Quarta lezione.
Da poco si è conclusa alla Kunsthalle di Düsseldorf un’esposizione intitolata “Eating the universe”, il titolo, dicono i curatori, è inspirato al lavoro dell’austriaco Peter Kubelka che molti anni fa tenne un corso su cinema e cucina, partendo dalla pratica della cucina come metafora di molte emozioni legate alla vita corrente.
Questa esposizione tedesca inizia, com’è naturale, con Daniel Spoerri per arrivare agli ultimi esperimenti sul cibo. Esperimenti per certi versi sempre più contaminanti e contaminati da ciò che ruota intorno all’argomento degli atti alimentari, come sono i temi antropologici, ecologici e sociali oltre che formali, cioè, legati al destino dell’arte.
Peter Kubelka è un produttore indipendente ed un artista che ha lavorato su più fronti, architettura, letteratura, musica, pittura e cucina. In 1964 he co-founded the Austrian Film Museum and was its curator for many decades. Nel 1964 ha co-fondato l’Austrian Film Museum, ed He is also co-founder of the Anthology Film Archives in New York City.
è anche co-fondatore della Anthology Film Archives di New York City. In questa sua veste di artista poliedrico ha tenuto, In 1978, he became professor in film and video at the Frankfurt School of Fine Arts, where he also served as Rector from 1985-88.
Ha tenuto, presso l’Accademia di Belle Arti di Francoforte, dei corsi di cibo nel cinema o, meglio di food-cinema.
Dobbiamo da subito rilevare come l’incontro di cinema ed atti alimentari ha da qualche tempo creato un nuovo genere cinematografico in cui la materialità degli atti alimentari si stemperano nell’immaginario cinematografico e diventano “racconto”, impronta di senso, stile di vita.
Di più, come si vede anche nel cinema commerciale, l’immaterialità della pellicola (o del codice binario) contribuisce a creare altri valori, soprattutto sul piano iconografico, sia in senso positivo che negativo, come succede con la sessualità quando precipita nel cattivo gusto della pornografia fine a se stessa. Va osservato che su questo versante gli atti alimentari quando diventano una metafora del desiderio possono addirittura riscattare la crudezza della sessualità.
Dicendo crudezza vogliamo dire che essi attraverso la cultura, in senso antropologico, cuociono il senso. Valga per tutti il caso dell’uovo nella vagina della protagonista dell’Impero dei sensi (1976, regia di Nagisa Oshima) che “partorisce” l’uovo della passione” nella sua algida perfezione di oggetto simbolico.
Notiamo anche, en passant, che l’interesse dei musei per l’art-food mostra come queste organizzazioni abbiamo superato, dopo un lungo dibattito come è avvenuto negli Stati Uniti, i timori per la deperibilità delle opere anche se non si può dire la stessa cosa per il collezionismo privato.
In ogni caso due soluzioni si sono fatte strada, quella di considerare la documentazione cartacea e non come un’opera o, meglio, una ”metaopera”, e quella di usare accorgimenti chimici per prolungare la conservazione delle opere nel tempo e la loro eventuale modificazione, come, per fare un esempio intuitivo, la perdita di liquidi, intesa come un divenire dell’opera. In ogni modo, prima di tracciare una breve storia della eat-art proviamo a definire un concetto che mediamo dalla psico-analisi, la sublimazione.
Questo concetto ci è utile per comprendere come del cibo, delle preparazioni cucinarie o certe ritualità degli atti alimentari possono diventare o essere apprezzati come opere d’arte, cioè, subire una metamorfosi estetica. In psico-analisi il termine sublimazione (Sublimierung) rinvia e media tre concetti, il sublime così come è inteso nelle Belle-Arti, la sublimazione in chimica, che definisce il passaggio da uno stato solido ad uno gassoso, e il sublimale in psicologia, come ciò che si colloca al di là della coscienza.
Sigmund Freud ha concettualizzato questo termine nel 1905, in Tre saggi sulla teoria della sessualità, per definire una particolare attività umana: quella intellettuale. Secondo Freud, le creazioni dell’uomo in campi come l’arte, la scienza, la ricerca teorica sono prodotte dalla pulsione sessuale benché appaiono molto lontane da questa loro origine. Attraverso il processo di sublimazione il bersaglio della pulsione (Trieb) può essere ugualmente raggiunto, malgrado il cambiamento d’oggetto, e la soddisfazione ottenuta è psichicamente comparabile, anche se per molti è discutibile, a quella raggiunta per via sessuale.
La sublimazione sarebbe dunque ciò che soddisfa le esigenze della civiltà permettendo il compimento delle più grandi opere dell’uomo, senza incappare nella rimozione. In effetti per comprendere la sublimazione occorre traguardarla con la nozione di pulsione (Trieb), un processo dinamico che spinge alla soddisfazione di uno scopo. Ci sono tra destini possibili per la pulsione. Essa può inibire un desiderio di sapere. Può essere una compulsione a pensare. Può risolversi nella libido. In questo senso la sublimazione si presenta come una trasformazione della libido in desiderio di sapere. Una libido che sfugge alla rimozione.
Successivamente Jacques Lacan, nel dopoguerra, riprese la tesi di Freud e nel VII seminario, dedicato a “L’etica della psicanalisi”, la collega ad un nuovo concetto che ha elaborato, quello di Das Ding, “La Cosa” e propone una nuova formula: la sublimazione eleva un oggetto alla dignità della Cosa, dell’evidenza che costruisce il senso. È quello che avviene, per esempio, nell’amor cortese dove l’oggetto femminile appare sublimato e promosso alla dignità della “Cosa”, isolato nella sua astratta rappresentazione, in questo caso il senso collima con il feticismo, benché questo non abbia alcuna corrispondenza con l’effettiva condizione delle donne nel Medio Evo, del tutto prive di libertà propria. Osserviamo anche come nella Poetica Aristotele (384-322), introduce nell’arte un’idea che è analoga al concetto psico-analitico di sublimazione. Questo filosofo sosteneva che una volta introdotto nelle arti il principio dell’imitazione della natura, attraverso la sublimazione, si potevano trasformare in piacevoli le cose ripugnanti, come se l’arte fosse un’alchimia che muta in oro il piombo della vita.
Da un punto di vista storiografico la eat-art è una corrente artistica apparsa negli anni ’60 su impulso di Daniel Spoerri. Spoerri è nato in Romania. Durante la guerra, nel 1942, il padre viene ucciso dai nazisti e la famiglia è costretta a rifugiarsi in Svizzera, a Zurigo, qui, Daniel inizia a studiare danza classica e successivamente si dedica alla coreografia, si interessa alla poesia, in particolare quella concreta e visuale e svolge anche una intensa attività di regia.
Trasferitosi nel 1959 a Parigi, entra in rapporto con numerosi artisti che operano nella città tra cui Pol Bury, Jesus Rafael Soto, Marcel Duchamp, Man Ray e Robert Filliou. Sempre a Parigi, fonda la casa editrice MAT (Multiplication d’art transformable) e inizia la sua opera di artista inventando i tableaux-pièges (quadri-trappola). Nel 1960 elabora, con altri, il Manifesto del Nouveau Réalisme. Nel 1964 è a New York e prende contatto con gli artisti del gruppo Fluxus.
Dopo due anni di ritiro volontario sull’isoletta greca di Simi (nell’Egeo), apre nel giugno del 1968 un ristorante a Düsseldorf, nel quale serve cibo preparato da lui stesso. Nel 1970 apre, nei locali sovrastanti questo ristorante, la Eat Art Galerie, che è anche l’editrice di numerose pubblicazioni sue e di molti altri artisti. Dal 1989 vive la maggior parte del tempo in Italia, dove comincia a costruire, in Toscana, un parco-museo nel quale raccoglie opere sue e dei suoi amici. Nell’ambito della Eat Art nel 1992 progetta il ristorante che costituisce il centro del Padiglione della Svizzera all’Esposizione universale di Siviglia.
La eat-art ha o, meglio, aveva come obiettivo l’utilizzazione degli alimenti nella creazione artistica esaltandone l’effetto effimero spesso ad un passo dalla nostalgia. Eat-art, alla lettera è il “mangiare l’arte”. In altri termini, rappresenta l’ennesima e forse più originale poetica nata per desacralizzare il processo artistico dal suo ruolo di costruire degli oggetti immutabili. Il cibo, infatti, è per definizione deperibile e la eat-art non solo poteva essere fatta da tutti, ma – e questo è originale – ripetuta in una catena di continue riedizioni tutte assolutamente legittime, com’è nella spirito di una ricetta in cucina o di una partitura di musica in un conservatorio.
Come abbiamo accennato la “piccola storia” racconta che Spoerri cominciò ad incollare i piatti e le suppellettili, allora realmente usati nel corso di un pranzo (non sfugga la nota feticista perché è quella che genera la sensazione di “vissuto” delle opere) – dalle posate, ai bicchieri, al pacchetto di sigarette, al posacenere – su delle tavole esposte poi in verticale con il sostegno, in principio, e la complicità di un critico d’arte, Pierre Restany e di un grande artista, Jean Tinguely.
In seguito queste tavole furono chiamate tableaux-pièges, “quadri trappola”, era un modo per catturare l’aspetto effimero della vita corrente, la sua banalità che tradisce e acceca, conferendo loro un’aurea metafisica, di reliquia, un aroma di nostalgia della domenica. In questi anni in Francia dominava nel romanzo e nel cinema la poetica dello sguardo, organizzata intorno alla rivista Tel Quel, fondata da Philippe Sollers e Jean-Edern Hallier.
Pierre Restany (1930-2003) è un milanese d’adozione, come Stendhal, a Milano ha vissuto per lungo tempo scrivendo su Domus e D’Ars e presentando le sue proposte soprattutto attraverso la Galleria Apollinaire. Qui, nell’ottobre del 1960, rese pubblico il manifesto del Nouveau Réalisme, che può essere considerato la risposta europea al new-dada americano. Gli artisti che ne facevano parte erano accomunati, infatti, dall’interesse per gli oggetti e i materiali di scarto della realtà quotidiana, compresi quelli alimentari, ai quali cercavano di conferire un nuovo valore estetico. A differenza del new–dada, che questo valore estetico non esitava a cercarlo ovunque e ad esaltarlo per come appariva, inconsueto e povero, esemplare sono le scatole di Brillo di Andy Warhol, il nuovo realismo non voleva rinunciare al suo senso critico e, dunque, aspirava, lo constatiamo in chiave retrospettiva, ad un arte con forti connotazioni sociologiche. Milano, che ha visto l’esordio ufficiale del movimento, fondato qualche tempo prima a Parigi, è stata testimone anche della sua crisi, nel 1970. Alla fine di quest’anno in occasione di un festival auto-celebrativo della sua storia e della sua impossibilità di continuare a vivere, che ha coinvolto quella che allora i pubblicitari definivano una “città-da-bere” con spettacoli e performance, si è prosaicamente auto estinto con un’Ultima Cena di Daniel Spoerri, tra lazzi e lacrime, recriminazioni e rimpianti.
Torniamo a Spoerri. Con il successo accentuerà queste sue ricerche e cercherà di valorizzare la eat-art con l’apertura di un ristorante inteso come un legame sociale e un paradigma della convivialità. In un altro contesto si dovrebbe considerare anche un elemento biografico, che qui sorvoliamo, la cultura ebraica della sua giovinezza e l’importanza della cucina in questa cultura soprattutto in relazione alla diaspora. Una cucina che rappresenta una vera è propria identità collettiva e culturale. In principio fu un ristorante effimero, durò solo il tempo di una mostra presso la Galerie J di Parigi, diretta da Iris Clert, una delle più prestigiose gallerie d’arte d’avanguardia che operò tra il 1955 e il 1971. Il meccanismo era così congegnato, i visitatori si sedevano ad un tavolo e mangiavano, alla fine del pasto ciò che restava sul tavolo veniva incollato e riceveva un attestato di autenticità firmato. Il successo di questa iniziativa, come abbiamo già accennato, lo spingerà ad aprire un vero e proprio ristorante a Düsseldorf. Tra i molti amici che lo spronarono in questi anni dobbiamo assolutamente ricordiamo Dorothée Selz.
Di questa stagione della eat-art ricordiamo in particolare la cena cannibale, del 1970, organizzata con Claude e François-Xavier Lalanne. Era una performance nella quale gli invitati mangiarono dei simulacri di carne umana, vale a dire delle parti del corpo ricostruite con degli stampi. Tutto perfettamente edibile, ma orribile a vedersi, come le orecchie al burro, piedi di pane, dita di pasta al sugo di pomodoro. Non è mai stata ripetuta, anche se nella eat-art spesso le cene si ripetono, soprattutto quando sono a tema, come quelle palindrome o quelle nelle quali un colpo di dadi decide se mangerai il menu dei signori o quello dei poveracci.
A Milano, qualche anno dopo l’ultima cena che chiude la stagione del nuovo realismo, allestirà una cena astrologica, raccogliendo intorno ad un tavolo persone con lo stesso segno zodiacale. (Chi scrive ricorda con piacere e malinconia come nel corso della cena dedicata al “capricorno” litigammo apparentemente per futili motivi, ma da lui istigati. Non ci siamo più rivisti ed è giusto che sia così, io sono un comunista, lui non può esserlo per destino e il contendere non-detto era questo.)
Oggi la eat-art può essere considerata in due modi. Come una corrente poetica degli anni ’60 del secolo scorso o come un modo di legare la cucina alla creazione artistica e la creazione artistica ai fornelli. In questo secondo modo ha anche un altro nome, food–art.
Va anche osservato, d’altro canto, come alcune preparazioni di food-art possono essere accostate alla nouvelle cuisine degli anni ’70, soprattutto dal punto di vista dell’astrazione. Un grande rivolgimento, sul piano morfologico, si è poi verificato ad opera della cucina molecolare.
Se da un punto di vista meramente gastronomico questa cucina ha più di un punto discutibile, è indubbio che essa ha in qualche modo operato una sorta di detournement, di dirottamento, di decostruzione e ricostituzione di molte preparazioni cucinarie attraverso delle mélange gustative spesso curiose ed esotiche e sempre improbabili nell’ottica di una ortodossia da haute–cuisine.
Il detournement è un metodo di straniamento che modifica il modo di vedere oggetti comunemente conosciuti, strappandoli dal loro contesto abituale e inserendoli in una nuova, inconsueta relazione per avviare, a partire da essi, un processo di riflessione critica. Questo metodo viene utilizzato in ambito visuale per mezzo soprattutto di collage, tuttavia si possono detournare anche oggetti, come ha fatto senza volerlo Duchamp o concetti, anche politici e di costume: è il caso del plagio digitale e analogico della rivista americana Adbuster. Il metodo del detournement venne teorizzato per la prima volta dai situazionisti nel 1957, in particolare da Guy Debord. Di fatto, molti artisti si servono o si sono serviti del detournement, oltre a Marcel Duchamp con i suoi ready-made, ricordiamo Joseph Beuys, con i suoi happening sulla “museificazione” di oggetti quotidiani. In sostanza è un metodo per demistificare la cosiddetta cultura alta o di élite. Roland Barthes ha acutamente identificato il ruolo del detournement quando ha affermato che la miglior sovversione non consiste nel distruggere i codici, ma nel distorcerli. Di sfuggita ricordiamo un’altra eat-art, che non si mangia, è quella di René Magritte, una forma di realismo magico. Dipinge una mela e poi ci mette in guardia, questa non è una mela, perché non si tocca, non si mangia, non si può morsicare. Un’operazione che capovolge quella di Paul Cezanne, che dipinge delle mele così realistiche da non essere più mele ma forme di arte pura, pretesti cromatici.
Paradossalmente, più ci avviciniamo al cibo più cresce, come un polverone, intorno ad esso un certo moralismo di maniera. Non c’era nella pittura del diciassettesimo secolo quando sulla tela si celebrava la carne, nel senso ambiguo del termine (per altro risolto spesso in chiave linguistica con due espressioni distinte, come viande e chair o meat e flesh ), come orribile spettacolo di macello o di carnaio e come apologia della passione, nell’eterno scontro tra Thanatos ed Eros.
Spesso, poi, la eat-art – per continuare a chiamarla così – è la metafora di un autoritratto psicologico. Braillat-Savarin nella sua fisiologia del gusto (1825) aveva affermato: “dimmi quello che mangi e ti dirò chi sei”, basta pensare alle zuppe Campbell di Andy Warhol o alle madeleines di Marcel Proust per rendersi conto della giustezza di questo assioma.
In teoria resta un problema di fondo, quello della capacità della cucina a dare vita a delle forme artistiche condivisibili senza scadere nello strapaese della tradizione o nei localismi.
Come tutti convengono a partire dal simbolismo si è fatto strada un convincimento, che esiste un potenziale estetico anche per i sensi che non hanno subito delle metamorfosi educative legate al gusto e al mito della bellezza come è successo per la vista e l’udito. Nella cultura occidentale solo dopo la seconda guerra mondiale si è arrivati ad ammettere una dimensione estetica per la sensualità o il “sensualismo”. La gastronomia, in pratica, ha conquistato un posto accanto ai profumi e alle strutture tattili e termali. Di per sé costituiva un’arte minore, perché anche se non possiamo negare a nessuno dei sensi un valore estetico, storicamente nessuna cultura aveva mai classificato la cucina tra le Belle Arti. In altri termini l’estetica ha faticato ad accettare la cucina come una poetica suscettibile di produrre opere d’arte perché non apparteneva a nessun sistema di classificazione.
A livello d’aneddoto ricordiamo, a questo proposito come nel 1825 Brillat-Savarin avesse inventato una musa, Gasterea, la plus jolie des Muses. A chi gli faceva osservare che non c’era posto per questa musa tra le altre nove, Brillat-Savarin spiegava che, se era solo per questo, anche la pittura e la scultura non ne facevano parte all’origine, ma che erano state aggiunte in seguito.
Abbiamo accennato a Dorothée Selz. All’inizio della sua carriera di artista ha seguito Spoerri nelle sue avventure. Oggi è divenuta molto popolare di per sé, con le sue sculture commestibili, con le sue feste, i continui richiami all’esotismo, all’ecologia e alla cromaticità. Un progetto che ha contribuito ad evidenziare una moda, quella dei cultural studies.
Le definizioni in questo genere di poetica si sono fatte numerose. Olivier Assoluly, un autore che da tempo s’interessa al tema degli alimenti e del sacro, ha coniato l’espressione di Cuisine éclairée. Altri parlano di cuisine conceptuelle, o, anche di design culinaire o “design Q”. A fianco della Salz dobbiamo da subito ricordare anche Sonja Calle con i suoi repas chromatique e Michel Blazy, che preferisce riferirsi al mistero del vivente e alle sue metamorfosi, come la decomposizione.
In ogni modo, da qualche tempo Blazy lavora con i ragni, le puree di legumi, le mele, le rape i bouquets di spaghetti e, ancora, le lenticchie, la farina di grano, la pancetta, i biscotti in scatola, il cibo per cani, le orecchie di maiale.
Qui andrebbe aperto un altro fronte, è il capitolo che lega il femminile all’art-food, soprattutto a partire dalle avanguardie storiche, un capitolo di ossessioni, di piaceri, di abusi. Rinviamo al catalogo della mostra “Les images affamées, Femme set nourritures dans l’art. Da la nature morte aux désordres alimentaires, che si è tenuta ad Aosta nel 2005. L’illazione sui disordini alimentari è squisitamente femminile e del resto solo le donne creano il mondo, lo mangiano e lo vomitano…troppo vicino alla vita materiale!
Non possiamo non ricordare di seguito Vanessa Beecroft, un’artista italiana che vive negli Stati Uniti. In una delle sue prime opere, il Libro del cibo mostra – esaltandola – una ossessione compulsione per i pasti consumati quotidianamente nel corso di molti anni, dal 1985 al 1993.
Di recente si è anche occupata dei riti che trasformano un banchetto in un’opera di teatro o in un tableau vivant o, che fanno regredire questi a quello dal quale sono partiti.
La Beecroft ha presentato alcuni di questi lavori al Castello di Rivoli, è uno spunto per segnalare una recente iniziativa torinese di Michelangelo Pistoletto. Nel progetto della sua factory, intitolato Love Difference, ha coinvolto alcuni pasticceri in una ricetta di gelato all’halva, in pratica al gusto di sesamo, qui gli obiettivi sociali e culturali hanno finito per lo sfidare il ridicolo in nome di una mediazione culturale.
Ritorniamo al nostro tema, spazia dalle Vanitas delle nature morte fiamminghe all’attimo in cui si posano le posate sul piatto di Spoerri, quell’ attimo di un ritorno all’ordine delle cose, carico di minuscole inquietudini. Le cucine dei ristoranti, del resto, sembrano siano diventate le aule di un nuovo modo di pensare le accademie di Belle Arti, cioè, un nuovo spazio di creazione.
Il contenuto della eat-art ha sovente dei risvolti psicologici o si avvale di essi per essere efficace. Lo vediamo nell’opera collettiva realizzata da alcuni studenti dell’Accademia di Belle Arti d’Amburgo. Consiste in un enorme scodella piena di zuppa fumante intorno alla quale siedono una decina di commensali. Il fondo di questa scodella però non è parallelo all’orizzonte e non si vede con il risultato che ad un certo punto alcuni non hanno più la zuppa da raccogliere con il cucchiaio, una metafora del mondo globalizzato e della fame che scatena nel mondo. A questo punto dobbiamo considerare un altro aspetto del cibo nell’arte. Vale a dire la sua centralità come tema.
Una delle prime sculture legate al cibo è di Pablo Picasso, risale al 1914, rappresenta un bicchiere d’assenzio in bronzo con sopra un vero cucchiaio d’argento sul quale a sua volta è appoggiata una zolletta vera di zucchero. Rappresenta un modo sintetico di esaltare il tema dell’assenzio, allora al centro di una polemica sui disastri sociali dell’alcolismo, non per caso un anno dopo, nel 1915, l’assenzio e i suoi derivati finiranno fuori legge e soltanto da qualche anno si è ricominciato a produrlo. In questa scultura, come in molte altre opere di pittura cubista, dove compaiono bottiglie o bicchieri, l’oggetto è un pretesto che calca la rappresentazione. La stessa osservazione, con le opportune distinzioni vale anche per Duchamp quando dichiara che la scelta dei suoi ready-made è sempre avvenuta senza badare all’estetica dell’oggetto, anzi, come lui stesso scrive, in presenza di un’anestesia totale. Lo stesso vale per Jean Miro e molti altri.
Diversa è la questione per la pop-art, il cibo o gli oggetti che compaiono in questa poetica dell’effimero mercantile, dalle scatole di zuppa di Andy Warhol alle sculture in zucchero di Claes Oldenburg, non sono altro che frammenti estetici scavati nell’archeologia dello spettacolo e sottovalutati fino a quel momento, frammenti di una American way of life. In questo modo l’oggetto è paradossalmente ri-simbolizzato nella sua banalità. Si nutre di vere e proprie ambiguità semantiche, come nel caso di Tom Wesselmann che riscrive un modello di sensualità americana dove food, cucine con frigoriferi rosa e donne più o meno discinte e infantilizzate dal segno pittorico sono un Eden del desiderio.
Solo con la eat-art, a partire da Spoerri ma non per suo merito, il cibo acquista una sua centralità sia come materiale più o meno deperibile, sia come forma e sia come oggetto carico di significati culturali. Diventa rappresentazione. Come con la pipa di Magritte, gli hamburger nella pittura di Robert Indiana diventano delle vere e proprie icone americane. Basta considerare la fine penosa della parola “LOVE” diventata una scultura da sala d’aspetto o da giardinetto con fontana, un vero e proprio gadget di questa stagione americana in cui i contenuti che fanno il popular sono saliti all’ordine del giorno. Diversa, invece, è l’icona del pollice di zucchero rosa di César del 1978, o le accumulazioni di coni gelato di Arman.
Va osservato come ciò che resta di commestibile nella eat-art è ciò che la raccorda all’opera di certi pasticceri e cuochi d’avanguardia. Una zona oscura, per il fegato dei buongustai, che cambia continuamente di geometria e che ha avuto nella cucina molecolare uno dei suoi esiti imprevisti, con l’invito di Ferran Adrià all’esposizione internazionale d’arte di Kassel e l’accusa di pericolosità di certe preparazioni alimentari che scherzano troppo con la chimica e i suoi derivati emulsionanti.
Antoni Miranda e Dorothée Selz che a partire dal 1968 hanno spesso lavorato insieme hanno definito i loro dolci come “trasfert cannibalici”. Perché essi “inglobavano” oggetti non commestibili in una relazione cannibalica sottolineata dal fuori scala. Esemplare un’opera della Selz, una piccola stazione ferroviaria, del 1978, realizzata con lo zucchero, ma completata con particolari di ferrovia da modellismo. Qui siamo in presenza di un ulteriore punto di un certo interesse funzionale. La contraddizione tra la eat-art, come una poetica le cui opere possono essere ripetute, e le “sculture ricordo” – in zucchero, cioccolato o altri materiali, come sono i vasellami o i combinati – che finiscono nelle collezioni e nei musei. Le abbiamo chiamate “sculture ricordo” per la loro ambiguità che si gioca tra la loro sostanza materiale e la loro ambigua, sottile, seducente allusione figurativa.