o il bramire delle alci, non è il blaterare dei cammelli, il belare degli ovini, il grugnire dei cinghiali, il barrire degli elefanti o il frinire delle cicale.
La voce, e solo essa, ha consentito un salto di qualità nella connessione delle menti ed ha aperto il lungo cammino verso lo sviluppo del linguaggio verbale.
Il linguaggio, infatti, come frutto della voce, compare al termine di un processo evolutivo importante, l’abbassamento della laringe – che i nostri cugini scimpanzé e il resto della famiglia hanno ancora posizionato in alto nella gola – per dare spazio alla faringe.
La faringe – questa cassa di risonanza che consente una produzione di suoni ampia e diversificata – appare già progredita in resti fossili risalenti a circa un milione e mezzo di anni fa nell’Homo Erectus e risulta completata circa quattrocento mila anni fa con l’Homo Sapiens arcaico.
Un tale processo evolutivo della voce, che si stima durato circa due milioni di anni, ha consolidato il cosiddetto vantaggio operativo.
Un vantaggio che genera una comunicazione sistematica, dello stesso tipo di quella offerta dal linguaggio verbale che portò da una comunicazione episodica e puntuale ad una comunicazione allargata e ricca di congegni.
Un evento che si è rivelato come l’ultima specialità della specie umana superstite.
Tutto parte dalla coscienza della voce.
È questa coscienza che, per due milioni di anni, alcune specie umane – vincendo ostacoli anatomici importanti – hanno privilegiato fino a istituire, con essa, una comunicazione che ha superato restrizioni e lentezze degli apparati comunicativi ereditati dal primitivo stadio evolutivo.
Con la voce, infatti, si è installato un congegno che concentra e distribuisce un ampio spettro di contenuti operativi.
Congegno che all’inizio non poteva che essere una convenzione, un accordo condiviso dagli sviluppi allora imprevedibili.
La coscienza della voce, poi, diede vita e si portò dietro anche alcuni nessi fondamentali per lo sviluppo della condizione umana.
I nessi tra i contenuti mentali, privati ed isolabili, e le peculiari materializzazioni del registro sonoro, che sono percepibili e pubbliche e che si generarono, qui sta il miracolo dell’ominizzazione, attraverso l’esercizio coordinato di un organo del corpo umano.
È questa una delle origini culturale del canto? Forse!
Nella ripetizione, però, si fissa un’associazione cogente a cui nessuno potrà più sottrarsi.
Un’associazione tra i flussi di pensiero e gli elementi discreti in cui si forma il continuum sonoro, più veloce, duttile e funzionale dei gesti o della mimica.
Ancora una volta, in estrema sintesi, è attraverso la voce che la comunicazione verbale diventa naturale ed immediata, che la connessione tra le menti assume una dimensione compiuta e abituale.
Appendice due. I non-luoghi.
L’espressione di non-luoghi è stata coniata dall’antropologo francese Marc Augé che, nel 1992, pubblico un libro con questo titolo, sottotitolato: Introduzione ad una antropologia della surmodernità.
Augé, oggi dirige l’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi, prima di questo incarico aveva effettuato numerose missioni sul campo in Africa, soprattutto in Costa d’Avorio e Togo e in Sud America.
L’EHESS è una scuola d’élite, tra le più prestigiose al mondo, si occupa di antropologia, archeologia, demografia, diritto, economia, filologia, filosofia, geografia, psicologia, sociologia, storia. È formata da 81 centri di ricerca a cui lavorano più di cinquecento professori che arrivano da tutte le parti del mondo. Non c’è studioso francese di un certo prestigio che non l’abbia frequentata e non vi abbia studiato.
Lui stesso racconta che un giorno mentre viaggiava in metropolitana gli venne in mente che sarebbe stato un punto di vista interessante studiare i parigini con lo stesso spirito con cui aveva studiato le culture cosiddette primitive in giro per il mondo.
In altre parole, si pose il problema di descrivere la modernità del mondo occidentale dal punto di vista di chi viene da lontano, con gli occhi di chi la vede per la prima volta.
In pratica, Augé decise di considerare il “qui” ed “ora” dei luoghi della modernità senza nessun preconcetto.
Questa ottica gli consentì di portare alla ribalta alcuni aspetti critici della realtà metropolitana, a partire da una circostanza che non credeva di dover prendere in considerazione.
Il notevole aumento della solitudine delle persone, nonostante l’evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa.
Il contributo più importante che questa indagine realizzò è legato alla fisionomia di certi spazi urbani che egli definì dei non-luoghi, ovverosia, spazi pubblici o aperti al pubblico utilizzati per gl’usi più diversi, anonimi e stereotipati, privi di una dimensione storica e senza il calore del vissuto, frequentati da individui soli o da gruppi di persone in transito, che non si relazionano tra di loro.
Quali sono questi spazi?
Citiamone qualcuno alla rinfusa, sono gli aeroporti, le stazioni, i grandi alberghi, le autostrade, i loro posti di ristoro, gli svincoli stradali della periferia metropolitana, i centri commerciali, gli ipermercati, i grandi magazzini.
Il neologismo di non-luoghi per Augé definisce due concetti complementari quali sono il luogo – costruito con una destinazione d’uso specifica – e il rapporto che viene ad instaurarsi con chi ci transita, con i suoi utenti, con coloro che attraversano questo spazio.
L’espressione di non-luoghi, in questo senso, si contrappone ai luoghi antropologici classici, come sono i luoghi vissuti dagli uomini, le agorà, le piazze di paese, i mercati contadini, le biblioteche, i circoli.
I non-luoghi, nella realtà metropolitana, sono anche un’espressione importante delle strutture necessarie per la circolazione accelerata delle persone, dei beni e delle merci (come sono gli aeroporti, i raccordi e gli svincoli stradali, le autostrade).
In questo senso, fanno parte dei non-luoghi anche i mezzi di trasporto, i grandi centri commerciali, i campi profughi, le grandi fiere campionarie, eccetera.
In pratica sono gli spazi in cui le singole persone, con i loro problemi e la loro solitudine, s’incrociano senza mai entrare in relazione, il più delle volte sospinti dal desiderio di muoversi, mostrarsi, consumare, accelerare le operazioni della vita quotidiana.
Su queste persone agisce un in imperativo, tipico del comportamento ossessivo-compulsivo del consumatore, caratterizzato dal bisogno di efficienza, che induce a preferire i luoghi in cui gli acquisti possono essere concentrati, risolti in un’unica mossa consolatoria, come sono per fare un esempio gli acquisti dei beni, anche alimentari, concentrati nel megastore.
Secondo Marc Augé, questi non-luoghi sono un’espressione della surmodernità.
Vale a dire, essi non solo non sono pensati in questo senso, ma non sono neppure in grado d’integrarsi con i luoghi storici della città, anzi spesso entrano in conflitto con essi banalizzandoli.
In pratica li devalorizzano alla stregua di curiosità per studiosi, come sono i musei o i palazzi antichi, tutti luoghi che non sanno rispondere alla logica dello spettacolo che domina la modernità.
La surmodernità nei fatti è l’effetto combinato:
– Dell’accelerazione del tempo e degli avvenimenti che spesso finiscono per sovrapporsi o contraddirsi.
– Della banalizzazione dello spazio spesso connesso con il suo rimpicciolimento (psicologico) derivato dalla velocità con il quale lo si percorre.
– Dell’irrigidimento dell’individualità degli utenti dei non-luoghi in un ruolo preformato.
In questo modo, la surmodernità si presenta, allo stesso tempo, come un eccesso di senso paradossalmente reso evidente da un caos diffuso.
Conclude Augé, per questo i non-luoghi sono lo spazio deputato della surmodernità.
Un altro carattere dei non-luoghi è di massificare la cultura egemone e le sub-culture che in essi confluiscono senza minimamente integrarle tra di loro.
Spesso quando non c’è un risvolto economico questa massificazione si muove in direzione di una esasperazione calcolata delle differenze o in una ghettizzazione delle sub-culture.
Lo si può verificare a proposito del cibo che per secoli ed in ogni parte del mondo è stato ed è un fattore essenziale nei processi di socializzazione.
In ogni centro commerciale possiamo facilmente trovare un’offerta differenziata di cibi – da quelli standardizzati dalle grandi multinazionali al cibo etnico a quello biologico o naturista – tutti però rigorosamente e commercialmente separati l’uno dall’altro senza possibilità di fusione, contaminazione, integrazione.
In pratica è come se tutto il mondo fosse in qualche modo risucchiato dai non-luoghi per meglio dividersi o, se volete, toccarsi, annusarsi, conoscersi,amarsi.
Un altro carattere dei non-luoghi è legato al tempo.
I non-luoghi sono concentrati esclusivamente sul presente. Essi non conoscono nessun altra dimensione temporale.
In un certo senso sono un riflesso della precarietà che domina la modernità e ci abituano a viverla.
Nei non-luoghi si transita ma non si abita.
Ancora, i non-luoghi a prima vista appaiono tra di loro vistosamente diversi, ma solo per delle insignificanti sfumature, nella realtà è difficile distinguerli.
Sono costruiti su un’idea di spazio standard comune a tutto il “mondo commercializzato”, uno spazio che sembra disordinato, ma non è così, perché se lo si osserva con attenzione si vede che è calcolato con precisione maniacale in ogni suo aspetto, dai volumi alle luci, alla lunghezza dei percorsi, dall’intensità dei suoni ai luoghi di sosta, ai sistemi informativi che orientano il visitatore.
Sono spazi efficienti, moderni e coerenti dal punto di vista ergonomico, dalle porte automatiche, al condizionamento del clima, addirittura alle aree odorose che identificano i vari comparti.
Sono anche spazi omogeneizzati che offrono – con la formula del franchising – la ripetizione infinita di strutture commerciali simili tra di loro che devono creare l’illusione di poter scegliere.
Perché i non-luoghi hanno questo assetto percettivo?
Perché gli utenti, i passeggeri, chi semplicemente transita in questi non-luoghi devono essere rassicurati sul fatto di poter trovare in qualsiasi parte del mondo gli stessi stereotipi compositivi.
Devono, per esempio, sentirsi sicuri di ritrovare la catena di fast-food che amano, le marche e i prodotti commerciali che usano, la stessa disposizione degli spazi, le stesse regole di circolazione, le stesse norme di comportamento, gli stessi volumi, gli stessi suoni, gli stessi rumori e le stesse musiche.
Qui, siamo in presenza di un altro dei paradossi funzionali dei non-luoghi.
Il viaggiatore in transito in un paese sconosciuto che si sente in qualche modo disorientato ritrova nell’anonimato dei non-luoghi – come sono gli aeroporti, la stazioni di servizio, le autostrade – un motivo di conforto e di sicurezza.
Nei non-luoghi, si comunica con una neolingua, si “parla” per così dire:
– Attraverso dei simboli, vale a dire, una segnaletica unificata.
– Con parole d’ordine standard, vietato fumare, non superare la striscia bianca, svoltare a destra, vietato sostare, eccetera.
– Ascoltando e reagendo alle voci preregistrate, suadenti e femminili specialmente quando contengono inviti sia nella lingua del luogo in cui sorge il non-luogo che in un inglese basico sempre più popolare.
In questo modo nei non-luoghi non c’è un grande spazio per i ruoli personali. Tutto si organizza sulla relazione tra utenti consumatori o fruitori e servizi.
Questi utenti sono l’uomo medio, l’uomo generico o se volete, l’uomo senza qualità, non importa che lo sia veramente o accetti di farsi considerare tale.
In questo senso nei non-luoghi si è individui anonimi e in questa condizione c’è l’imprinting di una libertà perversa posta all’esclusivo servizio del consumo.
Non c’è mai neanche un contatto interpersonale, una conoscenza individuale, spontanea o cercata su una reciproca interazione di valori.
Nei non-luoghi non ci sono nemmeno i gruppi sociali, tutt’al più branchi di turisti o di giovanissimi. Quest’ultimi però essendo consumatori mediocri sono confinati a sostare sugli ingressi, come a presidiarlo.
Consideriamo adesso i non-luoghi in un contesto più ampio.
Se ci muoviamo dal centro urbano di una qualunque città occidentale verso la sua periferia costatiamo che la forma della città si sfalda fino a svanire.
In pratica un continuum senza ordine subentra progressivamente alla forma urbana punteggiata da infrastrutture.
In questo modo, i luoghi urbani, intesi in chiave morfologica, finiscono per contrapporsi ai non-luoghi della metropoli diffusa.
Questi non-luoghi si sono sovrapposti alle eterotopie, cioè alle realtà de-territorializzate di un tempo, alle zone di transito o ai dormitori che una volta rendevano povera la periferia.
Se si osserva bene c’è un po’ dappertutto una perdita di centro – topografico e sentimentale – dello spazio urbano e l’avanzare di nuove centralità che in qualche modo lo rifiutano.
Sono centralità che si organizzano soprattutto lungo gli assi delle infrastrutture della circolazione, del commercio e della residenza, hanno un carattere nomade, che si misura sulla distanza dal centro storico.
Tendono a privilegiare la breve durata, l’effimero. cioè, non aspirano a diventare dei luoghi vissuti, dei monumenti della memoria locale.
Queste centralità si caratterizzano per la loro vitalità fondata sui consumi, per la loro capacità di trasformarsi rapidamente, così da resistere all’obsolescenza non programmata, al deperimento e all’abbandono.
In breve questi non-luoghi hanno una notevole capacità di adattamento e di riconversione che li rende unici, sono luoghi non abituali, non permanenti, connessi alla logica delle mode e della fruizione “mordi e fuggi”.
Con un certo pessimismo sono stati definiti come dei paesaggi della dispersione, delle isole in cui confluiscono disperazione e sconforto, perché da una parte hanno cancellato i confini classici della città, dall’altra hanno fatto lievitare i conflitti e contribuito a costruire aree di scontro sociale.
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FINE.